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Mariateresa Ramploud – Vuoti di tempo. Piscine di Albaro
La costruzione è impeccabile, la stampa in bianco e nero è accurata, ricca di dettagli e ripercorre gli stilemi della fotografia di architettura classica, ma questi stessi elementi, con sottili avvicinamenti, operano qui come un’implacabile lama a doppio taglio.
Comunicato stampa
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Lo Stadio del Nuoto di Albaro a Genova è testimone di una lunga vicenda, che si può dire emblematica del Novecento architettonico italiano. Concepito e messo in opera alla metà degli anni Trenta, quando stava per toccare il suo apice il dibattito sull'edilizia e la città fascista, esso poteva vantare un invidiabile equilibrio tra le istanze del monumentalismo scenografico e quelle della leggerezza razionalista, poste al servizio di capisaldi ideologici del regime quali l'atletismo e l'igienismo. Fu forse proprio questo a negargli, nel dopoguerra, una possibilità di riscatto, e nei decenni successivi l'impianto ha continuato a svolgere la sua funzione come una presenza accettata ma ingombrante, avviandosi lentamente all'obsolescenza e infine all'inagibilità.
A chi oggi si avventura nei suoi spazi, l'edificio si presenta come rovina archeologica della modernità, offrendo un'immagine di sé in stridente contrasto con quella originaria. Addentrandosi nelle Piscine di Albaro e percorrendone gli ambienti preceduta dal proprio sguardo stupefatto, Mariateresa Ramploud si è imbattuta in una singolare confluenza dei due temi che hanno finora maggiormente impegnato la sua giovane ricerca fotografica: un'analisi dell'architettura italiana tra le due guerre e la ricognizione di strutture lasciate in stato di desolante abbandono. Se nel primo caso è stata la formazione universitaria ad avviare l'autrice su tale percorso, che nello studio comparativo e compositivo si fa strumento storico e critico, nel secondo entra in gioco una sensibilità particolare, attenta per istinto ai segni del tempo e lasciata libera di assecondare questa attrazione.
Il risultato fonde, in una visione di perfetta coerenza, rigore e poesia. La costruzione è impeccabile, la stampa in bianco e nero è accurata, ricca di dettagli e ripercorre gli stilemi della fotografia di architettura classica, ma questi stessi elementi, con sottili avvicinamenti, operano qui come un'implacabile lama a doppio taglio. La resa dei volumi è interrotta da infissi divelti e strutture in pezzi. L'ampia gamma di passaggi tonali non è solo al servizio dei materiali da costruzione, ma rivela anche gli strati di polvere che coprono gli oggetti e le forme dei racemi che invadono le superfici. La netta scansione dei piani, mentre richiama le astratte geometrie pittoriche di quegli stessi anni, già è violata da macchie e graffi.
Gli ambienti in cui siamo condotti ci concedono rare boccate d'aria, le sale sono spesso claustrofobiche, i corridoi cunicolari; il senso della misura, riconquistato talvolta come nella veduta dal trampolino, si smarrisce in vertigine appena due passi oltre, a volo su una distesa di immondizia che, nel suo farsi forma dall'informe, pare memore di Weston. La chiarezza spaziale può arrivare così a capovolgersi escherianamente, fino a farci perdere l'orientamento persino dell'alto e del basso: quando ce ne accorgiamo, capiamo di essere su un territorio mentale lontanissimo da quello da cui ci eravamo mossi in principio. Quelli che erano razionalissimi vuoti architettonici sono divenuti vuoti di tempo, immersi in una sospensione del suo fluire che si intreccia a memorie astratte e concrete, collettive e individuali. Ancora una volta, come già accaduto per un altro recente lavoro della fotografa, realizzato nella sua città, le immagini generano negli spettatori differenti modi di ricezione. Se chi non conosceva l'edificio è pervaso da una sensazione di memoria indefinita, chi vi abbia trascorso momenti della propria vita si trova ora, giocoforza, a sovrapporre ai ricordi privati, che trovano appigli nei lacerti di scritte e negli oggetti abbandonati, un passato recente inafferrabile. All'evidenza testimoniale che questo luogo, ripetiamo con la sentenza di Roland Barthes, è stato così come qui lo vediamo (e ancora per poco, pare, è), si somma la visione, più fluttuante eppure più intensa, di come lo stesso era stato.
È questa lettura a rivelare come Mariateresa Ramploud sia distante da qualsivoglia volontà di denunciare una situazione di degrado - il che non significa naturalmente che lei non abbia opinioni al riguardo - ma consideri la sua ricerca come un tentativo, che ci pare riuscito appieno, di interpretare il complesso architettonico di Albaro in quella che altro non è se non una fase della sua esistenza, frutto anzitutto di ragioni storiche, e di farlo cogliendone in parallelo differenti dimensioni temporali: il vuoto del tempo sospeso e il pieno della memoria, l'attimo dello sguardo presente e il fluire dei ricordi. Con sguardo severo ma anche dolcemente malinconico, Mariateresa ha letto lo spazio vedendo il tempo, unica via per comprendere l'esistere dei luoghi.
(catalogo in galleria)
Con il contributo di UNIECO
A chi oggi si avventura nei suoi spazi, l'edificio si presenta come rovina archeologica della modernità, offrendo un'immagine di sé in stridente contrasto con quella originaria. Addentrandosi nelle Piscine di Albaro e percorrendone gli ambienti preceduta dal proprio sguardo stupefatto, Mariateresa Ramploud si è imbattuta in una singolare confluenza dei due temi che hanno finora maggiormente impegnato la sua giovane ricerca fotografica: un'analisi dell'architettura italiana tra le due guerre e la ricognizione di strutture lasciate in stato di desolante abbandono. Se nel primo caso è stata la formazione universitaria ad avviare l'autrice su tale percorso, che nello studio comparativo e compositivo si fa strumento storico e critico, nel secondo entra in gioco una sensibilità particolare, attenta per istinto ai segni del tempo e lasciata libera di assecondare questa attrazione.
Il risultato fonde, in una visione di perfetta coerenza, rigore e poesia. La costruzione è impeccabile, la stampa in bianco e nero è accurata, ricca di dettagli e ripercorre gli stilemi della fotografia di architettura classica, ma questi stessi elementi, con sottili avvicinamenti, operano qui come un'implacabile lama a doppio taglio. La resa dei volumi è interrotta da infissi divelti e strutture in pezzi. L'ampia gamma di passaggi tonali non è solo al servizio dei materiali da costruzione, ma rivela anche gli strati di polvere che coprono gli oggetti e le forme dei racemi che invadono le superfici. La netta scansione dei piani, mentre richiama le astratte geometrie pittoriche di quegli stessi anni, già è violata da macchie e graffi.
Gli ambienti in cui siamo condotti ci concedono rare boccate d'aria, le sale sono spesso claustrofobiche, i corridoi cunicolari; il senso della misura, riconquistato talvolta come nella veduta dal trampolino, si smarrisce in vertigine appena due passi oltre, a volo su una distesa di immondizia che, nel suo farsi forma dall'informe, pare memore di Weston. La chiarezza spaziale può arrivare così a capovolgersi escherianamente, fino a farci perdere l'orientamento persino dell'alto e del basso: quando ce ne accorgiamo, capiamo di essere su un territorio mentale lontanissimo da quello da cui ci eravamo mossi in principio. Quelli che erano razionalissimi vuoti architettonici sono divenuti vuoti di tempo, immersi in una sospensione del suo fluire che si intreccia a memorie astratte e concrete, collettive e individuali. Ancora una volta, come già accaduto per un altro recente lavoro della fotografa, realizzato nella sua città, le immagini generano negli spettatori differenti modi di ricezione. Se chi non conosceva l'edificio è pervaso da una sensazione di memoria indefinita, chi vi abbia trascorso momenti della propria vita si trova ora, giocoforza, a sovrapporre ai ricordi privati, che trovano appigli nei lacerti di scritte e negli oggetti abbandonati, un passato recente inafferrabile. All'evidenza testimoniale che questo luogo, ripetiamo con la sentenza di Roland Barthes, è stato così come qui lo vediamo (e ancora per poco, pare, è), si somma la visione, più fluttuante eppure più intensa, di come lo stesso era stato.
È questa lettura a rivelare come Mariateresa Ramploud sia distante da qualsivoglia volontà di denunciare una situazione di degrado - il che non significa naturalmente che lei non abbia opinioni al riguardo - ma consideri la sua ricerca come un tentativo, che ci pare riuscito appieno, di interpretare il complesso architettonico di Albaro in quella che altro non è se non una fase della sua esistenza, frutto anzitutto di ragioni storiche, e di farlo cogliendone in parallelo differenti dimensioni temporali: il vuoto del tempo sospeso e il pieno della memoria, l'attimo dello sguardo presente e il fluire dei ricordi. Con sguardo severo ma anche dolcemente malinconico, Mariateresa ha letto lo spazio vedendo il tempo, unica via per comprendere l'esistere dei luoghi.
(catalogo in galleria)
Con il contributo di UNIECO
05
febbraio 2005
Mariateresa Ramploud – Vuoti di tempo. Piscine di Albaro
Dal 05 al 23 febbraio 2005
fotografia
Location
SATURA – PALAZZO STELLA
Genova, Piazza Stella, 5/1, (Genova)
Genova, Piazza Stella, 5/1, (Genova)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 16.30-19. Chiuso lunedì e festivi
Vernissage
5 Febbraio 2005, ore 17
Autore
Curatore