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Stefano Abbiati – Album di famiglia con cortocircuito mediatico
Personale
Comunicato stampa
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Album di famiglia con cortocircuito mediatico
Alessandro Riva
C’è un quadro di Stefano Abbiati che ben spiega il suo approccio pittorico – e la sua disposizione teorica – in questo scorcio di primi anni Duemila. E’ un quadro allo stesso tempo rigoroso e sottilmente ironico, dichiaratemente “politico” e tuttavia venato da un’atmosfera svagata e surreale, severissimo e bizzarramente malinconico. È “Tutta colpa di Walt Whitman”, il dipinto eroico-funerario di questi vecchi-nuovi anni di guerre e di sanguinarie bestialità diffuse, il canto del cigno dei nuovi venti eroico-belligeranti mondiali, la Spoon River delle fuggevoli certezze del mito della supremazia culturale e militare occidentale. “Tutta colpa di Walt Whitman” sta a questi nostri anni Duemila come La morte dell’anarchico Pinelli di Baj stava agli anni Sessanta, o come I funerali di Togliatti di Guttuso agli Cinquanta, o come, ancora, I funerali dell’anarchico Galli di Carrà agli anni Dieci: uno straordinario epitaffio funebre per i nostri morti (e i nostri miti) di oggi, una litania dal sapore amaro e malinconico di commemorazione di ciò che soltanto ieri davamo per scontato, e che nel giro d’un pugno d’anni s’è invece sgretolato come neve al sole: la certezza della nostra inviolabilità di cittadini dell’Europa – l’Europa dei vecchi davanziali, dell’utopia moderna e progressiva della libera circolazione di beni e di persone, della democrazia e della tolleranza multiculturale, nonché quella della nostra invulnerabilità di fronte all’imperversare di guerre che avrebbero, comunque, riguardato sempre e solo gli altri, i derelitti, i marginali, i mendicanti delle mille periferie dell’impero. Laddove nel 1913 si seppelliva, con l’anarchico Galli, la spinta insurrezionale e sovversiva che nel, giro di pochi anni, sarebbe stata fatalmente spazzata via e inglobata dal “rivoluzionario” e insieme iperreazionario fascismo incipiente, laddove nel 1964, con I funerali di Togliatti, si celebrava la chiusura di un’esperienza, quella del mito tutto italiano di una via autonoma, seppure legata a doppio filo con i miti, le ideologie e le gerarchie del potere sovietico, al socialismo (esperienza che nel giro di pochi anni sarebbe invece stata superata a sinistra dall’esperienza libertaria e liberatrice del Sessantotto), laddove nel 1969 si chiudevano iinvece, con la Strage di Piazza Fontana e la morte di Pinelli, le speranze di un passaggio soft e nonviolento a forme di democratizzazione e di apertura di spazi di libertà e di partecipazione diffusa, aprendo così la strada da una parte al periodo dello stragismo nero e della strategia della tensione, e dall’altra a quell’imbuto ideologico e politico che sono stati gli anni di piombo; e laddove, infine, con il rapimento di Moro (la cui morte verrà invece celebrata, in pittura, da un altro quadro che può a pieno titolo inserirsi in questa galleria di simboliche pietà civili, Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro di Marco Cingolani, del 1989), si chiudeva anche il periodo della trucida utopia brigatista d’una “via italiana“ alla lotta armata, lasciando aperto il campo al vuoto ideologico, etico e civile di questo passaggio di secolo, ebbene oggi, con il nuovo capitolo belligerante rappresentato, simbolicamente, dalla guerra in Irak (ma apertosi più d’un decennio fa con il montante revanchismo culturale e religioso islamista, la faglia mediorientale, lo scontro crescente tra interessi economici e scelta di campo ideologica e culturale occidentale versus modello sociale e culturale islamista), con la guerra in Irak, dicevo, con i suoi lutti anche occidentali e le sue sconce tragedie che coinvolgono indiscriminatamente tutti, occidentali e arabi, si chiude ora un altro periodo – che Abbiati, con giovanile freschezza e allo stesso tempo con rara sicurezza, sapientemente celebra con il suo “Tutta colpa di Walt Whitman”. E forse, in fondo, ha proprio ragione Stefano Abbiati: forse è proprio vero che è “tutta colpa di Walt Whitman”: forse nasce da lì, dall’orgoglio indomito di una nazione che costruisce se stessa, il proprio mito, la propria imbattibilità non solo militare ma anche culturale (il famoso “imperialismo culturale” di cui cianciano – paradossalmente non senza qualche straccio di ragione – no global e no logo di tutto il mondo, però cresciuti e pasciuti, bontà loro, e non senza averci preso alquanto gusto, ad hamburger, thriller holliwodiani e Coca-Cola nelle mille periferie eurasiatiche dell’impero), che costruisce il mito della propria superiorità identitaria e culturale a partire dall’orgoglio – dall’orgoglio delle proprie radici, della propria identità, della propria storia (quell’orgoglio che a noi italiani, dopo il fallimento del modello retorico postrisorgimentale, monarchico e di seguito fascista, inevitabilmente manca, e forse mancherà sempre, per lo meno per i decenni immediatamente a venire); da qui, dunque, davvero, forse, nasce l’eterno spirito belligerante dell’America, e dunque anche quella tragedia ben sintetizzata da Abbiati nel quadro di cui sopra – una bara ricoperta da una bandiera, e intorno quattro soldati armati di mitraglietta, l’aria austera e stolida di tutti i soldati del mondo, in divisa da parata (una divisa simbolica e non riconducibile a nessun esercito in particolare, ma che poi, singolarmente, per quegli scherzi dell’inconscio che sorgono da qualche zona profonda della coscienza degli artisti più che da una scelta razionale e motivata, ricorda da vicino quella dell’esercito repubblichino dell’Italia di Salò) – quella tragedia, dicevo, che indiscutibilmente e sotto tutti gli aspetti è l’attuale guerra in Irak. È “tutta colpa di Walt Whitman”, dunque: dell’orgoglio austero e dal potere inebriante e suggestivo delle sue parole, dell’orgoglio verso il suo popolo, verso la sua gente, verso la sua terra – le "terre femminili e maschie” cantate dal poeta –, colpa sua, dunque, della sua capacità di unire e di rendere parola e simbolo vivente le emozioni e le convinzioni del suo popolo e della sua gente. Ha ragione da vendere, dunque, Stefano Abbiati, che con un quadro e un semplice titolo – insieme diretto e fortemente allusivo – colpisce nel segno (o più che altro apre spazi di riflessione) su una questione che, da anni, tiene aperto il dibattito della scena internazionale; ma soprattutto ha ragione nell’irrompere, oggi, sulla scena della pittura italiana con questa sua maniera, una maniera allo stesso tempo scanzonata e sarcastica, politica e divertita, impegnata e ironicamente svagata, a cinquant’anni di distanza dalle istanze retoricamente “politiche” di Guttuso e trent’anni dopo quelle ironico-patafisiche di un Baj. La formula che Stefano Abbiati ha scovato, in questa stagione di rinnovamento soft, di discontinuità sottile e insieme, paradossalmente, di fortissima continuità rispetto alla tradizione della pittura italiana, è appunto quella di un approccio al dipingere che appare insieme colto e istintivo, intristo di riferimenti tra i più disparati – dalla lezione baconiana a quella informale a quella di derivazione espressionista –, e insieme venato da un’ìronia sottile, fortemente allusiva (rilevabile soprattutto, ma non solo, nella scelta di titoli volutamente spiazzanti rispetto all’immagine dipinta), determinante, se non nella costruzione e nella composizione del quadro, per lo meno nella sua capacità di porsi e di farsi guardare da angolazioni e punti di vista diversi e inaspettati rispetto a quelli che ci sono abituali. “Geloso d'Africa”, “Dentro la Terror-Mobile”, “Bagno con cappello per orientale”, “I love your city”, “Si decise per il giudizio universale”, “Su Desmond Morris”: i titoli di Abbiati, bizzarri specchietti per le allodole di quadri secchi e incisivi che in maniera solo apparentemente semplice e lineare raccontano una contemporaneità frammentaria e di sempre più difficile e complessa lettura, paiono così il contraltare linguistico, fortemente spiazzante, di un puzzle visivo composito, formato dagli scampoli di un grande racconto per immagini che tocca la nostra quotidianità come la cronaca, la politica come la sociologia, le ossessioni private come quelle collettive e mediatiche. Volti, espressioni, gesti che sembrano usciti da un bizzarro album di famiglia in cui si mescolano però, inaspettatamente, foto di cronaca ed echi di guerre, di torture, di tragedie collettive che rimettono continuamente in discussione la nostra stessa visione del mondo. Quello di Abbiati appare così come un grande, complesso affresco, leggibile sui due differenti registri dell’immagine e della parola scritta, sulla nostra sempre più incerta, e sempre più contraddittoria, quotidianità.
Alessandro Riva
C’è un quadro di Stefano Abbiati che ben spiega il suo approccio pittorico – e la sua disposizione teorica – in questo scorcio di primi anni Duemila. E’ un quadro allo stesso tempo rigoroso e sottilmente ironico, dichiaratemente “politico” e tuttavia venato da un’atmosfera svagata e surreale, severissimo e bizzarramente malinconico. È “Tutta colpa di Walt Whitman”, il dipinto eroico-funerario di questi vecchi-nuovi anni di guerre e di sanguinarie bestialità diffuse, il canto del cigno dei nuovi venti eroico-belligeranti mondiali, la Spoon River delle fuggevoli certezze del mito della supremazia culturale e militare occidentale. “Tutta colpa di Walt Whitman” sta a questi nostri anni Duemila come La morte dell’anarchico Pinelli di Baj stava agli anni Sessanta, o come I funerali di Togliatti di Guttuso agli Cinquanta, o come, ancora, I funerali dell’anarchico Galli di Carrà agli anni Dieci: uno straordinario epitaffio funebre per i nostri morti (e i nostri miti) di oggi, una litania dal sapore amaro e malinconico di commemorazione di ciò che soltanto ieri davamo per scontato, e che nel giro d’un pugno d’anni s’è invece sgretolato come neve al sole: la certezza della nostra inviolabilità di cittadini dell’Europa – l’Europa dei vecchi davanziali, dell’utopia moderna e progressiva della libera circolazione di beni e di persone, della democrazia e della tolleranza multiculturale, nonché quella della nostra invulnerabilità di fronte all’imperversare di guerre che avrebbero, comunque, riguardato sempre e solo gli altri, i derelitti, i marginali, i mendicanti delle mille periferie dell’impero. Laddove nel 1913 si seppelliva, con l’anarchico Galli, la spinta insurrezionale e sovversiva che nel, giro di pochi anni, sarebbe stata fatalmente spazzata via e inglobata dal “rivoluzionario” e insieme iperreazionario fascismo incipiente, laddove nel 1964, con I funerali di Togliatti, si celebrava la chiusura di un’esperienza, quella del mito tutto italiano di una via autonoma, seppure legata a doppio filo con i miti, le ideologie e le gerarchie del potere sovietico, al socialismo (esperienza che nel giro di pochi anni sarebbe invece stata superata a sinistra dall’esperienza libertaria e liberatrice del Sessantotto), laddove nel 1969 si chiudevano iinvece, con la Strage di Piazza Fontana e la morte di Pinelli, le speranze di un passaggio soft e nonviolento a forme di democratizzazione e di apertura di spazi di libertà e di partecipazione diffusa, aprendo così la strada da una parte al periodo dello stragismo nero e della strategia della tensione, e dall’altra a quell’imbuto ideologico e politico che sono stati gli anni di piombo; e laddove, infine, con il rapimento di Moro (la cui morte verrà invece celebrata, in pittura, da un altro quadro che può a pieno titolo inserirsi in questa galleria di simboliche pietà civili, Il ritrovamento del corpo di Aldo Moro di Marco Cingolani, del 1989), si chiudeva anche il periodo della trucida utopia brigatista d’una “via italiana“ alla lotta armata, lasciando aperto il campo al vuoto ideologico, etico e civile di questo passaggio di secolo, ebbene oggi, con il nuovo capitolo belligerante rappresentato, simbolicamente, dalla guerra in Irak (ma apertosi più d’un decennio fa con il montante revanchismo culturale e religioso islamista, la faglia mediorientale, lo scontro crescente tra interessi economici e scelta di campo ideologica e culturale occidentale versus modello sociale e culturale islamista), con la guerra in Irak, dicevo, con i suoi lutti anche occidentali e le sue sconce tragedie che coinvolgono indiscriminatamente tutti, occidentali e arabi, si chiude ora un altro periodo – che Abbiati, con giovanile freschezza e allo stesso tempo con rara sicurezza, sapientemente celebra con il suo “Tutta colpa di Walt Whitman”. E forse, in fondo, ha proprio ragione Stefano Abbiati: forse è proprio vero che è “tutta colpa di Walt Whitman”: forse nasce da lì, dall’orgoglio indomito di una nazione che costruisce se stessa, il proprio mito, la propria imbattibilità non solo militare ma anche culturale (il famoso “imperialismo culturale” di cui cianciano – paradossalmente non senza qualche straccio di ragione – no global e no logo di tutto il mondo, però cresciuti e pasciuti, bontà loro, e non senza averci preso alquanto gusto, ad hamburger, thriller holliwodiani e Coca-Cola nelle mille periferie eurasiatiche dell’impero), che costruisce il mito della propria superiorità identitaria e culturale a partire dall’orgoglio – dall’orgoglio delle proprie radici, della propria identità, della propria storia (quell’orgoglio che a noi italiani, dopo il fallimento del modello retorico postrisorgimentale, monarchico e di seguito fascista, inevitabilmente manca, e forse mancherà sempre, per lo meno per i decenni immediatamente a venire); da qui, dunque, davvero, forse, nasce l’eterno spirito belligerante dell’America, e dunque anche quella tragedia ben sintetizzata da Abbiati nel quadro di cui sopra – una bara ricoperta da una bandiera, e intorno quattro soldati armati di mitraglietta, l’aria austera e stolida di tutti i soldati del mondo, in divisa da parata (una divisa simbolica e non riconducibile a nessun esercito in particolare, ma che poi, singolarmente, per quegli scherzi dell’inconscio che sorgono da qualche zona profonda della coscienza degli artisti più che da una scelta razionale e motivata, ricorda da vicino quella dell’esercito repubblichino dell’Italia di Salò) – quella tragedia, dicevo, che indiscutibilmente e sotto tutti gli aspetti è l’attuale guerra in Irak. È “tutta colpa di Walt Whitman”, dunque: dell’orgoglio austero e dal potere inebriante e suggestivo delle sue parole, dell’orgoglio verso il suo popolo, verso la sua gente, verso la sua terra – le "terre femminili e maschie” cantate dal poeta –, colpa sua, dunque, della sua capacità di unire e di rendere parola e simbolo vivente le emozioni e le convinzioni del suo popolo e della sua gente. Ha ragione da vendere, dunque, Stefano Abbiati, che con un quadro e un semplice titolo – insieme diretto e fortemente allusivo – colpisce nel segno (o più che altro apre spazi di riflessione) su una questione che, da anni, tiene aperto il dibattito della scena internazionale; ma soprattutto ha ragione nell’irrompere, oggi, sulla scena della pittura italiana con questa sua maniera, una maniera allo stesso tempo scanzonata e sarcastica, politica e divertita, impegnata e ironicamente svagata, a cinquant’anni di distanza dalle istanze retoricamente “politiche” di Guttuso e trent’anni dopo quelle ironico-patafisiche di un Baj. La formula che Stefano Abbiati ha scovato, in questa stagione di rinnovamento soft, di discontinuità sottile e insieme, paradossalmente, di fortissima continuità rispetto alla tradizione della pittura italiana, è appunto quella di un approccio al dipingere che appare insieme colto e istintivo, intristo di riferimenti tra i più disparati – dalla lezione baconiana a quella informale a quella di derivazione espressionista –, e insieme venato da un’ìronia sottile, fortemente allusiva (rilevabile soprattutto, ma non solo, nella scelta di titoli volutamente spiazzanti rispetto all’immagine dipinta), determinante, se non nella costruzione e nella composizione del quadro, per lo meno nella sua capacità di porsi e di farsi guardare da angolazioni e punti di vista diversi e inaspettati rispetto a quelli che ci sono abituali. “Geloso d'Africa”, “Dentro la Terror-Mobile”, “Bagno con cappello per orientale”, “I love your city”, “Si decise per il giudizio universale”, “Su Desmond Morris”: i titoli di Abbiati, bizzarri specchietti per le allodole di quadri secchi e incisivi che in maniera solo apparentemente semplice e lineare raccontano una contemporaneità frammentaria e di sempre più difficile e complessa lettura, paiono così il contraltare linguistico, fortemente spiazzante, di un puzzle visivo composito, formato dagli scampoli di un grande racconto per immagini che tocca la nostra quotidianità come la cronaca, la politica come la sociologia, le ossessioni private come quelle collettive e mediatiche. Volti, espressioni, gesti che sembrano usciti da un bizzarro album di famiglia in cui si mescolano però, inaspettatamente, foto di cronaca ed echi di guerre, di torture, di tragedie collettive che rimettono continuamente in discussione la nostra stessa visione del mondo. Quello di Abbiati appare così come un grande, complesso affresco, leggibile sui due differenti registri dell’immagine e della parola scritta, sulla nostra sempre più incerta, e sempre più contraddittoria, quotidianità.
11
ottobre 2005
Stefano Abbiati – Album di famiglia con cortocircuito mediatico
Dall'undici al 28 ottobre 2005
arte contemporanea
Location
SPAZIO STRESA 6
Milano, Via Stresa, 6, (Milano)
Milano, Via Stresa, 6, (Milano)
Orario di apertura
da definire
Vernissage
11 Ottobre 2005, ore 18.30-22
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