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Accademia for Dummies
mostra degli studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna selezionati dal corso di Pittura dei prof. Bruno Benuzzi e Salvo Palazzolo
Comunicato stampa
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Il titolo Accademia for Dummies , ovvero L’ Accademia degli Imbranati , riprende quello classico dei manuali d’introduzione all ’uso del computer. La mostra si pone perciò in rapporto dialettico con la tecnologia, in antitesi alle anime belle che si limitano a demonizzarne l'uso, anche se, in effetti, per esprimersi artisticamente è sufficiente un'interpretazione basica della medesima, da qui il titolo. Di conseguenza Accademia for dummies non intende suggerire un encomio paradossale o, tanto meno, rispolverare l'arcana utopia del “mondo alla rovescia ”, né sottintendere un retorico “elogio della stoltezza”, più semplicemente registra le problematiche di una generazione di artisti d'innanzi al nodo dialogico prodotto da due desideri apparentemente contrastanti (quello di non gettare a mare il midollo della tradizione e, nel contempo, quello di piegare alle proprie esigenze espressive l’innovazione tecnologica senza illudersi di trovare così una panacea alla mancanza di idee). Tali, in sintesi, le indicazioni emerse all’interno di un corso di Pittura che tuttavia non intende coltivare orticelli di tendenza per mantenersi caleidoscopicamente disponibile (come si conviene ad una didattica non prevaricante) alle diverse opzioni che possono arrivare al fumetto e persino al recupero di tecniche artigianali quali il ricamo.
Comunque, al di là delle opzioni poetiche, obiettivo non trascurabile dell’esposizione è quello di favorire un primo contatto tra alcuni absolutily beginners e la città. Come è noto, gran parte degli studenti dell’Accademia è formata dai cosiddetti "fuori sede" e già questo di per sé, come insegna il passato, comporta un arricchimento del dibattito culturale cittadino e non solo. A quanto pare da un punto di vista artistico-culturale Bologna continua ad attrarre e, dunque, non è affatto grigia come qualcuno sostiene: la mostra Bologna contemporanea attualmente alla GAM lo conferma. Quello che manca, come più volte rilevato, è un contesto di gallerie d’arte dinamiche e relativo collezionismo. Perciò ben venga la disponibilità nei confronti dei giovani dimostrata da Orfeohotel, uno spazio espositivo che lascia ben sperare per il futuro grazie alla vivace conduzione di Elisa Laraia, proteiforme figura impegnata su pi ù fronti (è artista, gallerista, curatrice, colonna portante della rivista Crudelia), senza dimenticare che iniziative simili sono la norma a Milano dove il rapporto tra gallerie private e Accademia di Brera è consolidato.
Un’occhiata agli artisti. Giovanni Bellavia s'avvale di una pittura filtrata al computer. La Maja desnuda di Goya, già oggetto d’ironia da parte di Totò, è qui sottoposta ad un camouflage fumettistico che ne fa una vamp a metà strada tra Bettie Page, icona fetish soft porno della controcultura americana, e le bad girls di Russ Meyer ma, sorpresa, basta sollevare la pellicola trasparente che patina l’opera che, voilà, l’abito scompare e la protagonista si mostra senza veli in tutto il suo splendore bulimico. Sulla stessa lunghezza d’onda un trittico che vede la medesima eroina calata in un contesto ancor più ironicamente fetish: vestita con l’armamentario S&M di rito, frustino compreso, la perfida dark lady cavalca un pover’uomo costretto a carponi ma, in definitiva, la scena è addolcita da un gusto circense intuibile dai campanelli da giullare che guarniscono il suo folle copricapo.
Differente l’approccio di Francesco Di Credico che rispolvera la collaudata tecnica del ready made associata ad una plateale passione per il kitsch. Le sue attenzioni da gazza ladra sono infatti rivolte ad oggetti frivoli come lustrini e cotillons, tessuti felpati. Il piacere dello sguardo unito alla fascinazione tattile delle superfici convivono in lui in un atteggiamento glamour non distante, scenograficamente parlando, dal mondo luccicante di Pierre et Gilles. Di Credico, amante di lustre vetrine, dello shopping e dello spreco in genere, opta per un cortocircuito tra lusso e cheap esibendo, all’interno di una bacheca di vetro, un paio di scarpe femminili celebrate su di un altarino fatto di perline, fiori finti, morbido tessuto. Evidenti i richiami al packaging consumistico; ma non solo, anche il feticismo del piede, caro allo scrittore giapponese Tanizaki, è della partita cos ì come ogni possibile riferimento alle fiabe Cenerentola e La bella addormentata.
Il lavoro di ricamo - un elogio della lentezza? - denota i manufatti tessili esibiti con vacuità domestica da Antonella Guidi. Su di un candido grembiule da cucina Antonella “mani di fata” ha ricamato un apparato intestinale, una sorta di radiografia tessile, suggerendo così una visione disturbante del nostro quotidiano rapporto col cibo. Il fantasma del femminismo si fa concreto ma nell’indossare, e documentare fotograficamente, i suoi finti panni da “casalinga di Voghera” l’artista pare assumere i crismi dell’oca giuliva, colta nell’atto di rompere un guscio d’uovo, d’oca non a caso, sicch é non si sa più che pesci pigliare. L’ambigua atmosfera da happy kitchen non è l’unica a svelare il suo sottile sarcasmo, anche nell’indossare il più scontato degli abiti da sera i conti non tornano in quanto il fastoso scintillìo che arricchisce il fondo schiena altro non è che il ricamo dell’apparato urinario compreso di reni e vescica.
Il simbolismo ibrido, a metà strada tra oriente e occidente, di Giulio Macaione miscela il mondo dei fumetti con quello dell’arte. Facile riconoscere qui un’estetica gay imbozzolata all’interno di un decorativismo japonard contaminato a sua volta da un gusto decadente, da impero romano, tanto che vengono alla mente sia Hokusai che Alma Tadema con l'inevitabile profusione di “flora simbolica” tipica del clima preraffaellita/vittoriano. L'eleganti pagine colorate di Macaione profumano d’eros; esplicito per quel che riguarda le figure maschili, tautologicamente sublimato dai primi piani di melagrane e petali di ciliegio (sakura) emblemi di lussuria come Oscar Wild e la poesia d'amore insegnano. L'esasperata icasticità appare frutto di una tecnica grafico-pittorica prossima all’artista giapponese Murakami, al suo teorizzare una pittura superpiatta: superflat.
Gli indiscreti reportage fotografici di Silvia Matteini sono il risultato di passeggiate nei cascami periferici della riviera adriatica: echi di una Pompei di cemento, di una suburbia industriale fatta di fornaci e macchinari arrugginiti dove esercitare una precoce archeologia. Un turismo alla rovescia dunque. Il tema del rifiuto, dell’oggetto di scarto - già felicemente sviscerato dal Nouveau Réalisme - convive qui col fantasma di Piranesi, con l’eterno fascino delle rovine architettoniche. Gli edifici labirintici, fatiscenti come la casa degli Usher, oppure gli enormi macchinari dismessi, persino i logori motoscafi arenati in cortile, sono i veri protagonisti del racconto fotografico. Il desolato panorama evoca misteri insondabili alla Stalker, il film di Tarkovskij, ma anche banali vicende di vite dissipate nel lavoro, per non dire delle sbiadite superfici che meritano d’essere esplorate a testimonianza che il tempo “scolpisce” le cose meglio di qualsiasi scultore.
Anche la ricerca di Beatrice Negri si nutre di fotografia seppure, diversamente dalla Matteini dove le immagini sono sostanzialmente verosimili, elaborata al computer. Subito riconosciamo un mondo di fantasia dove l’artista è, non di rado, narcisisticamente presente. Un banale ninnolo, un portachiavi in peluche, un orso dalle fattezze elicoidali, si trasforma d’incanto in un macroscopico tappeto volante che la nostra eroina cavalca come le streghe cavalcano i manici di scopa sì da sorvolare un paesaggio innevato. Altrove sono le fattezze di un pulcino di stoffa ad essere ingigantite fino a svelare una stravagante gravidanza: la diafana visione uterina ritrae Beatrice, in posa da vamp, spamparanzata su di un letto. Facile sospettare un'analogia tra candore infantile e narcisismo adulto. Un breve video dal sapore gotico vede invece un esoterico pupazzo scorrere lentamente sullo schermo accompagnato dal canto greve e liturgico dell’autrice: dark.
Bruno Benuzzi
Comunque, al di là delle opzioni poetiche, obiettivo non trascurabile dell’esposizione è quello di favorire un primo contatto tra alcuni absolutily beginners e la città. Come è noto, gran parte degli studenti dell’Accademia è formata dai cosiddetti "fuori sede" e già questo di per sé, come insegna il passato, comporta un arricchimento del dibattito culturale cittadino e non solo. A quanto pare da un punto di vista artistico-culturale Bologna continua ad attrarre e, dunque, non è affatto grigia come qualcuno sostiene: la mostra Bologna contemporanea attualmente alla GAM lo conferma. Quello che manca, come più volte rilevato, è un contesto di gallerie d’arte dinamiche e relativo collezionismo. Perciò ben venga la disponibilità nei confronti dei giovani dimostrata da Orfeohotel, uno spazio espositivo che lascia ben sperare per il futuro grazie alla vivace conduzione di Elisa Laraia, proteiforme figura impegnata su pi ù fronti (è artista, gallerista, curatrice, colonna portante della rivista Crudelia), senza dimenticare che iniziative simili sono la norma a Milano dove il rapporto tra gallerie private e Accademia di Brera è consolidato.
Un’occhiata agli artisti. Giovanni Bellavia s'avvale di una pittura filtrata al computer. La Maja desnuda di Goya, già oggetto d’ironia da parte di Totò, è qui sottoposta ad un camouflage fumettistico che ne fa una vamp a metà strada tra Bettie Page, icona fetish soft porno della controcultura americana, e le bad girls di Russ Meyer ma, sorpresa, basta sollevare la pellicola trasparente che patina l’opera che, voilà, l’abito scompare e la protagonista si mostra senza veli in tutto il suo splendore bulimico. Sulla stessa lunghezza d’onda un trittico che vede la medesima eroina calata in un contesto ancor più ironicamente fetish: vestita con l’armamentario S&M di rito, frustino compreso, la perfida dark lady cavalca un pover’uomo costretto a carponi ma, in definitiva, la scena è addolcita da un gusto circense intuibile dai campanelli da giullare che guarniscono il suo folle copricapo.
Differente l’approccio di Francesco Di Credico che rispolvera la collaudata tecnica del ready made associata ad una plateale passione per il kitsch. Le sue attenzioni da gazza ladra sono infatti rivolte ad oggetti frivoli come lustrini e cotillons, tessuti felpati. Il piacere dello sguardo unito alla fascinazione tattile delle superfici convivono in lui in un atteggiamento glamour non distante, scenograficamente parlando, dal mondo luccicante di Pierre et Gilles. Di Credico, amante di lustre vetrine, dello shopping e dello spreco in genere, opta per un cortocircuito tra lusso e cheap esibendo, all’interno di una bacheca di vetro, un paio di scarpe femminili celebrate su di un altarino fatto di perline, fiori finti, morbido tessuto. Evidenti i richiami al packaging consumistico; ma non solo, anche il feticismo del piede, caro allo scrittore giapponese Tanizaki, è della partita cos ì come ogni possibile riferimento alle fiabe Cenerentola e La bella addormentata.
Il lavoro di ricamo - un elogio della lentezza? - denota i manufatti tessili esibiti con vacuità domestica da Antonella Guidi. Su di un candido grembiule da cucina Antonella “mani di fata” ha ricamato un apparato intestinale, una sorta di radiografia tessile, suggerendo così una visione disturbante del nostro quotidiano rapporto col cibo. Il fantasma del femminismo si fa concreto ma nell’indossare, e documentare fotograficamente, i suoi finti panni da “casalinga di Voghera” l’artista pare assumere i crismi dell’oca giuliva, colta nell’atto di rompere un guscio d’uovo, d’oca non a caso, sicch é non si sa più che pesci pigliare. L’ambigua atmosfera da happy kitchen non è l’unica a svelare il suo sottile sarcasmo, anche nell’indossare il più scontato degli abiti da sera i conti non tornano in quanto il fastoso scintillìo che arricchisce il fondo schiena altro non è che il ricamo dell’apparato urinario compreso di reni e vescica.
Il simbolismo ibrido, a metà strada tra oriente e occidente, di Giulio Macaione miscela il mondo dei fumetti con quello dell’arte. Facile riconoscere qui un’estetica gay imbozzolata all’interno di un decorativismo japonard contaminato a sua volta da un gusto decadente, da impero romano, tanto che vengono alla mente sia Hokusai che Alma Tadema con l'inevitabile profusione di “flora simbolica” tipica del clima preraffaellita/vittoriano. L'eleganti pagine colorate di Macaione profumano d’eros; esplicito per quel che riguarda le figure maschili, tautologicamente sublimato dai primi piani di melagrane e petali di ciliegio (sakura) emblemi di lussuria come Oscar Wild e la poesia d'amore insegnano. L'esasperata icasticità appare frutto di una tecnica grafico-pittorica prossima all’artista giapponese Murakami, al suo teorizzare una pittura superpiatta: superflat.
Gli indiscreti reportage fotografici di Silvia Matteini sono il risultato di passeggiate nei cascami periferici della riviera adriatica: echi di una Pompei di cemento, di una suburbia industriale fatta di fornaci e macchinari arrugginiti dove esercitare una precoce archeologia. Un turismo alla rovescia dunque. Il tema del rifiuto, dell’oggetto di scarto - già felicemente sviscerato dal Nouveau Réalisme - convive qui col fantasma di Piranesi, con l’eterno fascino delle rovine architettoniche. Gli edifici labirintici, fatiscenti come la casa degli Usher, oppure gli enormi macchinari dismessi, persino i logori motoscafi arenati in cortile, sono i veri protagonisti del racconto fotografico. Il desolato panorama evoca misteri insondabili alla Stalker, il film di Tarkovskij, ma anche banali vicende di vite dissipate nel lavoro, per non dire delle sbiadite superfici che meritano d’essere esplorate a testimonianza che il tempo “scolpisce” le cose meglio di qualsiasi scultore.
Anche la ricerca di Beatrice Negri si nutre di fotografia seppure, diversamente dalla Matteini dove le immagini sono sostanzialmente verosimili, elaborata al computer. Subito riconosciamo un mondo di fantasia dove l’artista è, non di rado, narcisisticamente presente. Un banale ninnolo, un portachiavi in peluche, un orso dalle fattezze elicoidali, si trasforma d’incanto in un macroscopico tappeto volante che la nostra eroina cavalca come le streghe cavalcano i manici di scopa sì da sorvolare un paesaggio innevato. Altrove sono le fattezze di un pulcino di stoffa ad essere ingigantite fino a svelare una stravagante gravidanza: la diafana visione uterina ritrae Beatrice, in posa da vamp, spamparanzata su di un letto. Facile sospettare un'analogia tra candore infantile e narcisismo adulto. Un breve video dal sapore gotico vede invece un esoterico pupazzo scorrere lentamente sullo schermo accompagnato dal canto greve e liturgico dell’autrice: dark.
Bruno Benuzzi
14
giugno 2005
Accademia for Dummies
Dal 14 al 27 giugno 2005
giovane arte
Location
ORFEO HOTEL
Bologna, Via Orfeo, 4A, (Bologna)
Bologna, Via Orfeo, 4A, (Bologna)
Orario di apertura
giorni feriali 17-20
Vernissage
14 Giugno 2005, ore 18,30
Autore
Curatore