15 luglio 2013

La dieta dell’elefante

 
Dopo anni di euforia del mercato, l’arte indiana sta conoscendo una nuova stagione. Ma non è solo la crisi a tracciare uno scenario inedito. La novità è il no profit, che per gli artisti si traduce nel ritorno alla sperimentazione. Oltre l'orizzonte commerciale, quindi, mentre nascono nuove iniziative. E per la prima volta nelle gallerie arrivano talenti stranieri

di

Shahid Datawala, Cheval Restaurant, ph. Maria Teresa Capacchione
Può essere un termometro dell’andamento dell’arte contemporanea indiana il fatto che, negli ultimi dodici mesi, due gallerie su un totale di venti abbiano chiuso i battenti a Mumbai ed un’altra abbia cambiato sede, riducendo sensibilmente le sue dimensioni? No. Perché? Perché nel frattempo, negli ultimi sei mesi hanno visto la luce due iniziative importantissime e nuove di zecca: la prima Biennale di Kochi e il primo Focus Festival Mumbai. Sono un segnale positivo? No. Perché? Perché sono iniziative “no profit”. 
Ma cosa sta succedendo allora in India, al suo mercato che negli ultimi anni aveva vissuta una sorprendente impennata? Come al solito l’Elefante indiano ci costringe a delle riflessioni complesse, non fosse altro perché la sua pachidermica dimensione rende poco schematizzabile qualsiasi ragionamento. Certamente anche l’India sta attraversando il suo momento di crisi se consideriamo che, dalla crescita del Pil del 10 per cento cui ci aveva abituati, siamo passati ad un 5 per cento che è il livello più basso degli ultimi dieci anni e ben lontano dal 7,8 per cento del concorrente Dragone cinese.  
Se è vero, come abbiamo ripetuto tante volte, che lo sviluppo dell’India in generale e dell’arte contemporanea in particolare è stato vorticoso negli ultimi dieci anni, è anche vero che prima si parlava solo ed esclusivamente di gallerie private e di mercato, mentre ora, come sostiene il gallerista Peter Nagy «l’energia si è spostata verso spazi no profit: il KNMA, il Khoj International Artists’ Association, la Devi Art Foundation, la Clark House, il Bhau Daji Lad Museum, l’NGMA di Delhi, la Biennale di Kochi. Si tratta di un passaggio logico a causa delle condizioni di mercato depresse, o forse questo è solo un altro livello di maturazione della scena indiana?». 
Sooni Taraporevala, Parsis, Chemould Gallery, ph. Maria Teresa Capacchione
Sicuramente un cambiamento in corso c’è, dovuto anche alle mutate condizioni di mercato, ma anche – o forse di conseguenza – alla necessità di confrontarsi con la scena dell’arte internazionale, aprendo le porte ad artisti stranieri. Per la prima volta da quando frequento assiduamente l’India (ovvero dal 2003) a dicembre dell’anno scorso ho partecipato a Mumbai a più inaugurazioni di mostre di artisti internazionali che di artisti indiani. Una vera rivoluzione che ha colpito anche gallerie che hanno sempre e solo rappresentato artisti del Subcontinente, come la Chemould Gallery di Shireen Gandhy, una delle storiche gallerie indiane. Un segnale di crisi o di evoluzione del mercato? Entrambi. Comunque, una grande novità che lascia pensare che i collezionisti indiani, fino a pochi anni fa molto orgogliosi di promuovere quasi esclusivamente artisti connazionali, ora stiano aprendosi ad artisti provenienti da altri Paesi. Ma anche il desiderio delle gallerie indiane di uscire dai confini – angusti seppur ampi – del proprio Paese.
Certo è che le iniziative nell’ambito dell’arte contemporanea continuano a proliferare e ad avere un ottimo seguito. In crescita sempre maggiore l’India Art, la prima fiera di arte contemporanea indiana che si tiene a Delhi a gennaio e che è ormai alla sua quinta edizione: quest’anno ha visto partecipare 105 gallerie di cui il 40 per cento straniere, provenienti da 24 paesi diversi, con un afflusso complessivo di 260mila visitatori in tre giorni (nel 2009 le gallerie furono 56 ed i visitatori 40mila). Non male. 
Così come grande successo ha riscosso la prima Biennale indiana, quella di Kochi-Muziris (Kerala), co-curata da due artisti come Bose Krishnamachari e Riyas Komu che, con 93 artisti provenienti da 23 Paesi che hanno esposto in altre 60 spazi diversi per 96 giorni, si afferma già alla sua prima edizione, come la più grande esposizione di arte contemporanea che abbia mai avuto luogo in India. 
A Photograph Is Not An Opinion, Jehangir Art Gallery, ph. Maria Teresa Capacchione
Mentre a marzo Bombay era in fermento per il suo primo festival di fotografia, Focus, un evento che ha coinvolto gallerie, musei, locali, negozi, ristoranti e anche gli affascinanti studios di Bollywood, dove ha avuto luogo la mostra-evento del fotografo Bharat Sikka. Focus ha offerto l’occasione al pubblico di discutere e confrontarsi con fotografi di fama internazionale, come Ragu Raj, ed era entusiasmante vedere come il pubblico affollava i tanti incontri con gli artisti che si tenevano in giro per la città. Una partecipazione ed un coinvolgimento che fanno percepire quanto spazio ancora ci sia per l’arte contemporanea nella “Maximum City”. È stata una bella esperienza muoversi nella città in una sorta di “caccia al tesoro” in cui, varcando l’atrio di un palazzo, camminando nei pressi del mercato delle spezie, oppure entrando in un ristorante, potevi imbatterti – spesso anche inaspettatamente – nei lavori di fotografi giovani o affermati. E non solo di Focus viveva la città. Basti pensare alla meravigliosa installazione di Reena Kallat sulla facciata del museo Dr. Bhau Daji Lad, progetto a cura dell’italiana ZegnArt, che ha avuto il merito di coinvolgere una pubblica istituzione locale. 
Reena Kallat, Dr. Bhau Daji Lad Museum, Ph. Maria Teresa Capacchione
«Negli ultimi due anni penso che la scena artistica indiana stia cercando di tornare alla sua forma originale, la realtà», sostiene l’artista e curatrice Archana Hande. «Gli artisti, dopo dieci anni passati a produrre per il mercato, hanno smesso di lavorare con la pressione delle vendite e hanno di nuovo voglia di tornare a sperimentare. Non dico che non esiste più un mercato – in realtà ora il mercato è stabilizzato – ma che l’investimento in arte adesso è accuratamente scelto e selezionato».
E che la voglia di sperimentare – in qualche modo indipendentemente dal mercato – sia forte, lo testimoniano le iniziative come quella di “Project Cinema City”, un progetto che, nato a Mumbai grazie all’iniziativa di alcuni artisti tra cui Archana Hande, Shreyas Karle, Atul Dodiya, Anant Joshi, ha girato tutta l’India e non è stato animato da propositi di mercato, ma è stata una iniziativa totalmente no profit, una ricerca documentaristica sull’interazione dei destini della città di Mumbai e del cinema così come si sono incrociati nel corso degli ultimi cento anni. In questo progetto, così come nella Biennale di Kochi, che hanno visto gli artisti diventare anche curatori – un po’ come accadeva in Occidente molti anni fa e come in parte sta di nuovo avvenendo – la sperimentazione e la ricerca sono stati più importanti del mercato. E questo, oggi, è il cambiamento più significativo nel panorama artistico indiano degli ultimi due anni. Segnale forse di un’altra svolta del lento, ma fattivo Subcontinente. 

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