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Dario Gambarin – Mask
Dario Gambarin presenta al pubblico le più recenti opere, tele con tecniche miste
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Il linguaggio di Dario Gambarin si alimenta da sempre di una tensione pittorica, che vede l’impeto del gesto alternarsi all’immediatezza di un colore che esprime rabbia e poesia allo stesso tempo.
Alle pennellate dense e decise che rincorrono spesso la sagoma o il profilo di un volto o di un teschio senza nome, l’artista alterna nei suoi lavori più recenti quel dripping di apparente matrice americana, ma di sapore più verosimilmente mediterraneo, dove lo sgocciolamento del pigmento in vortici di materia sospesa e rarefatta raggiungono un punto d’equilibrio nel cosmo e nelle galassie multiple del colore.
L’espressionismo tedesco remoto e recente, l’action painting americana, ma anche il nostro informale più materico e pastoso, sembrano aver contribuito alla nascita di un linguaggio stilistico, che rimane tuttavia atipico, in anni in cui la figurazione puntuale sembra aver ripreso il sopravvento.
Le icone inquiete e reiterate, che l’artista imprime sulle sue tele spesse e cariche di colori stratificati, rimandano infatti ad un inequivocabile linguaggio simbolico e vitale nella sua immediatezza. Nel reticolo dei segni e degli archetipi pagani il colore è solo un mezzo per raggiungere una forma, che porta con sé l’essenza di un concetto, a volte lontano dal referente figurativo vero e proprio.
L’arte di Gambarin risulta quindi pervasa da un’energia misteriosa e potente, il cui impatto visivo immediato ci introduce, come una trance metapsichica profonda, nei meandri tortuosi ed inesplorati della mente incosciente e della coscienza mascherata.
La potenza del flusso vitale riesce così a rompere gli schemi precostituiti della comunicazione verbale e visiva ed a scardinare le regole del linguaggio convenzionale, portando intuitivamente a galla frammenti di verità vissuta. Il tutto a favore di un' arte che sente come esigenza primordiale il dialogo con la vita e per la vita.
Marina Coden
Dott.ssa
Marina Coden
Critico d’Arte
Bologna
Di formazione accademica, il suo lavoro non è scevro da un percorso espressivo che, partendo da suggestioni oniriche pre-espressioniste, approda a nuovi orizzonti simbolico-surrealisti, ricchi di suggestioni filosofiche.
Oggetti del suo lavoro sono materiali ed espressioni filtrate da una luce interiore, sola interprete di realtà noumeniche dell’umano divenire dove i colori tratteggiano, con un virtuosismo sinfonico, maschere umane, che deformandosi, fluttuano una immaginaria realtà.
Questa fantasia visionaria è il simbolo che, in tal espressione pittorica, fuoriesce e straborda da colori che scangiano e cangiano, quasi a testimonianza della trasformazione convulsa nell’IO di continui stati emozionali.
Ecco che le sensazioni hanno colore e l’immagine si fa linguaggio universale, utile anche a superare la frattura tra realtà e fantasia.
Noi, al di là dal gesto creativo, al di là dell’opera, non dovremmo limitarci a contemplare queste immagini quanto piuttosto a completarle, facendo prima il vuoto dentro, abbandonando ogni umano pregiudizio, per poi essere disponibili ad esse come una lastra fotografica.
Arabella Siano
Dott.ssa
Arabella Siano
Critico d’Arte
Salerno
…….correnti e scuole, letteratura e politica dell’arte rimangono sullo sfondo, sostanzialmente estranee alla pittura e alla vita dell’artista. Il quale, semplicemente, apre sulla tela un varco all’emozione, scegliendo come soggetto il luogo in cui essa si manifesta primariamente: il volto umano, rappresentato in modo più o meno figurativo e subito sfigurato da tratti e pennelate veloci in colori roventi, gialli e rossi. Nel segno dell’affanno e della concitazione. In una sorta di disperata scomessa: che l’emozione si faccia linguaggio, trovi da sola le vie del comunicare, parli all’osservatore senza mediazioni e infingimenti, quasi per contagio, in un corpo a corpo, volto a consacrare il primato del colore sul disegno, del vissuto sul pensiero, dell’interiezione sulla frase, del medium sul messaggio……
Alessandro Serra
Prof.
Alessandro Serra
Departimento
di Psicologia dell’Arte
Università di Bologna
Tra catarsi e riparazione
Quello che colpisce nelle opere di Gambarin, in questa serie di volti incombenti, fatti di spesse righe dai colori accesi (volti isolati, più spesso allineati in sequenze coatte, talvolta gemellati come doppi inquietanti), è la disperata frontalità della maschera - oppure dello specchio, quando rivela lo stupore di un IO che ha perduto se stesso. La perturbante fissità di questi grandi occhi spalancati sui mali del mondo, grazie al lavoro dell’arte (tra catarsi e riparazione), ha come congelato l’angoscia, e l’ha trasformata in una sorta di addomesticata e quasi rassicurante tristezza.
Stefano Ferrari
Prof. Stefano Ferrari
Dipartimento
di Psicologia dell’Arte
Università di Bologna
A volte le opere d'arte vogliono fuggire dalle gallerie, non vogliono entrare nei musei, rifiutano d'essere confinate nelle pagine delle pubblicazioni di settore. Vogliono vivere, senza essere spiegate, nei luoghi del nostro vivere quotidiano. Ecco le mille facce, vere, che Dario Gambarin ha scovato e continua a scovare dietro le nostre maschere: scrutano da dentro di noi il nostro stesso volto, cercano di capire come siamo veramente. Creature spontanee, autocreatesi: generate nella materia della pittura senza curarsi di alcuna regola. Facce sfacciate e sfaccettate, racconti del sé visto dal di dentro. Strati successivi di colore solidificano i volumi del pensiero, i suoi fantasmi, le sue espressioni di fronte al vivere. Facce libere, come canzoni di rivoluzione; senza timore, disposte anche a non essere viste, perché in realtà sono loro che ci osservano. Ecco la verità: non possiamo essere noi ad osservare queste opere, siamo noi gli oggetti che esse, a volte beffarde, mai accondiscendenti, osservano.
Umberto Zampini
Critico d’Arte
Curatore
Venezia,Milano, Bologna
Il linguaggio pittorico di Dario Gambarin, apparentemente libero da automatismi, viene espresso nelle tele col metodo di un nuovo espressionismo astratto.
L’essersi avvicinato alla psicologia, rende l’opera di questo fervido artista priva di sovrastrutture che solitamente violentano in maniera subdola l’attenzione dell’osservatore. Dai lavori qui esposti, trapela chiaramente una sofferta passione per la ricerca introspettiva – e non solo - dei moti dell’animo. Dario Gambarin lancia messaggi graffianti attraverso un aggressivo e generoso uso del colore che diventa il medium del proprio personale sentire. E’ così che l’artista trasforma il momento di crisi interiore in creazione. L’opera prende “forma”, si fa visibile e mai fine a se stessa scatena un impatto, forte e incisivo, che si impone forse più ad un profondo livello emozionale che allo strato meramente ottico.
La fisicità delle tele viene filtrata dalla loro stessa fruizione. Nel momento in cui l’artista tramite loro “comunica” con noi, la comunicazione di per sé subisce una deviazione. Alcuni eventi tendono inevitabilmente ad uniformare il pensiero e quello che vediamo si appiattisce, perde significato, si svaluta. La scossa del cambiamento vuole proporla Dario Gambarin con una pittura attiva, viva, animata, ribelle, in eterno confronto con ciò che stato e ciò che sarà. Il pensiero si destruttura, per esplodere nell’immediatezza cromatica. Caratteristica che l’artista considera fondamentale per stimolare reazioni “pure” nell’astante.
L’improvvisazione anima le tele. Gambarin, infatti, non ama perdere tempo e anzi lo riesce ad ottimizzare per merito di un’attività creativa veloce: esattamente come la vita stessa, che scorre inesorabile e non aspetta nessuno. L’intuizione artistica e’ carpita nell’attimo in cui il colore, l’idea, si posa sulla tela. Dal momento che esiste la consapevolezza di “fare” arte si innesca un progressivo cambiamento che fa cogliere all’artista quegli aspetti ora così diversi dalla realtà precedente.
L’intenzione artistica di Dario Gambarin scaturisce dalla volontà di svegliare quelle emozioni che la vita di tutti i giorni, con i suoi sotterfugi cronologici, ci ha ormai rubato. E il colore diventa, per Dario, uno schiaffo ideale alla continua perdita di sensi che provoca la società in cui viviamo Annalisa Tre
Facilmente intuibile l’origine lagunare di Gambarin: “gambero” in veneziano significa gambero. E come questo procede all’indietro. Va avanti voltando le spalle alla realtà, per recuperare ciò che vi è dietro. Il risultato è un’esecuzione al buio: bendati gli occhi della ragione, la sua mano è prepotentemente guidata dall’inconscio che lo costringe a ritrarre ciò che, non vedendosi, lo abbaglia, ciò è l’anima. Quella che Vermeer aveva timidamente accennato nel riflesso di un volto alla finestra, ora ha un ruolo assoluto nella faccia dipinta sulla tela.
Non c’è più posto per il paesaggio, per la figura umana, per qualsiasi oggetto materiale se non al di fuori del quadro: ogni dettaglio che contestualizza l’opera è infinitamente adattabile perchè affidato alla personalità di chi guarda, all’ambiente e al tempo in cui l’opera s’inserisce una volta esposta.
Eliminati i riferimenti materiali, l’esclusività del soggetto fa si ch’esso sia ripetuto fino all’ossessione. L’ovale dei sentimenti perseguita Gambarin, come l’amore di Khnopff per la sorella, tanto da porre nell’immagine ricorrente la loro identificazione artistica. Nell’analogia concettuale entrambi i pittori giocano ad aggregare i modelli in una sola tela, per cui Dario chiama “Circo” la sua riunione di facce e Fernand “Memiories” il suo incontro di figure femminili, ma chiaramente non fanno che ribadire la scelta dell’unico protagonista. E forse il loro operare può far pensare ad un “manierismo di se stesso” che sovente ritroviamo nell’arte contemporanea, basti ricordare la decisione del grande De Chirico che, intuita la moda scaturita dalle sue prime composizioni, le riprodusse a volontà più che sua, del famelico mercato.
Ma l’indennizzo morale di Gambarin è nella tecnica ch’egli utilizza: i colori violenti, le dimensioni notevoli, le linee taglienti fanno capire che questo pittore non altro potrebbe fare che dipingere quel cerchio in cui egli crede intrappolati i sentimenti. Perché ogni pennellata è una sensazione nuova, nata da una pulsione dell’animo, che si stampa nel momento specifico in cui il pittore la percepisce. Come serve una benda per fasciare una ferita, così egli tampona le ferite dell’anima con la tela. Allora troveremo l’inevitabile divampare del rosso. Se invece il verde dà via libera alla speranza, il nostro vedere sarà appagato dalla fiducia del pittore che fotografa il suo istante di buoni propositi. Le tonalità usate sono comunque sempre all’immediatezza del linguaggio artistico. Se finisce per romanzarci sopra, facendo di una descrizione un racconto, mentre, mai come in questa mostra il contenuto è diretto, slegato dalla storia, quindi leggibile oggi a Bologna come domani a New York. o a Venezia, dove ancora sopravivve il detto “ i gusti xè gusti ma in mancanza de gamberi xè bone anca le satte”, ( i gusti sono gusti ma in mancanza di gamberi sono buone anche le zampe di gallina).
L’esposizione si apre dunque con una domanda:
Perché accontentarsi di una scrittura di zampa di gallina, se possiamo godere di un gambarin? Sia l’opera d’arte a parlare, non una recensione che ne limita il gusto.
Giulia Camilotti
Gesti ed azioni pittoriche come simboli dell'esistenza
Queste creazioni di Dario Gambarin - concepite fra il 2000 e il 2006 - ci riportano immediatamente ad una tradizione pittorica che ha lasciato segni profondi in ogni amante dell'arte contemporanea. È la tradizione dell'espressionismo astratto, dell'action painting, dell'informale: quella per intenderci di Jackson Pollock, di Willem De Kooning, di Jean Dubuffet, di Jean Fautrier..., per citare i primi nomi che ci sovvengono. E diciamo questo non perché egli debba essere caratterizzato come un ripetitore di passate ed illustri esperienze artistiche. In che senso? Nel senso che l'arte di Gambarin è riportabile a quelle esperienze più in senso esistenziale che in rapporto alla sua volontà estetica di collegarsi esplicitamente alle poetiche delle suddette tendenze. In lui agisce una dimensione pulsionale, energetica, perché, come ha affermato Pollock, «l'artista moderno... esprime l'energia, il movimento e altre forze interiori». Tale dimensione pulsionale lo fa approdare alla pittura come modalità di esprimere la propria libertà creativa – la propria "libertà libera" di cui parlava Rimbaud – che si materializza artisticamente nella rappresentazione del reale nella prospettiva di una metamorfosi, la quale si declina in tracce e stilizzazioni altre da quelle codificate dalla realtà razionale di ogni giorno. In questa direzione, Dario Gambarin tematizza, sempre di nuovo, la propria dimensione esistenziale sul versante eccentrico e partigiano del gesto e dell'espressione, della follia e della trasgressione come forme di conoscenza; in tale prospettiva, per lui, come per i teorici dell'antipsichiatria, Basaglia, Cooper, Laing, la follia è l'altro dalla ragione, e alle follie della ragione è giusto opporre (in una prospettiva dialettica) le ragioni della follia. Ed è lo stesso artista a scrivere in alcune libere note (accompagnatorie dei suoi dipinti) che «come l'arte comprende parzialmente la follia, la follia contiene totalmente la verità dell'Arte». Ciò significa, a livello pittorico, tematizzare il Brutto contro il Bello, l'Informe contro la Forma, la dimensione "immonda" della realtà contro il nascondimento artificioso (attuato dalle Belle Arti) delle sue componenti materiche e "brutali". Qualcuno potrebbe diagnosticare, in un'ottica formalista: déjà-vu. Ma ciò non può considerarsi un limite perché per ognuno di noi, la propria esistenza e la propria volontà-necessità di creare sono sempre qualcosa di unico a cui è necessario dare senso nella ripetizione universale del biologico e del sociale, del vivere, del procreare e e del rapportarsi intersoggettivamente ai nostri simili. La "ripetizione" (come ci ha insegnato il filosofo Gilles Deleuze, autore di un non dimenticato Différence et répétition) è sempre differente e solo ripetendo-rifiutando, nell'Anxiety of Influence (di cui ha parlato il critico americano decostruzionista Harold Bloom), la lezione dei maestri e i loro input formali, e di sensibilità, è possibile che si dia autenticamente Creazione. In tale prospettiva, Gambarin tematizza la propria esistenza attraverso i segni forti di Munch e degli espressionisti, di Dubuffet e di Pollock, di Appel e dei "Nuovi selvaggi", affermando, implicitamente, che la creazione-ripetizione non ha limiti, sempre uguale a qualcosa di già fatto e, al contempo, sempre nuova nella propria individualità di essere unica, specchio mediato di una vita dentro/fuori dell'arte. Quadro vivente dell'artista stesso, la pittura di Gambarin è una sfida contro il buio che attraversa, in senso epocale, il nostro tempo; non per questo si presenta, tout court, come una professione forzata di ottimismo, bensì come volontà di dare ossigeno ad un mondo e ad un’esistenza che sempre più ne avvertono angosciosamente la penuria. In questo senso, la sua arte-vita mi pare in sintonia (indipendentemente dalle affinità stilistiche) con ciò che diceva un maestro come Marc Rothko, il quale constatava con sorprendente lucidità: «Molteplici solitudini si uniscono casualmente in spiaggia, in strada o nel parco, solo per formare un tableau vivant dell'umana incomunicabilità. Non credo che sia mai stata questione di essere figurativi o astratti. Piuttosto si tratta di porre fine a questo silenzio e a questa solitudine, di dilatare il petto e tornare a respirare».
Anche Gambarin sembra essere consapevole che l'arte avrebbe il respiro corto senza l'aria che le infonde la vita; allo stesso modo che la vita nella sua globalità (coi suoi profumi, sapori, odori, colori, sensazioni...) è in grado di prendere meglio coscienza di se stessa attraverso le metafore, i segni e la magia della creazione artistica, in quanto simbolo non marginale della vita stessa, considerata nelle multiforme fenomenologia delle sue manifestazioni.
Alfredo De Paz
Alle pennellate dense e decise che rincorrono spesso la sagoma o il profilo di un volto o di un teschio senza nome, l’artista alterna nei suoi lavori più recenti quel dripping di apparente matrice americana, ma di sapore più verosimilmente mediterraneo, dove lo sgocciolamento del pigmento in vortici di materia sospesa e rarefatta raggiungono un punto d’equilibrio nel cosmo e nelle galassie multiple del colore.
L’espressionismo tedesco remoto e recente, l’action painting americana, ma anche il nostro informale più materico e pastoso, sembrano aver contribuito alla nascita di un linguaggio stilistico, che rimane tuttavia atipico, in anni in cui la figurazione puntuale sembra aver ripreso il sopravvento.
Le icone inquiete e reiterate, che l’artista imprime sulle sue tele spesse e cariche di colori stratificati, rimandano infatti ad un inequivocabile linguaggio simbolico e vitale nella sua immediatezza. Nel reticolo dei segni e degli archetipi pagani il colore è solo un mezzo per raggiungere una forma, che porta con sé l’essenza di un concetto, a volte lontano dal referente figurativo vero e proprio.
L’arte di Gambarin risulta quindi pervasa da un’energia misteriosa e potente, il cui impatto visivo immediato ci introduce, come una trance metapsichica profonda, nei meandri tortuosi ed inesplorati della mente incosciente e della coscienza mascherata.
La potenza del flusso vitale riesce così a rompere gli schemi precostituiti della comunicazione verbale e visiva ed a scardinare le regole del linguaggio convenzionale, portando intuitivamente a galla frammenti di verità vissuta. Il tutto a favore di un' arte che sente come esigenza primordiale il dialogo con la vita e per la vita.
Marina Coden
Dott.ssa
Marina Coden
Critico d’Arte
Bologna
Di formazione accademica, il suo lavoro non è scevro da un percorso espressivo che, partendo da suggestioni oniriche pre-espressioniste, approda a nuovi orizzonti simbolico-surrealisti, ricchi di suggestioni filosofiche.
Oggetti del suo lavoro sono materiali ed espressioni filtrate da una luce interiore, sola interprete di realtà noumeniche dell’umano divenire dove i colori tratteggiano, con un virtuosismo sinfonico, maschere umane, che deformandosi, fluttuano una immaginaria realtà.
Questa fantasia visionaria è il simbolo che, in tal espressione pittorica, fuoriesce e straborda da colori che scangiano e cangiano, quasi a testimonianza della trasformazione convulsa nell’IO di continui stati emozionali.
Ecco che le sensazioni hanno colore e l’immagine si fa linguaggio universale, utile anche a superare la frattura tra realtà e fantasia.
Noi, al di là dal gesto creativo, al di là dell’opera, non dovremmo limitarci a contemplare queste immagini quanto piuttosto a completarle, facendo prima il vuoto dentro, abbandonando ogni umano pregiudizio, per poi essere disponibili ad esse come una lastra fotografica.
Arabella Siano
Dott.ssa
Arabella Siano
Critico d’Arte
Salerno
…….correnti e scuole, letteratura e politica dell’arte rimangono sullo sfondo, sostanzialmente estranee alla pittura e alla vita dell’artista. Il quale, semplicemente, apre sulla tela un varco all’emozione, scegliendo come soggetto il luogo in cui essa si manifesta primariamente: il volto umano, rappresentato in modo più o meno figurativo e subito sfigurato da tratti e pennelate veloci in colori roventi, gialli e rossi. Nel segno dell’affanno e della concitazione. In una sorta di disperata scomessa: che l’emozione si faccia linguaggio, trovi da sola le vie del comunicare, parli all’osservatore senza mediazioni e infingimenti, quasi per contagio, in un corpo a corpo, volto a consacrare il primato del colore sul disegno, del vissuto sul pensiero, dell’interiezione sulla frase, del medium sul messaggio……
Alessandro Serra
Prof.
Alessandro Serra
Departimento
di Psicologia dell’Arte
Università di Bologna
Tra catarsi e riparazione
Quello che colpisce nelle opere di Gambarin, in questa serie di volti incombenti, fatti di spesse righe dai colori accesi (volti isolati, più spesso allineati in sequenze coatte, talvolta gemellati come doppi inquietanti), è la disperata frontalità della maschera - oppure dello specchio, quando rivela lo stupore di un IO che ha perduto se stesso. La perturbante fissità di questi grandi occhi spalancati sui mali del mondo, grazie al lavoro dell’arte (tra catarsi e riparazione), ha come congelato l’angoscia, e l’ha trasformata in una sorta di addomesticata e quasi rassicurante tristezza.
Stefano Ferrari
Prof. Stefano Ferrari
Dipartimento
di Psicologia dell’Arte
Università di Bologna
A volte le opere d'arte vogliono fuggire dalle gallerie, non vogliono entrare nei musei, rifiutano d'essere confinate nelle pagine delle pubblicazioni di settore. Vogliono vivere, senza essere spiegate, nei luoghi del nostro vivere quotidiano. Ecco le mille facce, vere, che Dario Gambarin ha scovato e continua a scovare dietro le nostre maschere: scrutano da dentro di noi il nostro stesso volto, cercano di capire come siamo veramente. Creature spontanee, autocreatesi: generate nella materia della pittura senza curarsi di alcuna regola. Facce sfacciate e sfaccettate, racconti del sé visto dal di dentro. Strati successivi di colore solidificano i volumi del pensiero, i suoi fantasmi, le sue espressioni di fronte al vivere. Facce libere, come canzoni di rivoluzione; senza timore, disposte anche a non essere viste, perché in realtà sono loro che ci osservano. Ecco la verità: non possiamo essere noi ad osservare queste opere, siamo noi gli oggetti che esse, a volte beffarde, mai accondiscendenti, osservano.
Umberto Zampini
Critico d’Arte
Curatore
Venezia,Milano, Bologna
Il linguaggio pittorico di Dario Gambarin, apparentemente libero da automatismi, viene espresso nelle tele col metodo di un nuovo espressionismo astratto.
L’essersi avvicinato alla psicologia, rende l’opera di questo fervido artista priva di sovrastrutture che solitamente violentano in maniera subdola l’attenzione dell’osservatore. Dai lavori qui esposti, trapela chiaramente una sofferta passione per la ricerca introspettiva – e non solo - dei moti dell’animo. Dario Gambarin lancia messaggi graffianti attraverso un aggressivo e generoso uso del colore che diventa il medium del proprio personale sentire. E’ così che l’artista trasforma il momento di crisi interiore in creazione. L’opera prende “forma”, si fa visibile e mai fine a se stessa scatena un impatto, forte e incisivo, che si impone forse più ad un profondo livello emozionale che allo strato meramente ottico.
La fisicità delle tele viene filtrata dalla loro stessa fruizione. Nel momento in cui l’artista tramite loro “comunica” con noi, la comunicazione di per sé subisce una deviazione. Alcuni eventi tendono inevitabilmente ad uniformare il pensiero e quello che vediamo si appiattisce, perde significato, si svaluta. La scossa del cambiamento vuole proporla Dario Gambarin con una pittura attiva, viva, animata, ribelle, in eterno confronto con ciò che stato e ciò che sarà. Il pensiero si destruttura, per esplodere nell’immediatezza cromatica. Caratteristica che l’artista considera fondamentale per stimolare reazioni “pure” nell’astante.
L’improvvisazione anima le tele. Gambarin, infatti, non ama perdere tempo e anzi lo riesce ad ottimizzare per merito di un’attività creativa veloce: esattamente come la vita stessa, che scorre inesorabile e non aspetta nessuno. L’intuizione artistica e’ carpita nell’attimo in cui il colore, l’idea, si posa sulla tela. Dal momento che esiste la consapevolezza di “fare” arte si innesca un progressivo cambiamento che fa cogliere all’artista quegli aspetti ora così diversi dalla realtà precedente.
L’intenzione artistica di Dario Gambarin scaturisce dalla volontà di svegliare quelle emozioni che la vita di tutti i giorni, con i suoi sotterfugi cronologici, ci ha ormai rubato. E il colore diventa, per Dario, uno schiaffo ideale alla continua perdita di sensi che provoca la società in cui viviamo Annalisa Tre
Facilmente intuibile l’origine lagunare di Gambarin: “gambero” in veneziano significa gambero. E come questo procede all’indietro. Va avanti voltando le spalle alla realtà, per recuperare ciò che vi è dietro. Il risultato è un’esecuzione al buio: bendati gli occhi della ragione, la sua mano è prepotentemente guidata dall’inconscio che lo costringe a ritrarre ciò che, non vedendosi, lo abbaglia, ciò è l’anima. Quella che Vermeer aveva timidamente accennato nel riflesso di un volto alla finestra, ora ha un ruolo assoluto nella faccia dipinta sulla tela.
Non c’è più posto per il paesaggio, per la figura umana, per qualsiasi oggetto materiale se non al di fuori del quadro: ogni dettaglio che contestualizza l’opera è infinitamente adattabile perchè affidato alla personalità di chi guarda, all’ambiente e al tempo in cui l’opera s’inserisce una volta esposta.
Eliminati i riferimenti materiali, l’esclusività del soggetto fa si ch’esso sia ripetuto fino all’ossessione. L’ovale dei sentimenti perseguita Gambarin, come l’amore di Khnopff per la sorella, tanto da porre nell’immagine ricorrente la loro identificazione artistica. Nell’analogia concettuale entrambi i pittori giocano ad aggregare i modelli in una sola tela, per cui Dario chiama “Circo” la sua riunione di facce e Fernand “Memiories” il suo incontro di figure femminili, ma chiaramente non fanno che ribadire la scelta dell’unico protagonista. E forse il loro operare può far pensare ad un “manierismo di se stesso” che sovente ritroviamo nell’arte contemporanea, basti ricordare la decisione del grande De Chirico che, intuita la moda scaturita dalle sue prime composizioni, le riprodusse a volontà più che sua, del famelico mercato.
Ma l’indennizzo morale di Gambarin è nella tecnica ch’egli utilizza: i colori violenti, le dimensioni notevoli, le linee taglienti fanno capire che questo pittore non altro potrebbe fare che dipingere quel cerchio in cui egli crede intrappolati i sentimenti. Perché ogni pennellata è una sensazione nuova, nata da una pulsione dell’animo, che si stampa nel momento specifico in cui il pittore la percepisce. Come serve una benda per fasciare una ferita, così egli tampona le ferite dell’anima con la tela. Allora troveremo l’inevitabile divampare del rosso. Se invece il verde dà via libera alla speranza, il nostro vedere sarà appagato dalla fiducia del pittore che fotografa il suo istante di buoni propositi. Le tonalità usate sono comunque sempre all’immediatezza del linguaggio artistico. Se finisce per romanzarci sopra, facendo di una descrizione un racconto, mentre, mai come in questa mostra il contenuto è diretto, slegato dalla storia, quindi leggibile oggi a Bologna come domani a New York. o a Venezia, dove ancora sopravivve il detto “ i gusti xè gusti ma in mancanza de gamberi xè bone anca le satte”, ( i gusti sono gusti ma in mancanza di gamberi sono buone anche le zampe di gallina).
L’esposizione si apre dunque con una domanda:
Perché accontentarsi di una scrittura di zampa di gallina, se possiamo godere di un gambarin? Sia l’opera d’arte a parlare, non una recensione che ne limita il gusto.
Giulia Camilotti
Gesti ed azioni pittoriche come simboli dell'esistenza
Queste creazioni di Dario Gambarin - concepite fra il 2000 e il 2006 - ci riportano immediatamente ad una tradizione pittorica che ha lasciato segni profondi in ogni amante dell'arte contemporanea. È la tradizione dell'espressionismo astratto, dell'action painting, dell'informale: quella per intenderci di Jackson Pollock, di Willem De Kooning, di Jean Dubuffet, di Jean Fautrier..., per citare i primi nomi che ci sovvengono. E diciamo questo non perché egli debba essere caratterizzato come un ripetitore di passate ed illustri esperienze artistiche. In che senso? Nel senso che l'arte di Gambarin è riportabile a quelle esperienze più in senso esistenziale che in rapporto alla sua volontà estetica di collegarsi esplicitamente alle poetiche delle suddette tendenze. In lui agisce una dimensione pulsionale, energetica, perché, come ha affermato Pollock, «l'artista moderno... esprime l'energia, il movimento e altre forze interiori». Tale dimensione pulsionale lo fa approdare alla pittura come modalità di esprimere la propria libertà creativa – la propria "libertà libera" di cui parlava Rimbaud – che si materializza artisticamente nella rappresentazione del reale nella prospettiva di una metamorfosi, la quale si declina in tracce e stilizzazioni altre da quelle codificate dalla realtà razionale di ogni giorno. In questa direzione, Dario Gambarin tematizza, sempre di nuovo, la propria dimensione esistenziale sul versante eccentrico e partigiano del gesto e dell'espressione, della follia e della trasgressione come forme di conoscenza; in tale prospettiva, per lui, come per i teorici dell'antipsichiatria, Basaglia, Cooper, Laing, la follia è l'altro dalla ragione, e alle follie della ragione è giusto opporre (in una prospettiva dialettica) le ragioni della follia. Ed è lo stesso artista a scrivere in alcune libere note (accompagnatorie dei suoi dipinti) che «come l'arte comprende parzialmente la follia, la follia contiene totalmente la verità dell'Arte». Ciò significa, a livello pittorico, tematizzare il Brutto contro il Bello, l'Informe contro la Forma, la dimensione "immonda" della realtà contro il nascondimento artificioso (attuato dalle Belle Arti) delle sue componenti materiche e "brutali". Qualcuno potrebbe diagnosticare, in un'ottica formalista: déjà-vu. Ma ciò non può considerarsi un limite perché per ognuno di noi, la propria esistenza e la propria volontà-necessità di creare sono sempre qualcosa di unico a cui è necessario dare senso nella ripetizione universale del biologico e del sociale, del vivere, del procreare e e del rapportarsi intersoggettivamente ai nostri simili. La "ripetizione" (come ci ha insegnato il filosofo Gilles Deleuze, autore di un non dimenticato Différence et répétition) è sempre differente e solo ripetendo-rifiutando, nell'Anxiety of Influence (di cui ha parlato il critico americano decostruzionista Harold Bloom), la lezione dei maestri e i loro input formali, e di sensibilità, è possibile che si dia autenticamente Creazione. In tale prospettiva, Gambarin tematizza la propria esistenza attraverso i segni forti di Munch e degli espressionisti, di Dubuffet e di Pollock, di Appel e dei "Nuovi selvaggi", affermando, implicitamente, che la creazione-ripetizione non ha limiti, sempre uguale a qualcosa di già fatto e, al contempo, sempre nuova nella propria individualità di essere unica, specchio mediato di una vita dentro/fuori dell'arte. Quadro vivente dell'artista stesso, la pittura di Gambarin è una sfida contro il buio che attraversa, in senso epocale, il nostro tempo; non per questo si presenta, tout court, come una professione forzata di ottimismo, bensì come volontà di dare ossigeno ad un mondo e ad un’esistenza che sempre più ne avvertono angosciosamente la penuria. In questo senso, la sua arte-vita mi pare in sintonia (indipendentemente dalle affinità stilistiche) con ciò che diceva un maestro come Marc Rothko, il quale constatava con sorprendente lucidità: «Molteplici solitudini si uniscono casualmente in spiaggia, in strada o nel parco, solo per formare un tableau vivant dell'umana incomunicabilità. Non credo che sia mai stata questione di essere figurativi o astratti. Piuttosto si tratta di porre fine a questo silenzio e a questa solitudine, di dilatare il petto e tornare a respirare».
Anche Gambarin sembra essere consapevole che l'arte avrebbe il respiro corto senza l'aria che le infonde la vita; allo stesso modo che la vita nella sua globalità (coi suoi profumi, sapori, odori, colori, sensazioni...) è in grado di prendere meglio coscienza di se stessa attraverso le metafore, i segni e la magia della creazione artistica, in quanto simbolo non marginale della vita stessa, considerata nelle multiforme fenomenologia delle sue manifestazioni.
Alfredo De Paz
25
gennaio 2006
Dario Gambarin – Mask
Dal 25 gennaio al 19 marzo 2006
arte contemporanea
Location
LE STANZE
Bologna, Via Del Borgo Di San Pietro, 1, (Bologna)
Bologna, Via Del Borgo Di San Pietro, 1, (Bologna)
Vernissage
25 Gennaio 2006, ore 21
Sito web
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