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Pietro Mancini – Al-lumini
personale
Comunicato stampa
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All’adolescenza che non conosce ancor bene i perché coetanei ma li applica, che ignora l’effetto ma ne rimane vittima in erba, Mancini dedica il suo sguardo adulto che non smette di interrogarsi sui metodi di crescita di generazioni in bilico, abitanti su quelle mobili soglie “a parte” previste dalle architetture scolastiche, religiose e commerciali.
Oggetti di uno studio sensibile e capaci di raccontare solo mostrandosi, gli uomini di domani, di un qualche domani, esibiscono le approssimazioni miste incombenti sul loro apprendimento costretto, ereditato dall’oggi e subito assorbito come elemento indispensabile senza il quale ci si sente soli.
I “piccoli grandi” di Mancini diventano emblemi – estranei ai fatti – della reazione corporea ai mezzi costruiti e pensati per sviluppare le loro giovani vite, per formarle attraverso istruzioni a rilascio lento che giorno dopo giorno si insinuano sotto i pensieri e sopra un pensare in continua, avida attesa di alimenti (in)formativi che possano far crescere in tempo reale e avvicinare a quella vita “da papà” che sembra godere di tanta, invidiabile potenza autonoma.
Eccoli, tutti i figli d’arte di Mancini, a chiudere occhi saturi senza poter meditare, perpetui catalizzatori di direttive emesse da una nuova placenta chiamata mondo che incessantemente ed inconsapevolmente si scaricano addosso e dentro, in un costante upload educativo che non si ferma, che approfitta della malleabilità spugnosa di un tessuto cerebrale nato da poco e sprovvisto delle armi da difesa che solo l’esperienza fornisce in dotazione.
Sono tutti qui quei “vostri bambini”, come li chiamava Charles Manson, risultato di un comunicare instabile, provvisorio, improvvisato: “Voi avete reso i vostri bambini quello che sono”.
Sono qui, i santini moderni bardati e in subbuglio come lumini su alluminio, a mostrare le cicatrici urbane, i motivi misti dissestati che cingono la trasudazione dei troppi impasti umorali accumulati uno sull’altro, assimilati con quell’ingordigia vergine che si traduce puntualmente in indigestione, stipati come a voler registrare transiti pellegrini per itinerari sterrati, in costruzione, da definire e ultimare.
Percorsi che riescono a penetrare le volontà acerbe attraverso l’imposizione della marca e l’inoltro del messaggio immediato, delegando il compito gravoso di preparare alla vita al simbolo dominante che entra, occupa e prende a muoversi.
Se il fenomeno adolescenziale del momento si chiama yob culture, Mancini non sbaglia a collocare i suoi ragazzi in luoghi accantonati e dispersi, a vederli spaesati portatori dei marchi sacri contemporanei che griffano (logos è il Verbo, seconda persona della Trinità) e che accompagneranno i loro voleri per chissà quanto tempo; non sbaglia ad interpretarli come adepti involontari di un credere commerciale che trova in loro un’adeguata fertilità da consumare prima che si accorga di esistere e una bellezza giovane da invecchiare subito.
Questi bambini sembrano coltivati dal castigo del disordine percettivo che ha piantato nella profondità irraggiungibile della loro timidezza, in fondo alla loro impreparazione, i semi abbondanti di una plasmabilità controllabile a distanza che porta alla fioritura esacerbata di fregi indelebili.
Se un tempo il sonno della ragione riusciva almeno a generare mostri, oggi incide e intaglia gli aspetti infantili seguendo le forme del tessuto tentacolare esterno.
Stefano Elena
Oggetti di uno studio sensibile e capaci di raccontare solo mostrandosi, gli uomini di domani, di un qualche domani, esibiscono le approssimazioni miste incombenti sul loro apprendimento costretto, ereditato dall’oggi e subito assorbito come elemento indispensabile senza il quale ci si sente soli.
I “piccoli grandi” di Mancini diventano emblemi – estranei ai fatti – della reazione corporea ai mezzi costruiti e pensati per sviluppare le loro giovani vite, per formarle attraverso istruzioni a rilascio lento che giorno dopo giorno si insinuano sotto i pensieri e sopra un pensare in continua, avida attesa di alimenti (in)formativi che possano far crescere in tempo reale e avvicinare a quella vita “da papà” che sembra godere di tanta, invidiabile potenza autonoma.
Eccoli, tutti i figli d’arte di Mancini, a chiudere occhi saturi senza poter meditare, perpetui catalizzatori di direttive emesse da una nuova placenta chiamata mondo che incessantemente ed inconsapevolmente si scaricano addosso e dentro, in un costante upload educativo che non si ferma, che approfitta della malleabilità spugnosa di un tessuto cerebrale nato da poco e sprovvisto delle armi da difesa che solo l’esperienza fornisce in dotazione.
Sono tutti qui quei “vostri bambini”, come li chiamava Charles Manson, risultato di un comunicare instabile, provvisorio, improvvisato: “Voi avete reso i vostri bambini quello che sono”.
Sono qui, i santini moderni bardati e in subbuglio come lumini su alluminio, a mostrare le cicatrici urbane, i motivi misti dissestati che cingono la trasudazione dei troppi impasti umorali accumulati uno sull’altro, assimilati con quell’ingordigia vergine che si traduce puntualmente in indigestione, stipati come a voler registrare transiti pellegrini per itinerari sterrati, in costruzione, da definire e ultimare.
Percorsi che riescono a penetrare le volontà acerbe attraverso l’imposizione della marca e l’inoltro del messaggio immediato, delegando il compito gravoso di preparare alla vita al simbolo dominante che entra, occupa e prende a muoversi.
Se il fenomeno adolescenziale del momento si chiama yob culture, Mancini non sbaglia a collocare i suoi ragazzi in luoghi accantonati e dispersi, a vederli spaesati portatori dei marchi sacri contemporanei che griffano (logos è il Verbo, seconda persona della Trinità) e che accompagneranno i loro voleri per chissà quanto tempo; non sbaglia ad interpretarli come adepti involontari di un credere commerciale che trova in loro un’adeguata fertilità da consumare prima che si accorga di esistere e una bellezza giovane da invecchiare subito.
Questi bambini sembrano coltivati dal castigo del disordine percettivo che ha piantato nella profondità irraggiungibile della loro timidezza, in fondo alla loro impreparazione, i semi abbondanti di una plasmabilità controllabile a distanza che porta alla fioritura esacerbata di fregi indelebili.
Se un tempo il sonno della ragione riusciva almeno a generare mostri, oggi incide e intaglia gli aspetti infantili seguendo le forme del tessuto tentacolare esterno.
Stefano Elena
08
aprile 2006
Pietro Mancini – Al-lumini
Dall'otto aprile al 07 maggio 2006
arte contemporanea
Location
GALLERIA ARTURARTE
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 9-18. Sabato e domenica su appuntamento
Vernissage
8 Aprile 2006, ore 19
Autore
Curatore