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O. M. Z. (Our Maker Zilch)
Collettiva di opere aniconiche
Comunicato stampa
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Attualmente l’opera aniconica si pone come dato fenomenico ostentando sempre e necessariamente un referente, un oggetto che suscita stupore, tensione, ossessione. Senza negarsi all’indagine speculativa sulle qualità del “come”, il “cosa” acquista nuovamente uno statuto paritetico. Nella soglia di attenzione applicata al metodo riduzionista, l’esprit de géometrie è ora in subordine al mondo civilizzato. Diversamente dai processi di sintesi ed epurazione promanati da Mondrian in poi, la priorità è disporre tout à faite del presente, di quel contesto sociale che è fondamento dell’esistenzialismo post-industriale di Peter Halley (le cui opere si proclamano più realiste che astratte).
L’artista regola e decide di classificare il mondo restituendo il senso di un’epoca mediante la percettibilità-perfettibilità della geometria, ritenuta elementare affermazione del nostro tempo; compiendo uno sforzo di approfondimento torna a informarsi su quella realtà che aveva intenzionalmente ignorato ottenendo così la “figurazione di un’astrazione”.
In questo detour di fine/inizio secolo, l’artista è diventato un abile programmatore, un ingegnere informatico che conosce le dinamiche della computer-graphic e profitta d’essere stato un instancabile agonista dell’Atari. RICCARDO AMABILI, come tutti gli artisti nati e cresciuti dopo gli anni ’60/70, si è formato sull’archeologia tecnologica dei primi videogiochi, le combinazioni del tassello Lego, l’incastro del Meccano e centinaia d’altri stimoli ludici, sull’esempio delle opere di DARIO MOROLDO e STEFANO PARON. Ma se l’orizzonte è quello del pc, il paesaggio è ancora quello urbano, la matrice-madre rimane sempre l’architettura come ci dimostra BARBARA DE PONTI. Diverso il caso di SIMONE LUCIETTI i cui Kill’em all sono invece dei frammenti che trovano origine in una realtà limite come quella della tortura inquisitoria.
RICCARDO AMABILI [nato a San Benedetto del Tronto (AP) nel 1981, dove vive e lavora]
Tutta la produzione è accomunata da un lavoro di ricerca e d’indagine iconografica sui videogiochi low-res: questa indagine porta il pixel, l’unità minima dell’immagine digitale, a diventare l’elemento fondante della struttura e del disegno.
I primi dipinti sono caratterizzati da pixel di grandi dimensioni che rendono il soggetto raffigurato poco identificabile, mantenendo un linguaggio necessariamente più astratto. Nei lavori più recenti la ricerca si orienta verso gli elementi distintivi dei videogiochi, i loro spazi e la loro struttura (soprattutto, platform, punteggio, violenza, ecc.), mentre la dimensione dei pixel tende a diminuire concedendo all'organizzazione dell'immagine una resa più figurativa.
BARBARA DE PONTI [nata a Magenta (MI) nel 1975, vive e lavora a Milano]
Si procede stendendo prima il nero acrilico sull'intera superficie per poi eseguire le pieghe, risvolti e raschiature, sino a che il colore originario del foglio di carta da spolvero riaffiori a comporre i soggetti. Questi provengono dalla dimensione urbana; sono scelti tra gli edifici che cambiano il volto della città.
I soggetti degli ultimi lavori accentuano le similitudini con i disegni ingegneristici, coi progetti architettonici, con i wire frame, ma le origini delle carte si ritrovano soprattutto nella pratica calcografica, nel gesto di imprimere solchi. Lo scavare cesure nei lavori richiama la modalità con cui la realtà urbana viene ridefinita da edifici che determinano la sua identità: la città come reticolo di linee, simile a quello generate dalle pieghe sulla superficie cartacea, dove si sovrappongono le tracce alcune più profonde, più consistenti.
SIMONE LUCIETTI [nato a Bassano del Grappa (VI) nel 1969, dove vive e lavora]
Il Cabaret del Grottesco è il luogo dove prendono forma tutti i segni visivi e significanti; segni che si concretizzano in forme realizzate utilizzando materiali naturali e industriali. Il Cabaret del Grottesco è un labirinto da dove non si può uscire senza una guida e dove i tanti intrecci di strade e passaggi possono condurre l’opera a divenire a volte paradossale e a volte Cinica; ma anche ad essere a volte beffarda oppure sagace. In questo luogo i colori diventano strumenti pericolosi e le forme assumono le sembianze di strutture meccanicamente assemblate per difendere la propria esistenza di oggetti e per riscattare il limite che l’oggetto rappresenta. “Kill’em all” tra arte e terrore si pone come una sequenza frontale di frammenti che trovano origine in una realtà limite come quella della tortura inquisitoria, ma arrivano ad esplorare la dimensione dell’astratto in un’azione tanto liberatoria quanto pericolosa. L’atto costruttivo non è concepito in relazione ad una possibile architettura e il risultato è indipendente dallo spazio.
DARIO MOROLDO [nato a Roma nel 1977, vive e lavora tra Bologna e Udine]
L’astrazione può essere considerata la partenza da cui innestare una ricerca artistica o è ancora un punto di non ritorno, culmine e risultato di un processo di semplificazione concettuale? Forse la risposta è a metà strada. Se le avanguardie storiche si sono dirette verso il “non ritorno”, nel dopoguerra l’astrazione è stata il combustibile per il travalicamento della pittura verso manifestazioni artistiche “altre”.
E Noi? Anche per noi, come per i proto-minimalisti, le forme astratte fungono da “proposito verso l’alterità dell’opera d’arte” ma a differenza di questi ultimi, che istituivano sistemi linguistici ancora fondati su proposizioni logiche e convenzionali, noi creiamo dei “codici” a nostra misura, a nostra “somiglianza”. Il “mio” sistema è individuale, è un “micro-sistema” con regole proprie alla cui origine c’è un “buco nero”; la grammatica interna della mia opera si costituisce come tentativo paradossale di costruire un linguaggio oggettivo partendo da un’unità-modulo che non lo è affatto.
L’artista non è altro che un costruttore che si rende cieco nel momento in cui crea o deve scegliere i “mattoni” che comporranno l’opera; una cecità temporanea ed allo stesso tempo necessaria.
STEFANO PARON [nato a Udine nel 1980, vive e lavora a Bologna]
L'assonometria permette di riconoscere molto velocemente i volumi, mantenendo parallele le linee e utilizzando solamente alcune ampiezze angolari, questo metodo di rappresentazione garantisce l'immediata comprensione dei suoi segni ma nello stesso tempo può ingannare l'occhio, perché il disegno si sviluppa su due dimensioni quindi il volume è piatto ed il piano ci sembra tridimensionale.
Tutto questo funziona se l'assonometria viene usata riferendo il disegno all'ambiente progettuale, ma se questa viene usata per il suo valore estetico l’attenzione cade sul segno portante della nuova astrazione geometrica: l’angolo. Non più rigido e fisso come quello retto ma dinamico e ingannevole, capace di spiegare un volume usando semplici e regolari ampiezze.
Il discorso si complica se l'assonometria esce dal piano; utilizzando le stesse regole compositive si può generare un volume che solamente da un punto di vista ci appare assonometrico e quindi appiattito. La struttura tridimensionale si spinge verso di noi, si illumina nello stesso modo e con la stessa fonte delle altre cose che ci circondano, ma fa parte di un mondo "altro".
L’artista regola e decide di classificare il mondo restituendo il senso di un’epoca mediante la percettibilità-perfettibilità della geometria, ritenuta elementare affermazione del nostro tempo; compiendo uno sforzo di approfondimento torna a informarsi su quella realtà che aveva intenzionalmente ignorato ottenendo così la “figurazione di un’astrazione”.
In questo detour di fine/inizio secolo, l’artista è diventato un abile programmatore, un ingegnere informatico che conosce le dinamiche della computer-graphic e profitta d’essere stato un instancabile agonista dell’Atari. RICCARDO AMABILI, come tutti gli artisti nati e cresciuti dopo gli anni ’60/70, si è formato sull’archeologia tecnologica dei primi videogiochi, le combinazioni del tassello Lego, l’incastro del Meccano e centinaia d’altri stimoli ludici, sull’esempio delle opere di DARIO MOROLDO e STEFANO PARON. Ma se l’orizzonte è quello del pc, il paesaggio è ancora quello urbano, la matrice-madre rimane sempre l’architettura come ci dimostra BARBARA DE PONTI. Diverso il caso di SIMONE LUCIETTI i cui Kill’em all sono invece dei frammenti che trovano origine in una realtà limite come quella della tortura inquisitoria.
RICCARDO AMABILI [nato a San Benedetto del Tronto (AP) nel 1981, dove vive e lavora]
Tutta la produzione è accomunata da un lavoro di ricerca e d’indagine iconografica sui videogiochi low-res: questa indagine porta il pixel, l’unità minima dell’immagine digitale, a diventare l’elemento fondante della struttura e del disegno.
I primi dipinti sono caratterizzati da pixel di grandi dimensioni che rendono il soggetto raffigurato poco identificabile, mantenendo un linguaggio necessariamente più astratto. Nei lavori più recenti la ricerca si orienta verso gli elementi distintivi dei videogiochi, i loro spazi e la loro struttura (soprattutto, platform, punteggio, violenza, ecc.), mentre la dimensione dei pixel tende a diminuire concedendo all'organizzazione dell'immagine una resa più figurativa.
BARBARA DE PONTI [nata a Magenta (MI) nel 1975, vive e lavora a Milano]
Si procede stendendo prima il nero acrilico sull'intera superficie per poi eseguire le pieghe, risvolti e raschiature, sino a che il colore originario del foglio di carta da spolvero riaffiori a comporre i soggetti. Questi provengono dalla dimensione urbana; sono scelti tra gli edifici che cambiano il volto della città.
I soggetti degli ultimi lavori accentuano le similitudini con i disegni ingegneristici, coi progetti architettonici, con i wire frame, ma le origini delle carte si ritrovano soprattutto nella pratica calcografica, nel gesto di imprimere solchi. Lo scavare cesure nei lavori richiama la modalità con cui la realtà urbana viene ridefinita da edifici che determinano la sua identità: la città come reticolo di linee, simile a quello generate dalle pieghe sulla superficie cartacea, dove si sovrappongono le tracce alcune più profonde, più consistenti.
SIMONE LUCIETTI [nato a Bassano del Grappa (VI) nel 1969, dove vive e lavora]
Il Cabaret del Grottesco è il luogo dove prendono forma tutti i segni visivi e significanti; segni che si concretizzano in forme realizzate utilizzando materiali naturali e industriali. Il Cabaret del Grottesco è un labirinto da dove non si può uscire senza una guida e dove i tanti intrecci di strade e passaggi possono condurre l’opera a divenire a volte paradossale e a volte Cinica; ma anche ad essere a volte beffarda oppure sagace. In questo luogo i colori diventano strumenti pericolosi e le forme assumono le sembianze di strutture meccanicamente assemblate per difendere la propria esistenza di oggetti e per riscattare il limite che l’oggetto rappresenta. “Kill’em all” tra arte e terrore si pone come una sequenza frontale di frammenti che trovano origine in una realtà limite come quella della tortura inquisitoria, ma arrivano ad esplorare la dimensione dell’astratto in un’azione tanto liberatoria quanto pericolosa. L’atto costruttivo non è concepito in relazione ad una possibile architettura e il risultato è indipendente dallo spazio.
DARIO MOROLDO [nato a Roma nel 1977, vive e lavora tra Bologna e Udine]
L’astrazione può essere considerata la partenza da cui innestare una ricerca artistica o è ancora un punto di non ritorno, culmine e risultato di un processo di semplificazione concettuale? Forse la risposta è a metà strada. Se le avanguardie storiche si sono dirette verso il “non ritorno”, nel dopoguerra l’astrazione è stata il combustibile per il travalicamento della pittura verso manifestazioni artistiche “altre”.
E Noi? Anche per noi, come per i proto-minimalisti, le forme astratte fungono da “proposito verso l’alterità dell’opera d’arte” ma a differenza di questi ultimi, che istituivano sistemi linguistici ancora fondati su proposizioni logiche e convenzionali, noi creiamo dei “codici” a nostra misura, a nostra “somiglianza”. Il “mio” sistema è individuale, è un “micro-sistema” con regole proprie alla cui origine c’è un “buco nero”; la grammatica interna della mia opera si costituisce come tentativo paradossale di costruire un linguaggio oggettivo partendo da un’unità-modulo che non lo è affatto.
L’artista non è altro che un costruttore che si rende cieco nel momento in cui crea o deve scegliere i “mattoni” che comporranno l’opera; una cecità temporanea ed allo stesso tempo necessaria.
STEFANO PARON [nato a Udine nel 1980, vive e lavora a Bologna]
L'assonometria permette di riconoscere molto velocemente i volumi, mantenendo parallele le linee e utilizzando solamente alcune ampiezze angolari, questo metodo di rappresentazione garantisce l'immediata comprensione dei suoi segni ma nello stesso tempo può ingannare l'occhio, perché il disegno si sviluppa su due dimensioni quindi il volume è piatto ed il piano ci sembra tridimensionale.
Tutto questo funziona se l'assonometria viene usata riferendo il disegno all'ambiente progettuale, ma se questa viene usata per il suo valore estetico l’attenzione cade sul segno portante della nuova astrazione geometrica: l’angolo. Non più rigido e fisso come quello retto ma dinamico e ingannevole, capace di spiegare un volume usando semplici e regolari ampiezze.
Il discorso si complica se l'assonometria esce dal piano; utilizzando le stesse regole compositive si può generare un volume che solamente da un punto di vista ci appare assonometrico e quindi appiattito. La struttura tridimensionale si spinge verso di noi, si illumina nello stesso modo e con la stessa fonte delle altre cose che ci circondano, ma fa parte di un mondo "altro".
30
settembre 2005
O. M. Z. (Our Maker Zilch)
Dal 30 settembre al 22 novembre 2005
arte contemporanea
Location
BELLOFRESCO
Venezia, Calle Della Testa, 1, (Venezia)
Venezia, Calle Della Testa, 1, (Venezia)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 16-19
Autore
Curatore