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12
marzo 2013
Un genio di nome Nam June Paik
Progetti e iniziative
Raramente si affacciano sulla scena artisti poliedrici come Nam June Paik: compositore e performer nomade e cosmopolita per vocazione. Sperimentatore ante litteram di crossing media, pioniere della video arte, appassionato di sincretismi tra musica e arti visive. A vent’anni dal Leone d’Oro vinto alla Biennale di Venezia, la Galleria Civica di Modena lo ripropone con una mostra
Il primo lavoro di Nam June Paik performer è a Colonia con Karl Heinz (1958-63), ma il vero battesimo avviene con l’incontro folgorante con Gorge Maciunas (1961), fondatore del movimento Fluxus. Paik partecipa ai suoi festival e tesse relazioni con diversi artisti da Oriente a Occidente. Nel 1963, stupisce i colleghi con un’installazione di 13 video-monitor le cui immagini vengono distorte attraverso l’uso dei magneti. L’anno dopo si trasferisce a New York, l’indiscussa capitale delle seconde avanguardie storiche, dove stava tramontando la Pop Art e già albeggiava l’era tecnologica, in cui l’oggetto del desiderio non era ancora uno smartphone o un tablets, bensì la televisione: focolare domestico della cultura massmediatica. Attraverso oltre cento lavori, dagli anni Settanta ai Novanta, provenienti da importanti collezioni italiane, la mostra “Nam June Paik in Italia” (a cura di Silvia Ferrari, Serena Goldoni e Marco Pierini) rivisita il rapporto e l’amore dell’artista per il nostro Paese, la patria del “bel canto”, dell’opera lirica, di cui si innamora vedendo la Traviata da piccolo a Seul e poi studiando la storia dell’arte. Il coup de foudre tra Paik e l’Italia, di cui è stato assiduo frequentatore, ha dato i suoi frutti, in particolare in Emilia, dove ha trovato lungimiranti collezionisti e appassionati galleristi, prima tra tutti Antonia Zaru, che con l’artista ha intrattenuto un rapporto duraturo e fecondo, poi Rosanna Chiessi e Carlo Cattelani.
La mostra nasce “in casa”, organizzata e coprodotta dalla Galleria Civica e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena (in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti di Parma) e punta sulla riqualificazione del proprio patrimonio locale, quello meno noto dell’attività in sordina di piccoli, grandi collezionisti e galleristi che, senza troppo rumore, giorno dopo giorno, investono nell’arte contemporanea per passione, accumulando opere, promuovendo mostre e iniziative che col passare del tempo documentano le evoluzioni sociali e culturali. Anche il catalogo (in fase di pubblicazione) sarà un regesto cronologico delle opere, perfomance, mostre e presenze di Paik in Italia, mai realizzato prima, oltre ad offrire una dettagliata bibliografia.
Il nucleo principale della rassegna è costituito dai lavori di proprietà di Antonia Zaru, ma sono anche sono esposti documenti e filmati ritrovati in seguito a una approfondita ricognizione condotta sul territorio emiliano, dove Paik ha trovato ospitalità, amicizia e molte occasioni di proficui scambi culturali. Il percorso espositivo inizia a Palazzo Santa Margherita, con una carrellata di fotografie, video, un violoncello in plexiglass e altri lavori del periodo Fluxus di Paik, tra gli anni Sessanta e Settanta, quando con John Cage e Kaprow, pratica l’happening e la perfomance. L’artista è stato precursore di esperimenti interdisciplinari, mescolando i media, tubi catodici e la modulazione delle immagini elettriche, combinando zen e scienza, caso e tecnologia. Nel corso della sua carriera ha lavorato con Peter Moore, Laurie Anderson, Joseph Beyus e Merce Cunningham e in mostra ci sono video e fotografie che raccontano in particolare la collaborazione, concentrata tra il 1964-1974, con Charlotte Moorman (1933-1991), magnetica violoncellista, dall’incarnato pallido come la luna e dallo sguardo di gatta, la “nonna” della performance (prima che Marina Abramovic si autodefinisse tale) che trasformava il suo corpo in uno strumento musicale, associando musica, elettronica ed erotismo.
Il debutto in Italia di Paik avviene il 18 giugno del 1966, in occasione della Biennale di Venezia, quando con Moorman inscenano la performance Gondola Happening, sconvolgente per l’epoca: scivolando sui canali sospinti dal gondoliere, eseguivano la loro rivisitazione di “26’1.1499” for a sing player di John Cage e delle variazioni su tema di Saint-Saens. Nel 1974, grazie a Francesco Conz, la coppia dell’arte contemporanea si esibisce anche ad Asolo con la perfomance Zen Smile. In questo periodo, Paik conosce Rosanna Chiessi e Peppe Morra e con Conz pubblicano in 15 esemplari (1975) una strepitosa cartella con 59 fotografie in bianco e nero e 15 a colori, che in prevalenza documentano le attività performative con Moorman, più 5 serigrafie, un disegno e manifesti.
Tra gli anni Ottanta e Novanta Paik è di casa in Italia: vince il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia assegnato al padiglione della Germania, rappresentato da lui e da Hans Haacke. In questi anni subentra Antonia Zaru, esegeta di Paik, che favorirà la sua presenza e la diffusione del suo lavoro nel nostro Paese. In mostra c’è l’opera che rappresenta la sintesi della sua poetica già globale, prima dell’avvento di internet e di Google, Good Morning Mr. Orwell, la prima installazione via satellite della storia, trasmessa a capodanno del 1984 simultaneamente da Parigi e New York: un inno alle potenzialità dei media che da un capo all’altro del mondo creano relazioni e scambi, coniando un immaginario cosmopolita. Lo caratterizza il suo approccio ludico e positivo nei confronti della tecnologia, che dagli anni Novanta ha rivoluzionato il nostro modo di percepire e rappresentare il mondo. Per Paik, Orwell aveva fallito, era un entusiasta della tecnologia e non la considerava un problema, bensì un’opportunità di scambio tra generi e linguaggi diversi: un’opera aperta sul futuro, mescolando, scienza, filosofia zen e un certo gusto kitsch per l’assemblaggio di eco New dada, all’insegna di fare oggetti di ordinaria ironia.
Spicca nella seconda sala della Galleria Civica, e catalizza l’attenzione dei bimbi, la grande videoinstallazione–scultura It rains in Roma (1991), un cuore che contiene tre tv che proiettano immagini –souvenir di Roma, come omaggio alla città, poi c’è l’ironica videoinstallazione Hillary Clinton (1997), ritratta come una Venere, rielaborando quella di Botticelli. In una teca ci sono le tazze d’autore (1995) create per la Illy Collection (la serie “Grandi maestri”) e in una piccola sala-cappella, invita alla meditazione Sacro e Profano (1993), videoinstallazione composta da due televisioni che proiettano un corpo nudo di donna, spezzato a metà, con sopra un Buddha nella stessa posizione della Venere di Urbino di Tiziano.
Nella Palazzina Dei Giardini, tralasciata la parte storica, si entra in Paikland, un mondo dove è più evidente il suo spirito dissacrante, ludico e meditativo al tempo stesso, in cui i reperti di scarto tecnologico assumono nuova energia. In questo edificio da brivido e dalla decadente bellezza, all’entrata da il benvenuto Paik tv Philip (1975), una carcassa di tv svuotata con dentro una candela accesa; pare un requiem a questo mezzo ormai obsoleto, oggi sostituito da internet. Nelle altre sale fanno capolino alcuni robot, assemblaggi amabili, naif e teneri di materiali vintage, come radio d’epoca, transistor e tv. Si fa notare l’Hecce Homo (1989 della serie di Robot), e le bonarie figure antropomorfe che ricordano Wall-E, il personaggio del film prodotto dalla Pixar (2008), composte con monitor, pianole e altri reperti tecnologici. E domina la sala la celebre Sfera /Punto elettronico (1990-1992): un imponente mondo fatto di tante televisioni.
Paik piace per la sua profonda leggerezza e seduce con composizioni a forma di cuore, un pastello su cartoncino Buddha 90 gradi, sintetizzato nel segno dell’infinito, con antenna parabolica e altre opere curiose. Qui ci sono anche i robot dedicati a Luciano Pavarotti (1995), Maria Callas (1995) e Giuseppe Verdi (1995), l’ennesimo omaggio all’Italia. Il clou è rappresentato da Young Buddha on Duratrans Bed (1989.1992), videoinstallazione con letto a baldacchino cinese, dove la ragione e la scienza sono niente senza l’immaginazione, in cui si sacralizza il monitor: l’inconscio tecnologico direbbe qualcuno.