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03
aprile 2013
Ritratto del curatore da giovane
rubrica curatori
Fondatore del progetto "Beyond Entropy”, curatore del Padiglione dell’Angola alla 13° Biennale d’Architettura di Venezia e per la prossima Biennale d’Arte. È Stefano Rabolli Pansera, giovane architetto italiano che vive da anni a Londra, ma lavora anche in Sardegna. Cogliamo l’occasione per indagare una realtà artistica forse poco conosciuta ai più.
di Manuela Valentini
di Manuela Valentini
Stefano, un curriculum invidiabile nonostante la tua giovane età.
«Sono nato a Brescia il 9 Agosto de 1980. Vivo a Londra dal 2001. Mi sono Laureato all’AA, Architectural Association, School of Architecture nel 2004 con una tesi-video dal titolo “Without here or there, all the dawns over Gibraltar”. Dal 2005 al 2007 ho lavorato a Basilea da Herzog de Meuron per progetti in Sardegna e in Spagna. Dal 2007 al 2011, ho insegnato all’AA come Unit Master. Ho tenuto workshops e seminari anche a Madrid, Wuhan, Seoul, Luanda, Cagliari, Barcellona e Berlino. I miei corsi si focalizzano sul rapporto fra spazio e temporalità. L’energia, il tempo e la trasformazione sono il fondamento della mia riflessione architettonica».
Nel 2010 hai fondato “Beyond Entropy”, un progetto di ricerca presentato come evento collaterale alla 12a Biennale di Architettura di Venezia, poi alla Triennale di Milano ed infine alla Architectural Association di Londra. Di cosa si tratta esattamente?
«Beyond Entropy è nata nel 2009 come una ricerca trasversale all’interno dell’AA. Volevo investigare il rapporto fra Energia e Spazio di là dalla retorica della sostenibilità. Infatti, nel dibattito architettonico, il concetto di Energia è spesso ridotto a una questione puramente tecnica (energia verde, emissioni CO2, etc.) e non è visto come una questione poetica. In opposizione a questa tendenza, m’interessa l’Arte Povera (la cui ricerca era basata sulla trasformazione energetica della materia) e ad Aldo Rossi che in “Autobiografia scientifica” formulava straordinarie intuizioni sul rapporto fra architettura ed energia, fra spazio e tempo. Per questo, Beyond Entropy è stata, fin dall’inizio, una collaborazione fra scienziati, architetti e artisti: Massimo Bartolini, Alberto Garutti, Wilfriedo Prieto, Nina Cannell, Attila Csorgo, Peter Liversidge e Ariel Schlesinger. I prototipi mettevano in discussione le letture convenzionali dell’energia ed erano esperimenti che dissolvevano la distinzione fra ricerca, opera d’arte e studio spaziale. La collaborazione con FARE ha reso possibile la mostra di Beyond Entropy a Milano e a Londra dopo la quale si è conclusa la prima fase della ricerca. Oggi Beyond Entropy è un’organizzazione no-profit, indipendente dall’AA, che si focalizza sull’analisi di specifiche aree geopolitiche definite in base a una particolare condizione territoriale ed energetica. In ogni regione Beyond Entropy sviluppa un progetto, sia esso un progetto architettonico, una mostra, una serie di workshops con cui si analizzano specifiche condizioni territoriali: B/E Europa , B/E Africa (con Paula Nascimento), B/E Mediterraneo e B/E Asia Centrale (con Silvia Franceschini). Infine Beyond Entropy ha creato la propria casa editrice in associazione con Tankboys: B/E Press».
Dal 2012 dirigi il Museo di Arte Contemporanea di Calasetta, in provincia di Carbonia, e la Galleria Mangiabarche, entrambe in Sardegna. Ci puoi parlare di queste nuove piccole, ma grandi realtà?
«La galleria a cielo aperto di Mangiabarche è il progetto di Beyond Entropy Mediterraneo. La costa del Mediterraneo è un territorio definito da una serie di programmi conflittuali e da un’occupazione bipolare. La costa della Sardegna è il paradigma di questa condizione che si ripete in tutta la costa del Mediterraneo: infrastrutture invasive e parchi nazionali, piccole città deserte e villaggi turistici sovraffollati. Come affrontare questa occupazione schizofrenica del territorio? B/E ha proposto una galleria a cielo aperto come prototipo di una nuovo modello territoriale che non implica la costruzione di nuovi volumi, ma il riutilizzo delle strutture esistenti per creare nuove possibilità di produzione artistica e culturale. Dopo la conclusione del progetto della Galleria, il Comune mi ha chiesto di fare un progetto per il piccolo Museo Esistente: il Civico Museo di Arte Contemporanea di Calasetta. Da questo momento sono direttore della Fondazione MACC che gestisce sia il Museo che la Galleria di Mangiabarche».
Curatore del Padiglione dell’Angola alla 13° Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, sei stato confermato curatore anche per la prossima edizione della Biennale d’Arte. Com’è nata la tua collaborazione con le autorità di questo Stato? In quale condizione si trova si trova l’Angola dal punto di vista artistico?
«La ricerca in Angola fa parte della ricerca di Beyond Entropy Africa che è sviluppata con Paula Nascimento. L’Angola sta producendo artisti straordinari come Edsons Chagas, Kiluanji kia Henda, RIta GT & Francisco Vidal. Come per la Sardegna, anche l’interesse per l’Angola deriva da un’analisi territoriale. L’Angola, e in particolare la capitale Luanda, è il paradigma di condizioni territoriali che si ripetono in molte aree dell’intera regione sub-sahariana: città enormi senza infrastrutture e con densità abitative altissime. Il Padiglione dell’Angola nel 2012 è stato l’installazione di un progetto sviluppato per i musseq locali: una proposta di nuovo spazio pubblico che è una critica al concetto occidentale di zonizzazione. Quest’anno vogliamo sviluppare il tema generale di Palazzo Enciclopedico in continuazione con la ricerca avviata l’anno scorso».
Arte e architettura, in base alla tua esperienza, cos’hanno in comune e cosa li divide? Secondo te c’è una linea di confine tra l’uno e l’altro o piuttosto una fusione?
«Non credo abbia senso una distinzione di genere fra Arte e Architettura. Io sono interessato a sviluppare nuovi modelli per capire e abitare lo spazio attraverso progetti, testi, edifici, installazioni, disegni, video, collaborazioni, azioni partecipative, masterplans, pubblicazioni e proposte partecipative. Questo interesse per lo spazio e la sua trasformazione ci obbliga a sviluppare posizioni che non fanno parte del vocabolario architettonico convenzionale basato su forme e volumi. Bisogna andare al di là delle definizioni di Forma, di Energia. E forse al di là dell’Entropia».