06 ottobre 2013

Pittura figurativa, con riserva

 
Da Marsiglia arriva con furore Cristof Yvoré, magnetico artista d'oltralpe dalle scelte radicali e la passione per un tocco carico e strutturato. Figurativo con riserva, la sua pittura è un mix intrigante tra modernità, rimandi colti e allure retrò. Con Morandi nascosto dietro l’angolo e uno sguardo sghembo a Mondrian. Villa Croce di Genova scommette su di lui. Presentandolo nella sua primissima personale italiana

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Circa un anno fa c’era una malandata Villa Croce che urgeva di cure ricostituenti. Tra i tanti progetti di rilancio snocciolati a suo tempo, Ilaria Bonacossa aveva parlato di alcune collaborazioni internazionali da attivare con istituzioni affini a quella genovese, occasioni sicuramente appetibili per traghettare il travagliato museo verso una necessaria apertura extra-territoriale, fondamentale particolarmente in virtù della sua mission contemporaneista. Alle volte poi per centrare certi obiettivi non serve nemmeno andare troppo lontano, solo dirigersi un po’ più ad ovest, nella vicina Francia, bussare alla porta di un altro museo d’arte contemporanea – il marsigliese Frac Paca – e mettere in piedi una joint venture al cento per cento mediterranea, che per scopo ha quello di proporre la prima mostra monografica italiana dedicata a Cristof Yvoré (Tours, 1967), in programma nel museo vista Mar Ligure fino al 31 ottobre. 
E in Italia Yvoré se la gioca da outsider poco o nulla circuitato, lontano per natura dalla stringatezza di minimalismi troppo concettuali e sempre à la page, dalla ricerca di soluzioni spettacolarizzate e spettacolarizzanti, da un informale sempre a galla che pare ancora il miglior biglietto da visita per l’artista cool (veramente) contemporaneo immerso tra tele, colori e pennelli (quest’ultimi “ove previsti”). Yvoré sembra il prototipo del perfetto understateman dell’arte, prima di tutto perché sceglie la pittura ad olio e di basarsi comunque sulla figurazione, poi perché dipinge oggetti privi d’interesse approcciandosi candidamente alle classicissime nature morte.

Artisticamente parlando è uno che sta sulle sue, e ci sa stare bene. Senza omologarsi, quasi anacronistico, quasi demodé, più che contemporaneo “atavico”, o forse atavico perché ha capito che la contemporaneità non s’improvvisa, al contrario si costruisce col tempo, sul tempo e nel tempo, stratificando il colore sulla tela come in una partita dove l’ultima mossa da compiere è sempre la prossima. E le regole del gioco le scrive Yvoré stesso con pennelli di varie misure, spatole e tutto quanto gli è più utile a fare del colore legato ad olio un impasto costruttivo, denso e sovente pieno zeppo di antiestetiche grumosità pulsanti, steso con quell’impareggiabile naturalezza conficcatasi per assurdo dentro ad ogni setola impressa o ad ogni concrezione pastosa, ostinatamente noncurante delle evidenti sporcature accidentali spesso presenti.

Molto utile per avvicinarsi alla qualità del gesto yvoriano è il video introduttivo (perfettamente in tema-mostra il grande schermo d’epoca, funzionale e retrò allo stesso tempo), preambolo che consente di recepire con formula piena il valore di una pennellata erompente che viene prima di tutto, protagonista principale anche più di quanto iconograficamente descrive, più del pretestuoso soggetto tramite cui iniziare un sentito racconto di riverberi luminosi, di ombre più o meno penetranti, degli scarti cromatici possibilmente percepibili tra le apparentemente inutili file di palloncini bianchi e blu. Un Yvoré totalmente svincolato dalla forma e/o dal contesto significante, portatore nei confronti della realtà di un interesse passivo che si riversa anche nel perentorio Untitled, dicitura scelta ad uniformare complessivamente il titolo di tutte le opere e che scarnifica ulteriormente il senso proprio dei soggetti verosimilmente reinventati, degli ambienti chiusi inquadrati sempre troppo in alto o troppo in basso, dei fiori ritratti come fossero oggetto di una macrofotografia destrutturante.

Giorgio Morandi è il passato prossimo nascosto dietro l’angolo, è il richiamo di genere che in pochi e selezionati casi prende una sua consistenza effettiva, solo quando Yvoré si diletta ad inserire oggetti perfettamente ritratti nella loro illusoria profondità all’interno di ambienti metafisici dominati da una spazialità ambiguamente scissa tra bi e tridimensione: il barattolo grigio su fondo bi-grigio in primis, ma anche una brocca davvero eccellente per resa chiaroscurale, oggetti inevitabilmente plastici in contesti antiprospettici inevitabilmente morandiani. Oggetti che in maniera altrettanto inevitabile paiono sprofondare nel loro spazio ricreato/ritagliato dentro un colore di fondo portato a superficie, che nel caso specifico della brocca tocca il limite di una pastosità sporco-arcaicizzante col suo effetto finale simil-decapè.

Costantemente importante per l’artista francese è addentrarsi nella radicalizzazione delle forme, annullare man mano ogni contatto col vero per lasciare di quest’ultimo soltanto semplici suggestioni; l’extrema ratio di questa inflessione poetica sta nelle piccole opere che rievocano facciate di edifici anonimi, dove le finestre sono diventate basilari rettangoli neri e la costruzione è tutto un susseguirsi di pennellate perpendicolari intrecciate su di esse. Riduzione geometrica – per certi versi alla Mondrian, pur trattandosi di un paragone da prendere con le molle – ancora più formidabile poiché non depotenzia e non scalfisce in nessun modo l’aspetto passionale, caratteristica complessiva dell’opera di Yvoré.

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