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17
ottobre 2013
Per fortuna che a volte ritornano!
Progetti e iniziative
Dopo 25 anni, Maurizio Mochetti ripropone parte di un lavoro presentato nel 1988 alla Biennale di Venezia. Nozze d’argento con il progetto, vintage d’autore? Qualunque ipotesi è legittima e sposta di poco la faccenda. Perché l’unica cosa che conta è la tenuta del lavoro. Che è indiscutibile. Mochetti è un artista che non invecchia, né passa di moda. Guardare per credere, alla galleria Giacomo Guidi di Roma
Roma 1988, via Vittoria, Mario Diacono, direttore della Galleria Milena Ugolini presenta una personale di Maurizio Mochetti, l’opera, che invade tutto il pavimento dello spazio espositivo si intitola “Palle” ovvero: «Una lama di luce laser, parallela al pavimento di uno spazio dato, si visualizza in una linea continua sulle pareti. Un gruppo di sfere di diverso diametro, poggiate sul pavimento e poste come ostacoli alla continuità della linea di luce sulla parete, visualizzano le parti mancanti dell’immagine» (Maurizio Mochetti, pag.168, catalogo di Germano Celant, ed. Skira). Roma 1989, esterno sera, forse inverno, forse no, vado in un nuovo spazio espositivo che durerà il tempo di un’unica incredibile mostra quella di Maurizio Mochetti che presenta l’opera Mectulle, la forma sul pavimento è materica, ma fatta di luce e di tulle trasparente. È solida, ma è ineffabile e cambia la sua forma con il variare della quota del piano.
La luce è un laser rosso che diventa materiale mutante, che ridefinisce lo spazio reale trasformandolo in luogo mentale, in spazio siderale. Maurizio Mochetti è l’artista che dopo Lucio Fontana ha cercato di concretizzare l’ineffabilità dello spazio inteso, non solo come spazio mentale, ma ancor di più come spazio cosmico. Fontana nel 1963 crea la sua serie più spirituale e simbolica la “Fine di Dio”, ovvero come scrive Crispolti «..la conversione spaziale d’ogni ipotesi di figurazione divina antropomorfa» e quei grandi ovali gialli, rosa e verdi bucati con il punteruolo per permettere allo spazio di circolare dentro e fuori la superficie solida della tela sono la rappresentazione di un’enigmatica spazialità trascendente, che viene superata dalla luminosa velocità del laser rosso di Maurizio Mochetti. È lui, infatti, a disegnare e ridefinire le superfici in modo completamente nuovo.
Roma 2013, settembre, Maurizio Mochetti torna a stupirmi e affascinarmi ricreando nella galleria di Giacomo Guidi un’installazione del 1988 “pigmento rosso laser” o “pozza rossa”. «Nel pavimento di uno spazio dato viene scavata una forma, che è riempita di pigmento rosso. Un raggio di luce laser, dotato di movimento verticale alternato, segna sul pavimento forme differenti per ciascuna curva di livello, creando nel tempo un’immagine in continuo movimento» (Maurizio Mochetti, pag. 172, op.cit.).
Se lo spazio è virtuale, se i nostri sensi sono fallaci, se tutto ciò che noi percepiamo della realtà fisica è solo una sorta di miraggio come se fossimo avvolti dalle ombre della caverna di Platone, allora è giusto che l’arte cerchi di farci prendere coscienza della nostra instabilità percettiva e dell’ineffabilità e in fondo anche inadeguatezza di questa nostra dimensione terrestre. La forma che Mochetti ci invita a guardare è mutante, fallace, la chiazza rossa è un’idea di forma che si disgrega scomparendo e poi si ricompone, guardare il rosso perimetro frastagliato di quell’isola di luce che si espande e si contrare come se respirasse diventa così una sorta di meditazione sulla reale permenenza e concretezza delle cose terrene.
Forse un tempo eravamo angeli e ora non siamo che umili essere schiacciati dal peso della gravità e dalle leggi della fisica, forse siamo davvero quei Nefilim che sono stati inviati su questo pianeta per colonizzarlo ingravidando le donne e far evolvere gli uomini. Forse l’arte può essere un mezzo per ricordare da che vette di intelligenza proveniamo, forse l’arte è un mezzo per riappropriarsi di una conoscenza dimenticata, della chiave di volta necessaria per ritrovare quella sapienza che ci dovrebbe aiutare ad uscire da questo ambiente angusto per ritrovare lo splendore dell’infinito. Maurizio Mochetti usa la luce per ridefinire i contorni della realtà, per dirci che la realtà può non essere reale e che quindi può essere trascesa ma soprattutto che può essere un linguaggio per iniziati da guardare con gli occhi della mente.