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Enrico Robusti – Il calcinculo che tutto move
Personale
Comunicato stampa
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Il calcinculo che tutto move
La grande tela dal titolo “Il calcinculo che tutto move”, che Enrico Robusti ha dipinto l’anno scorso e che Valérie Humbert ha scelto per la sua giovane galleria Pinxit, realizza un ideale di esposizione, spesso vagheggiato ma raramente attuabile: un quadro per un’occasione. Quella di celebrare a Torino un pittore dai grandi pregi, e ricco di un potenziale ancora in gran parte da scoprire, di cui si sono interessati, Federico Zeri che presentò in catalogo nel 1991 la sua mostra alla Galleria Consigli di Parma, e, Vittorio Sgarbi che lo ha chiamato a partecipare alla grande mostra intitolata al “Male” in questi mesi alla Palazzina di Caccia di Stupinigi.
Il dipinto di Robusti è allo stesso tempo maestoso, impressionante, caotico e torrenziale. Potrebbe definirsi racconto, epopea, commedia, antologia. Oppure dramma, passione, allegoria, tragedia. Un colossal hollywoodiano e una scena di “Oh Calcutta”, un melodramma verista (mi perdoni Robusti, di Parma, se non dico Verdi, ma nel maestro bussetano anche la caricatura è solenne, Falstaff non si accompagnerebbe giammai ai commensali di “Rane fritte”, e Rigoletto non ha nulla da spartire col “Trionfo dei gobbi”) e la sceneggiata napoletana, un’incisione di Hogart e una fiera paesana.
Forse si deve proprio partire da qui, da un ricordo giovanile di festa patronale, d’estate, tra il profumo dei torroni e degli incensi e l’odore delle ascelle di procaci giovinottone, che volteggiano nelle mazurche sui balli a palchetto, e dei mezzi toscani, prima fumati e poi ciccati, per trovare una chiave di lettura e di interpretazione al quadro. Dove il racconto è decisamente borghigiano e baroccheggiante. Ed il movimento apparentemente disordinato ed approssimativo, in realtà sinusoidale e serpiforme, in controtendenza con la scena, spezzata dalle diagonali della processione e dell’idolo-fantoccio issato sulla pertica.
Ma è meglio prima descrivere cosa sta accadendo su questa piazza della Bassa Padana nel giorno dell’Assunta, il più importante dell’anno. Siamo alla fine del decennio della rinascita, in fondo ai Sessanta, appena prima di una delle future ricorrenti crisi che ci avrebbero portato al dissolvimento di quei valori che il dipinto raccoglie a regesto (primo di tutti quello di una buona, ottima pittura: di invenzione e di tecnica, di colori e di struttura, perché Enrico Robusti, laurea in giurisprudenza messa da parte, è pittore di vaglia e di mestiere, dalla pennellata istintiva, rapida, densa di pigmento e fluida di gesto, fiamminga alla Hals e intrisa di italiche delicatezze boldiniane, spontanea, spigliata, e disinvolta). Dalla chiesa, sdraiata sul selciato, col portone solenne diventato tana di talpa, schiumano i fedeli, le teste infittite come bolle di lambrusco che la immaginifica prospettiva definisce solo nei volti dei primi piani, che guardano stupiti verso il cielo, le bocche oscenamente aperte. La Madonna riccamente incoronata portata in processione si alza con compunta religiosità, sacralmente avvolta nel suo manto celeste, immediatamente contrastata dal corteo schiamazzante che lì accanto arriva impetuoso e strabocchevole a profanarne la gloria, preceduto da una coppia di goderecci, lui la patta gonfia e lei la coscia voluttuosa, che innalza a simbolo un burattino. Ma anche questo gruppo è a sua volta schiacciato dalla fila dei flagellanti, vestiti di candide casacche, che fingono di soffrire battendosi con fasci di vincastri, e le cui espressioni sconcertano nella volgarità falsa e blasfema che ha inghiottito qualsiasi apparenza di fede.
Sul fondo le giostre, quella del “calcinculo” (in altre piazze la chiamano “delle catene”) è a sinistra, là dove i politicanti del comizio, scarsetti in verità, portano a spasso una bandiera tricolore. Ed eccoci al primissimo piano, che la sconcertante abilità prospettica al limite dell’abuso e della sfacciataggine di Robusti ci getta sul volto come una manata: qui ci sta un omino vestito da impiegato, con le stigmate a segnare le palme tese, che guarda in alto con quattro paia di occhi, e che trema di paura. Ha forse visto tra le nuvole, ma non è da solo, anche se lì davanti c’è chi continua a sbevazzare sconciamente, quel che ci aspetta “dietro l’angolo”?
Guardiamo attentamente ancora ai particolari, che il pittore prezzemola con acribia a simbolo sul racconto, per insaporire alla nausea una farcia già piccante. Sullo sfondo, proprio nel mezzo, una silhouette leniniana incita la folla a procedere; poi in cielo ondeggiano due impalati, sembrerebbero incisi da Callot, uno indicato dall’asta alabardata di una bandiera che sembra uscire da un cannone; a lato spiccano i vestitini di smeraldo delle tre vamp che si alzano ed appena lasciano intendere la dovizia di grazie recondite; e i polpacci intriganti e sensuali, ben tesi sotto il sedile della giostra, della graziosa con le scarpine verdi; e ancora, ora a destra, una torre su cui si arrampicano, in direzione opposta al corso delle processioni, tanti omini accalcati come formiche, in una babele di teste di tutte le età.
Tutto qui… si fa per dire.
Gianfranco Schialvino
La grande tela dal titolo “Il calcinculo che tutto move”, che Enrico Robusti ha dipinto l’anno scorso e che Valérie Humbert ha scelto per la sua giovane galleria Pinxit, realizza un ideale di esposizione, spesso vagheggiato ma raramente attuabile: un quadro per un’occasione. Quella di celebrare a Torino un pittore dai grandi pregi, e ricco di un potenziale ancora in gran parte da scoprire, di cui si sono interessati, Federico Zeri che presentò in catalogo nel 1991 la sua mostra alla Galleria Consigli di Parma, e, Vittorio Sgarbi che lo ha chiamato a partecipare alla grande mostra intitolata al “Male” in questi mesi alla Palazzina di Caccia di Stupinigi.
Il dipinto di Robusti è allo stesso tempo maestoso, impressionante, caotico e torrenziale. Potrebbe definirsi racconto, epopea, commedia, antologia. Oppure dramma, passione, allegoria, tragedia. Un colossal hollywoodiano e una scena di “Oh Calcutta”, un melodramma verista (mi perdoni Robusti, di Parma, se non dico Verdi, ma nel maestro bussetano anche la caricatura è solenne, Falstaff non si accompagnerebbe giammai ai commensali di “Rane fritte”, e Rigoletto non ha nulla da spartire col “Trionfo dei gobbi”) e la sceneggiata napoletana, un’incisione di Hogart e una fiera paesana.
Forse si deve proprio partire da qui, da un ricordo giovanile di festa patronale, d’estate, tra il profumo dei torroni e degli incensi e l’odore delle ascelle di procaci giovinottone, che volteggiano nelle mazurche sui balli a palchetto, e dei mezzi toscani, prima fumati e poi ciccati, per trovare una chiave di lettura e di interpretazione al quadro. Dove il racconto è decisamente borghigiano e baroccheggiante. Ed il movimento apparentemente disordinato ed approssimativo, in realtà sinusoidale e serpiforme, in controtendenza con la scena, spezzata dalle diagonali della processione e dell’idolo-fantoccio issato sulla pertica.
Ma è meglio prima descrivere cosa sta accadendo su questa piazza della Bassa Padana nel giorno dell’Assunta, il più importante dell’anno. Siamo alla fine del decennio della rinascita, in fondo ai Sessanta, appena prima di una delle future ricorrenti crisi che ci avrebbero portato al dissolvimento di quei valori che il dipinto raccoglie a regesto (primo di tutti quello di una buona, ottima pittura: di invenzione e di tecnica, di colori e di struttura, perché Enrico Robusti, laurea in giurisprudenza messa da parte, è pittore di vaglia e di mestiere, dalla pennellata istintiva, rapida, densa di pigmento e fluida di gesto, fiamminga alla Hals e intrisa di italiche delicatezze boldiniane, spontanea, spigliata, e disinvolta). Dalla chiesa, sdraiata sul selciato, col portone solenne diventato tana di talpa, schiumano i fedeli, le teste infittite come bolle di lambrusco che la immaginifica prospettiva definisce solo nei volti dei primi piani, che guardano stupiti verso il cielo, le bocche oscenamente aperte. La Madonna riccamente incoronata portata in processione si alza con compunta religiosità, sacralmente avvolta nel suo manto celeste, immediatamente contrastata dal corteo schiamazzante che lì accanto arriva impetuoso e strabocchevole a profanarne la gloria, preceduto da una coppia di goderecci, lui la patta gonfia e lei la coscia voluttuosa, che innalza a simbolo un burattino. Ma anche questo gruppo è a sua volta schiacciato dalla fila dei flagellanti, vestiti di candide casacche, che fingono di soffrire battendosi con fasci di vincastri, e le cui espressioni sconcertano nella volgarità falsa e blasfema che ha inghiottito qualsiasi apparenza di fede.
Sul fondo le giostre, quella del “calcinculo” (in altre piazze la chiamano “delle catene”) è a sinistra, là dove i politicanti del comizio, scarsetti in verità, portano a spasso una bandiera tricolore. Ed eccoci al primissimo piano, che la sconcertante abilità prospettica al limite dell’abuso e della sfacciataggine di Robusti ci getta sul volto come una manata: qui ci sta un omino vestito da impiegato, con le stigmate a segnare le palme tese, che guarda in alto con quattro paia di occhi, e che trema di paura. Ha forse visto tra le nuvole, ma non è da solo, anche se lì davanti c’è chi continua a sbevazzare sconciamente, quel che ci aspetta “dietro l’angolo”?
Guardiamo attentamente ancora ai particolari, che il pittore prezzemola con acribia a simbolo sul racconto, per insaporire alla nausea una farcia già piccante. Sullo sfondo, proprio nel mezzo, una silhouette leniniana incita la folla a procedere; poi in cielo ondeggiano due impalati, sembrerebbero incisi da Callot, uno indicato dall’asta alabardata di una bandiera che sembra uscire da un cannone; a lato spiccano i vestitini di smeraldo delle tre vamp che si alzano ed appena lasciano intendere la dovizia di grazie recondite; e i polpacci intriganti e sensuali, ben tesi sotto il sedile della giostra, della graziosa con le scarpine verdi; e ancora, ora a destra, una torre su cui si arrampicano, in direzione opposta al corso delle processioni, tanti omini accalcati come formiche, in una babele di teste di tutte le età.
Tutto qui… si fa per dire.
Gianfranco Schialvino
02
aprile 2005
Enrico Robusti – Il calcinculo che tutto move
Dal 02 aprile al 16 maggio 2005
arte contemporanea
Location
GALLERIA PINXIT
Torino, Via Della Rocca, 28/H, (Torino)
Torino, Via Della Rocca, 28/H, (Torino)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 10,30-12,30 e 15,30-19,30
Vernissage
2 Aprile 2005, ore 16
Autore