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Bruno Di Lecce – Identità e contaminazioni
lavora sui punti di contatto tra le discipline artistiche, in particolare arti visive e architettura
Comunicato stampa
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Si inaugura lunedì 29 maggio 2006, presso la Galleria A.A.M. ARCHITETTURA ARTE MODERNA, una mostra dedicata a BRUNO DI LECCE fotografo, Pittore e studente di Architettura. Bruno DI LECCE lavora sui punti di contatto tra le discipline artistiche, in particolare arti visive e architettura. Il suo lavoro ricerca le Ibridazioni e le contaminazioni presenti all’interno del territorio urbano ed extraurbano. Lo sguardo è rivolto a zone di margine, di limite, ad ambienti non predeterminati, in cui la compresenza di manufatti estranei tra loro sospende la visione. Attraverso la poetica della “sovrapposizione” di immagini stranianti e la poetica della “trasformazione”, la sua ricerca si concentra sul tema dell’identità e della memoria.
Nella mostra verranno presentate una quindicina di fotografie proprio sul tema dell’identità, elaborate a partire da materiali recuperati da un archivio di inizio secolo ventesimo in cui vengono fatte reagire, attraverso una operazione di sovrapposizione, oggetti stranianti, degradati, ma di cui si avverte il loro essere depositi di storie stratificate, estrapolati da un contesto urbano. La compresenza nelle immagini fotografiche di memoria e artificio crea un sottile border-line in cui i soggetti ricercano o trovano la propria identità. Le foto vengono affiancate a opere pittoriche, a segnalare le contaminazioni tra i due specifici. I lavori pittorici si caratterizzano per la ricerca di segni, di forme, di frammenti estrapolati da luoghi anonimi, abbandonati, spazi di risulta in cui si stratificano eventi, in cui spesso la natura riprende il sopravvento sulla città creando uno spazio ibrido e rarefatto. La casualità e la freschezza delle colature di colore si affianca alla pacatezza con cui spiccano dallo spazio della tela oggetti e frammenti dell’immagine privi di una continuità spazio temporale. Il carattere ‘non finito’ di questi lavori ne accentua la tensione, le pause, nonché la loro stessa presenza.
L’itinerario artistico di Bruno Di Lecce, nel suo sia pur breve dispiegarsi, sembra attualmente ricercare un sottile equilibrio sul doppio fronte della pittura e della fotografia pur nella mantenuta dualità e diversità degli specifici disciplinari. L’artista infatti contrappone la compattezza e la perentorietà del lavoro fotografico all’evanescenza e alla “dissoluzione” del versante pittorico, la iconicità immediata delle sue fotografie alla più criptica decifrazione dei lavori artistici. In questo persegue un modus operandi che se nella fotografia è quello dell’aggiungere in quello più propriamente pittorico è quello di togliere.
Le sue fotografie attingono ad un repertorio familiare volutamente fissato in anni lontani, ma cercano poi di eliminare attraverso l’elaborazione digitale qualsiasi riconoscibilità o riconduzione a dati autobiografici, se non fosse per l’insistenza nei titoli ad una prima negata e poi esibita identità. In questa perseguita disidentità di figure familiarmente evocate spesso con i loro nomi, ognuna di loro però si erge con l’autorevolezza della figura in posa secondo una tradizione del ritratto che dalla tradizione pittorica cinquecentesca giunge sino alla ritrattistica fotografica dei grandi autori del novecento. Ma attraverso l’artificio retorico di una vera e propria “macchina celibe” indossata da ognuno dei protagonisti dei suoi ritratti, gli stessi escono dall’anonimato dell’ambientazione di solito povera e priva di connotazioni in cui sono stati ripresi per ergersi con una loro ritrovata ieraticità. A Simone, ad Antonio, a Rocco, a tutti gli altri, sino all’asino di Rocco, l’autore ha imposto un’inquietante maschera che certo non allude al mascheramento solitamente vezzoso ottenuto con le “ovaline” o le “baute” di memoria veneziana, ma la terribilità dei temibili cavalieri teutonici che ci hanno intimorito nella filmografia di S.M. Eisenstein rivista e corretta ora in vere e proprie maschere della sopravvivenza da guerra batteriologica. Tutto questo serve all’autore per dichiarare senza ambiguità che in queste sue rivisitazioni non c’è alcuna caduta in affrettate adesioni antropologiche, nessuna retorica verso qualsiasi appartenenza etnica vista in maniera edulcorata ma soprattutto nessuna speranza di riscatto. Ma alla precisa definizione se non alla puntigliosità descrittiva cui Bruno Di Lecce ricorre nella fotografia fa da contrappunto il suo “cupio dissolvi” da lui impresso all’esercizio della pittura. Una pittura che tende al grande dispiegamento, carica di aspirazioni alla totalità ma che si concentra poi su alcuni scarni relitti su pochi elementi abbandonati, rottami e rifiuti. Nessuna letterarietà gratuita ma solo la memoria di grandezze trascorse, nessun culto del trash, ma l’amorevole ostinazione a ricomporre i grandi frantumi del mondo. Alla constatazione della “Caduta dei giganti” nessuna nostalgia per il paradiso perduto, per l’ordine infranto, vengono contrapposti dall’autore quei pochi elementi che possono aiutare ad alludere, nonostante tutto, ad una ancora possibile ricomposizione. Sia nelle distese vedute urbane che nelle più raccolte ambientazioni interne, la costruzione spaziale è appena suggerita, destinata a scomparire in fretta, diluita com’è nei tratti e nelle loro filamentose e vitalistiche colature. La stessa spazialità arriva poi ad essere negata nell’impressa virata dell’autore che alchemicamente conferisce agli oggetti che fissa, o meglio alle larve degli stessi, una sorta di accelerazione visiva, come se quegli oggetti scorressero su un ideale schermo, come se tutto galleggiasse in una spazialità sospesa. Lo spiazzamento cui sono costrette le poche cose che fanno la loro comparsa nelle opere di Bruno Di Lecce si accompagna alla loro sottolineata perdita d’identità : non solo non hanno mai dei loro piani di posa ma anche la loro stessa definizione formale è appena evocata per essere poi messa in forse dalla loro instabilità, dalla loro sdefinizione. Un cassonetto si lascia interpretare come l’archetipo di una grande casa più volte ripetuto ma viene inghiottito anche dalle stesse slavature della pittura sempre più liquida ma anche un terrazzo nella sua perentorietà da fortezza antiaerea si stempera nel suo contrario di una pura costruzione effimera destinata ad essere smontata in fretta. Anche le poche tracce di più abbandonico lirismo che l’autore si riserva in alcuni suoi cantucci poetici, uno specchio, degli abiti, una ringhiera, legate ai luoghi delle sue quotidiane frequentazioni alludono a quel suo costante bisogno e timore ad un tempo di trovare il respiro di quelle poche cose inanimate ma che da sole possono contribuire a configurare una diversa vita a chi si trova a condividerne l’ossessione di puri “oggetti inquieti”.
Nella mostra verranno presentate una quindicina di fotografie proprio sul tema dell’identità, elaborate a partire da materiali recuperati da un archivio di inizio secolo ventesimo in cui vengono fatte reagire, attraverso una operazione di sovrapposizione, oggetti stranianti, degradati, ma di cui si avverte il loro essere depositi di storie stratificate, estrapolati da un contesto urbano. La compresenza nelle immagini fotografiche di memoria e artificio crea un sottile border-line in cui i soggetti ricercano o trovano la propria identità. Le foto vengono affiancate a opere pittoriche, a segnalare le contaminazioni tra i due specifici. I lavori pittorici si caratterizzano per la ricerca di segni, di forme, di frammenti estrapolati da luoghi anonimi, abbandonati, spazi di risulta in cui si stratificano eventi, in cui spesso la natura riprende il sopravvento sulla città creando uno spazio ibrido e rarefatto. La casualità e la freschezza delle colature di colore si affianca alla pacatezza con cui spiccano dallo spazio della tela oggetti e frammenti dell’immagine privi di una continuità spazio temporale. Il carattere ‘non finito’ di questi lavori ne accentua la tensione, le pause, nonché la loro stessa presenza.
L’itinerario artistico di Bruno Di Lecce, nel suo sia pur breve dispiegarsi, sembra attualmente ricercare un sottile equilibrio sul doppio fronte della pittura e della fotografia pur nella mantenuta dualità e diversità degli specifici disciplinari. L’artista infatti contrappone la compattezza e la perentorietà del lavoro fotografico all’evanescenza e alla “dissoluzione” del versante pittorico, la iconicità immediata delle sue fotografie alla più criptica decifrazione dei lavori artistici. In questo persegue un modus operandi che se nella fotografia è quello dell’aggiungere in quello più propriamente pittorico è quello di togliere.
Le sue fotografie attingono ad un repertorio familiare volutamente fissato in anni lontani, ma cercano poi di eliminare attraverso l’elaborazione digitale qualsiasi riconoscibilità o riconduzione a dati autobiografici, se non fosse per l’insistenza nei titoli ad una prima negata e poi esibita identità. In questa perseguita disidentità di figure familiarmente evocate spesso con i loro nomi, ognuna di loro però si erge con l’autorevolezza della figura in posa secondo una tradizione del ritratto che dalla tradizione pittorica cinquecentesca giunge sino alla ritrattistica fotografica dei grandi autori del novecento. Ma attraverso l’artificio retorico di una vera e propria “macchina celibe” indossata da ognuno dei protagonisti dei suoi ritratti, gli stessi escono dall’anonimato dell’ambientazione di solito povera e priva di connotazioni in cui sono stati ripresi per ergersi con una loro ritrovata ieraticità. A Simone, ad Antonio, a Rocco, a tutti gli altri, sino all’asino di Rocco, l’autore ha imposto un’inquietante maschera che certo non allude al mascheramento solitamente vezzoso ottenuto con le “ovaline” o le “baute” di memoria veneziana, ma la terribilità dei temibili cavalieri teutonici che ci hanno intimorito nella filmografia di S.M. Eisenstein rivista e corretta ora in vere e proprie maschere della sopravvivenza da guerra batteriologica. Tutto questo serve all’autore per dichiarare senza ambiguità che in queste sue rivisitazioni non c’è alcuna caduta in affrettate adesioni antropologiche, nessuna retorica verso qualsiasi appartenenza etnica vista in maniera edulcorata ma soprattutto nessuna speranza di riscatto. Ma alla precisa definizione se non alla puntigliosità descrittiva cui Bruno Di Lecce ricorre nella fotografia fa da contrappunto il suo “cupio dissolvi” da lui impresso all’esercizio della pittura. Una pittura che tende al grande dispiegamento, carica di aspirazioni alla totalità ma che si concentra poi su alcuni scarni relitti su pochi elementi abbandonati, rottami e rifiuti. Nessuna letterarietà gratuita ma solo la memoria di grandezze trascorse, nessun culto del trash, ma l’amorevole ostinazione a ricomporre i grandi frantumi del mondo. Alla constatazione della “Caduta dei giganti” nessuna nostalgia per il paradiso perduto, per l’ordine infranto, vengono contrapposti dall’autore quei pochi elementi che possono aiutare ad alludere, nonostante tutto, ad una ancora possibile ricomposizione. Sia nelle distese vedute urbane che nelle più raccolte ambientazioni interne, la costruzione spaziale è appena suggerita, destinata a scomparire in fretta, diluita com’è nei tratti e nelle loro filamentose e vitalistiche colature. La stessa spazialità arriva poi ad essere negata nell’impressa virata dell’autore che alchemicamente conferisce agli oggetti che fissa, o meglio alle larve degli stessi, una sorta di accelerazione visiva, come se quegli oggetti scorressero su un ideale schermo, come se tutto galleggiasse in una spazialità sospesa. Lo spiazzamento cui sono costrette le poche cose che fanno la loro comparsa nelle opere di Bruno Di Lecce si accompagna alla loro sottolineata perdita d’identità : non solo non hanno mai dei loro piani di posa ma anche la loro stessa definizione formale è appena evocata per essere poi messa in forse dalla loro instabilità, dalla loro sdefinizione. Un cassonetto si lascia interpretare come l’archetipo di una grande casa più volte ripetuto ma viene inghiottito anche dalle stesse slavature della pittura sempre più liquida ma anche un terrazzo nella sua perentorietà da fortezza antiaerea si stempera nel suo contrario di una pura costruzione effimera destinata ad essere smontata in fretta. Anche le poche tracce di più abbandonico lirismo che l’autore si riserva in alcuni suoi cantucci poetici, uno specchio, degli abiti, una ringhiera, legate ai luoghi delle sue quotidiane frequentazioni alludono a quel suo costante bisogno e timore ad un tempo di trovare il respiro di quelle poche cose inanimate ma che da sole possono contribuire a configurare una diversa vita a chi si trova a condividerne l’ossessione di puri “oggetti inquieti”.
29
maggio 2006
Bruno Di Lecce – Identità e contaminazioni
Dal 29 maggio al 02 settembre 2006
arte contemporanea
Location
A.A.M. – ARCHITETTURA ARTE MODERNA
Roma, Via Dei Banchi Vecchi, 61, (Roma)
Roma, Via Dei Banchi Vecchi, 61, (Roma)
Orario di apertura
tutti i giorni ore 16-20 sabato e domenica compresi
Autore
Curatore