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Pino Spadavecchia – Imago
Due gli elementi dichiarati costitutivi del senso compositivo interno al lavoro fotografico che Spadavecchia prepara per l’Arturarte di Lupoli: “IMAGO” e “AGATA”
Comunicato stampa
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Due gli elementi dichiarati costitutivi del senso compositivo interno al lavoro fotografico che Spadavecchia prepara per l’Arturarte di Lupoli: “IMAGO” e “AGATA”.
Il primo, traducibile in “immagine” o “figura umana” come compare in Petrarca e Foscolo o che Jung adotta per la visione idealizzata di chi amiamo nell’infanzia che si trasforma in presenza mentale ricorrente nel nostro vivere, dà il titolo alla mostra.
L’altro è un pretesto storico che diventa senza tempo e non circoscrivibile: il sintomo immortale di comportamenti (in)umani che coinvolgono la violabilità del corpo donna, l’interconfessionalismo che accomuna e supera le fedi per un momento comune a tutti che riguarda la vita.
Agata diventa martire a 13 anni nel 250 per aver salvato Catania, recita la diceria popolare di turno, da un’eruzione dell’Etna che la rende leggenda folkloristicamente maggiorata dall’asportazione dei seni che la giovane subisce.
Tale supplizio, assieme all’aureola/corona di un’icona osservata, è il colore – rosso come il sangue che sanguina – del processo atemporale di Spadavecchia, intenzionato a sottolineare la ciclicità del fatto biografico destinato a replicarsi e rivivere, a tormentare ripetutamente un tempo che non esiste più come ricordo travestito da momento di culto intenzionato ad angustiare l’animo umano.
La storia, dice Spadavecchia, non è storia.
Torna oggi e sempre, avvalendosi di concetti attuali dall’efficacia retroattiva che rendono l’uomo odierno ennesimo interprete o artefice vergine di avvenimenti che non sanno fermarsi. Le pene e afflizioni di ieri, le strumentalizzazioni comode di accadimenti registrati, sono adesso le pressioni relazionali e gestioni generiche dell’altro, espedienti d’artista per indagare quella sopraffazione non stop che corpi e volontà si scagliano addosso vicendevolmente come frutto di inguaribili rivendicazioni al contrario, utili solo all’annientamento.
Nel video che suggella la mostra, il prodotto corporeo di un’Agata liberatasi da un ideale forzato agisce e finalmente prende a muoversi. Cede il perimetro da clausura dello scatto a un diverso e nuovo dolore che sicuramente verrà. Fuoriesce dal fabbricato fotografico per reclamare la sua integrità, per riappropriarsi di quanto sottrattole consumandolo in un atto di antropofagia che le restituisca la padronanza assoluta delle proprie, necessarie e buone carni.
L’Agata di Spadavecchia è donna in vita, messa in posa e ripresa mentre espone i suoi sguardi bianco/nero che ci scrutano silenti o che ci oltrepassano, verso un altro dopo che ripeterà ancora, inevitabilmente, la brevità del momento.
L’Agata di Spadavecchia è incorrotta e spontanea verità d’oggi, le cui angosce tenute in mano denunciano il bisogno consolatorio e piccolo dell’emblema, dell’imago appunto, aldilà di ogni possibile chiedersi e credere.
L’Agata di Spadavecchia è una giovane femmina qualunque struccata e pallida, dalle espressioni delicate e intense alle quali abbiamo voglia, bisogno di affezionarci.
Inevitabilmente.
Proprio come si fa con gli istanti storicizzati e ingialliti che ci pervengono innumerevoli dalle fonti multiple del nostro passato e che ci trovano convinti della loro irripetibilità, sollevandoci da impegni creduti morti che continueranno invece, imposti dai riti cannibaleschi del nostro perpetuo fare, a scrivere e fotografare una storia che non c’è.
Il primo, traducibile in “immagine” o “figura umana” come compare in Petrarca e Foscolo o che Jung adotta per la visione idealizzata di chi amiamo nell’infanzia che si trasforma in presenza mentale ricorrente nel nostro vivere, dà il titolo alla mostra.
L’altro è un pretesto storico che diventa senza tempo e non circoscrivibile: il sintomo immortale di comportamenti (in)umani che coinvolgono la violabilità del corpo donna, l’interconfessionalismo che accomuna e supera le fedi per un momento comune a tutti che riguarda la vita.
Agata diventa martire a 13 anni nel 250 per aver salvato Catania, recita la diceria popolare di turno, da un’eruzione dell’Etna che la rende leggenda folkloristicamente maggiorata dall’asportazione dei seni che la giovane subisce.
Tale supplizio, assieme all’aureola/corona di un’icona osservata, è il colore – rosso come il sangue che sanguina – del processo atemporale di Spadavecchia, intenzionato a sottolineare la ciclicità del fatto biografico destinato a replicarsi e rivivere, a tormentare ripetutamente un tempo che non esiste più come ricordo travestito da momento di culto intenzionato ad angustiare l’animo umano.
La storia, dice Spadavecchia, non è storia.
Torna oggi e sempre, avvalendosi di concetti attuali dall’efficacia retroattiva che rendono l’uomo odierno ennesimo interprete o artefice vergine di avvenimenti che non sanno fermarsi. Le pene e afflizioni di ieri, le strumentalizzazioni comode di accadimenti registrati, sono adesso le pressioni relazionali e gestioni generiche dell’altro, espedienti d’artista per indagare quella sopraffazione non stop che corpi e volontà si scagliano addosso vicendevolmente come frutto di inguaribili rivendicazioni al contrario, utili solo all’annientamento.
Nel video che suggella la mostra, il prodotto corporeo di un’Agata liberatasi da un ideale forzato agisce e finalmente prende a muoversi. Cede il perimetro da clausura dello scatto a un diverso e nuovo dolore che sicuramente verrà. Fuoriesce dal fabbricato fotografico per reclamare la sua integrità, per riappropriarsi di quanto sottrattole consumandolo in un atto di antropofagia che le restituisca la padronanza assoluta delle proprie, necessarie e buone carni.
L’Agata di Spadavecchia è donna in vita, messa in posa e ripresa mentre espone i suoi sguardi bianco/nero che ci scrutano silenti o che ci oltrepassano, verso un altro dopo che ripeterà ancora, inevitabilmente, la brevità del momento.
L’Agata di Spadavecchia è incorrotta e spontanea verità d’oggi, le cui angosce tenute in mano denunciano il bisogno consolatorio e piccolo dell’emblema, dell’imago appunto, aldilà di ogni possibile chiedersi e credere.
L’Agata di Spadavecchia è una giovane femmina qualunque struccata e pallida, dalle espressioni delicate e intense alle quali abbiamo voglia, bisogno di affezionarci.
Inevitabilmente.
Proprio come si fa con gli istanti storicizzati e ingialliti che ci pervengono innumerevoli dalle fonti multiple del nostro passato e che ci trovano convinti della loro irripetibilità, sollevandoci da impegni creduti morti che continueranno invece, imposti dai riti cannibaleschi del nostro perpetuo fare, a scrivere e fotografare una storia che non c’è.
11
marzo 2006
Pino Spadavecchia – Imago
Dall'undici marzo al 03 aprile 2006
fotografia
Location
GALLERIA ARTURARTE
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Orario di apertura
da lunedì a venerdì 9-18. Sabato e domenica su appuntamento
Vernissage
11 Marzo 2006, ore 13
Autore
Curatore