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Amate l’architettura
Il testo di Giò Ponti Amate l’architettura del 1957 è la fonte d’ispirazione di questa mostra, che pone l’attenzione sull’incessante rapporto che da sempre intercorre fra arte e architettura
Comunicato stampa
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“Amate l’architettura, la antica, la moderna. Amatela per le illusioni di grazia, di leggerezza, di forza, di serenità, di movimento che ha tratto dalla grave pietra, dalle dure strutture. Amatela per il suo silenzio, dove sta la sua voce, il suo canto, segreto e potente”.
Il testo di Giò Ponti Amate l’architettura del 1957 è la fonte d’ispirazione di questa mostra, che pone l’attenzione sull’incessante rapporto che da sempre intercorre fra arte e architettura. L’intenzione non è quella di stilare una serie di paragoni estetici o concettuali tra i due campi ma piuttosto di osservare come piani, muri, crepe, spazi e luce divengano l’oggetto di riflessione di alcuni artisti che a partire dagli anni 70 rileggono lo spazio tridimensionale dell’edificio in chiave scultorea e performativa.
Si parte con Bernd e Hilla Becher, che da oltre trent’anni testimoniano per mezzo della fotografia ciò che viene definito come l’idioma moderno. Silos e gasometri si tramutano quindi in Sculture Anonime, grazie alla visione della coppia che attrae l’attenzione non sullo scatto fotografico, ma piuttosto, su ciò che ritraggono, inventando dunque il genere monumentario in fotografia.
Di ben altra natura è il discorso artistico intrapreso da Daniel Buren. Utilizzando uno strumento visibile invariabile, cioè l’alternanza di strisce verticali bianche e colorate di 8,7 cm, indaga sui rapporti fra l’opera d’arte, il luogo in cui prende corpo e lo spettatore.
Presente in mostra anche un’opera di James Casebere, l’artista che forse all’interno del gruppo occupa un posto leggermente più distante, pur lavorando con lo strumento architettonico. Il suo universo immaginativo consiste nel costruire dei contesti in cui le strutture sono usate come metafore per spiegare i bisogni, i desideri e le paure dell’uomo contemporaneo. Egli sceglie di evocare i modelli visivi della nostra cultura semplicemente costruendo i modelli stessi di essi, utilizzando il mezzo fotografico come propagazione.
Il percorso prosegue con l’opera dell’artista statunitense Gordon Matta-Clark.
La sua arte si concentra su principi di destrutturazione e rottura di elementi architettonici, segmentando ciò che fu una costruzione non ancora abbattuta. I soggetti da scomporre non sono scelti a caso, ma rappresentano l’effimera indistruttibilità della materia e della mente. Il suo è un amore viscerale che tocca l’intimo e l’interno, portando alla luce ciò che si conosce, ma non si vede, rendendolo immortale per mezzo della fotografia.
Arriviamo quindi all’unica opera non fotografica presente in mostra quella di Dennis Oppenheim. L’opera ideata negli anni 70 e realizzata in occasione della 47esima Biennale di Venezia curata da Germano Celant, si presenta come un’architettura rovesciata. Figura chiave di diversi movimenti artistici, tra cui Land Art, Conceptual Art e Body Art, Dennis Oppenheim ha realizzato opere che spaziano da grandiosi interventi paesaggistici a violente installazioni scultoree.
Infine l’architettura industriale si fa territorio esplorativo per il poliedrico artista francese George Rousse. Il paradosso di questo viaggio un po’ segreto e solitario mostra i “cantieri” attraverso un racconto fatto di pittura, ma che emerge attraverso la fotografia. La pittura è il suo pretesto, la fotografia è la materialità del suo progetto, l’oggetto della sua riflessione è la virtualità dell’immagine.
Come ci dice Gio Ponti “ L’unico materiale durevole dell’architettura è l’Arte”.
Il testo di Giò Ponti Amate l’architettura del 1957 è la fonte d’ispirazione di questa mostra, che pone l’attenzione sull’incessante rapporto che da sempre intercorre fra arte e architettura. L’intenzione non è quella di stilare una serie di paragoni estetici o concettuali tra i due campi ma piuttosto di osservare come piani, muri, crepe, spazi e luce divengano l’oggetto di riflessione di alcuni artisti che a partire dagli anni 70 rileggono lo spazio tridimensionale dell’edificio in chiave scultorea e performativa.
Si parte con Bernd e Hilla Becher, che da oltre trent’anni testimoniano per mezzo della fotografia ciò che viene definito come l’idioma moderno. Silos e gasometri si tramutano quindi in Sculture Anonime, grazie alla visione della coppia che attrae l’attenzione non sullo scatto fotografico, ma piuttosto, su ciò che ritraggono, inventando dunque il genere monumentario in fotografia.
Di ben altra natura è il discorso artistico intrapreso da Daniel Buren. Utilizzando uno strumento visibile invariabile, cioè l’alternanza di strisce verticali bianche e colorate di 8,7 cm, indaga sui rapporti fra l’opera d’arte, il luogo in cui prende corpo e lo spettatore.
Presente in mostra anche un’opera di James Casebere, l’artista che forse all’interno del gruppo occupa un posto leggermente più distante, pur lavorando con lo strumento architettonico. Il suo universo immaginativo consiste nel costruire dei contesti in cui le strutture sono usate come metafore per spiegare i bisogni, i desideri e le paure dell’uomo contemporaneo. Egli sceglie di evocare i modelli visivi della nostra cultura semplicemente costruendo i modelli stessi di essi, utilizzando il mezzo fotografico come propagazione.
Il percorso prosegue con l’opera dell’artista statunitense Gordon Matta-Clark.
La sua arte si concentra su principi di destrutturazione e rottura di elementi architettonici, segmentando ciò che fu una costruzione non ancora abbattuta. I soggetti da scomporre non sono scelti a caso, ma rappresentano l’effimera indistruttibilità della materia e della mente. Il suo è un amore viscerale che tocca l’intimo e l’interno, portando alla luce ciò che si conosce, ma non si vede, rendendolo immortale per mezzo della fotografia.
Arriviamo quindi all’unica opera non fotografica presente in mostra quella di Dennis Oppenheim. L’opera ideata negli anni 70 e realizzata in occasione della 47esima Biennale di Venezia curata da Germano Celant, si presenta come un’architettura rovesciata. Figura chiave di diversi movimenti artistici, tra cui Land Art, Conceptual Art e Body Art, Dennis Oppenheim ha realizzato opere che spaziano da grandiosi interventi paesaggistici a violente installazioni scultoree.
Infine l’architettura industriale si fa territorio esplorativo per il poliedrico artista francese George Rousse. Il paradosso di questo viaggio un po’ segreto e solitario mostra i “cantieri” attraverso un racconto fatto di pittura, ma che emerge attraverso la fotografia. La pittura è il suo pretesto, la fotografia è la materialità del suo progetto, l’oggetto della sua riflessione è la virtualità dell’immagine.
Come ci dice Gio Ponti “ L’unico materiale durevole dell’architettura è l’Arte”.
16
marzo 2006
Amate l’architettura
Dal 16 marzo al 06 maggio 2006
architettura
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
CIOCCA ARTE CONTEMPORANEA
Milano, Via Lecco, 15, (Milano)
Milano, Via Lecco, 15, (Milano)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 14–19.30
Vernissage
16 Marzo 2006, ore 18.30
Autore