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Max Cole / Anonimo XVII secolo – Nero Avorio
Sette tele dell’artista contemporanea americana Max Cole e un crocifisso in avorio, attribuito verso la fine dell’800 a Pierre Puget.
Comunicato stampa
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La mostra comprende sette tele dell'artista contemporanea americana Max Cole e un crocifisso in avorio, attribuito verso la fine dell¹800 a Pierre Puget. Oggi alcuni studiosi (tra i quali Susanna Zanuso) pensano si tratti di un lavoro ottocentesco. Tuttavia, se l¹attribuzione al Puget non risulta attendibile, la discussione sull¹epoca di esecuzione resta ancora aperta.
Ormai da molto tempo l¹arte ³sacra² appare come incapace di comunicare con un mondo sempre più attraversato da una forte inquietudine generata dalla crisi delle ideologie, da un relativismo che mette in discussione i valori fondamentali, da un indebolimento del senso della storia. ³Tempo di povertà², che è ³notte del mondo², direbbe Heidegger. Tempo di ³crisi del senso².
La Chiesa, dopo secoli di una intensa ricerca linguistica ed espressiva motivata dal desiderio di comunicare attraverso le immagini i simboli della propria fede, fatica a fare una seria riflessione sul modo con cui è chiamata a dare risposte alle urgenze del proprio tempo. Si parla spesso della sua incapacità a inculturarsi nel mondo contemporaneo; della sua nostalgia verso un passato glorioso ma ormai sepolto per sempre; del fascino esercitato da seducenti manifestazioni ³commerciali² del ³sacro² che non esitano a proporre ³opere² sul modello degli oggetti industrialiŠ Immagini legate a uno sterile e vacuo pietismo religioso.
Mostre come quelle recentemente presentate a Santa Maria degli Angeli a Roma confermano purtroppo questa tendenza. Il limite di quest¹arte cosiddetta ³religiosa² consiste nella ripresa tanto semplificata e superficiale, quanto artificiosamente naïve della grande tradizione figurativa come veicolo di messaggi spirituali. Questa arte appare caratterizzata da una ingenuità ricercata, costruita, da un falso desiderio di verità che nasconde in realtà solo un vuoto, un¹assenza di contenuti, un¹incapacità di cogliere le preoccupazioni reali del nostro tempo. Si tratta di un¹arte che è puro gioco formale, arte del nulla.
Come purtroppo si fa spesso, non si tratta tanto di ³aggiornare un linguaggio², di riprendere le antiche iconografie per poi ³modernizzarle², quasi fosse possibile interpretare un testo da una lingua all¹altra, traducendolo parola per parola, senza tuttavia capire ciò di cui si sta realmente parlando, senza comprendere quella dimensione di senso che il testo è invece chiamato a incarnare. Occorre ripensare il rapporto tra arte e fede a partire da criteri che tengano conto di una serie riflessione antropologica e teologica. L¹arte deve farsi interprete di una ricerca esistenziale.
Con questo spirito di ricerca, la Galleria San Fedele presenta una nuova mostra che unisce una serie di tele dell¹artista contemporanea Max Cole con uno splendido crocifisso antico in avorio. Apparentemente nulla di più distante. Tecnica, tempi di esecuzione, soggetti, modalità espressive: tutto sembra fare pensare all¹impossibilità di trovare una logica che giustifichi l¹accostamento di opere che si mostrano così diverse tra loro. In realtà, la mostra è come un viaggio dall¹iconico all¹aniconico, dal passato al presente, dalla figurazione all¹astrazione, dalla pittura alla scultura. E viceversa. Viaggio teologico che richiede sosta, riflessione, silenzio.
Da una serie di tele che procedono da toni scuri a toni sempre più chiari, attraverso il passaggio graduale dal nero al bianco, il cammino si conclude con il corpo di Cristo sulla Croce. Il percorso è dunque concepito simbolicamente come esodo dalle tenebre della morte alla luce della vita: passaggio che si condensa e si concentra nel corpo stesso del Dio crocifisso. Al momento della morte di Cristo, riportano i Vangeli, il sole si oscura. Tutto regredisce al caos originario. Il Cristo sta per consegnare il suo spirito. La sue labbra sono dischiuse. Ascoltiamo il suo grido di abbandono al Padre. Tutto è compiuto. Consummatum est. Si tratta dell¹avvenimento dell¹unità della vita e della morte perché la vita possa trionfare. Non c¹è fecondità, apertura alla vita, senza attraversare la morte. E vita e morte appaiono intimamente unite, come la scultura in avorio esemplifica. Il corpo del Figlio di Dio è infatti come sottoposto a una torsione che già allude all¹ascesa verso il cielo, alla resurrezione. Anche il colore stesso dell¹avorio, il bianco, sembra alludere a questa luce di rinascita, di gloria. La morte sta per cedere il posto a un¹esplosione di vita.
Questo termine del percorso ci obbliga tuttavia a ricominciare un altro cammino. E ce ne rendiamo conto se pensiamo a come le tele aniconiche della Cole sono realizzate. L¹artista americana dipinge le sue tele attraverso un ordito di piccolissime aste orizzontali e verticali che disegnano una trama di linee infinite, come simulando il tracciato di una tela. Tutte le immagini sacre della tradizione cristiana si fondano sul gesto originario dell¹impronta di Cristo su di una tela, destinata a presentare alla comunità dei fedeli l¹eicon, la vera immagine. La traccia visibile di un Dio fattosi uomo. Si tratta dell¹impronta di un corpo su di un lenzuolo, di un volto che lascia la sua impressione su di un velo, come tramanda la tradizione della Veronica non riportata dai Vangeli. Ma per accogliere la vera immagine, occorre sopprimere ogni immagine. L¹azzeramento di ogni forma è la condizione per accogliere la vera forma. E le immagini senza immagini della Cole ci accompagnano verso questa rivelazione, verso questa apparizione di luce. Le tele si fanno come epifanie, veli di meditazione, diaframmi di contemplazione. Sacri lenzuoli pronti ad accogliere la traccia materiale del divino, per poterne custodire e trasmettere la memoria. Come se fossero in attesa di accogliere una realtà che va protetta, salvaguardata.
Abbiamo parlato di viaggio teologico. Infinite sono le linee che l¹artista americana traccia sulla tela. Un gesto apparentemente senza giustificazione che sembra non conoscere termine, sosta. Come un gesto che si ripete indefinitamente, ma come per attendere l¹irruzione di un evento che dia pienezza di senso ai gesti compiuti. Il dipingere si fa gesto di una ripetizione contemplativa, quasi fosse la recitazione della stessa preghiera. Come se fosse la preparazione alla verità di un incontro. Alla verità del proprio essere uomini di fronte a Dio.
Andrea Dall'Asta S. I.
Nero Avorio
Il nero della pittura non è il nero, non lo è mai stato.
Nella tecnica pittorica i neri, come ogni altro colore, si espandono nella loro immagine originaria calda o fredda.
Il nero d¹ossa che proviene alla combustione di ossa di animali o di nòccioli di frutta mantiene la sua qualità rossastra. Il nero di vite che viene dalla frantumazione di tralci di vite ridotti a carboncino, una qualità grigio azzurrognola. Ancora bluastro è il nerofumo o nero di lampada cioè quella polvere appiccicosa che si formava sopra una lamina d¹argento posta sopra lo stoppino acceso di una lucerna a olio.
Il nero più prezioso è il nero avorio che sembra una contraddizione, in realtà i frammenti d¹avorio una volta bruciati producono una cenere che è il nero più prezioso in pittura. Mentre il nero di stampa, la materia prima dell¹arte della stampa di Gutenberg, assieme alle virtù dei caratteri mobili, è qualitativamente il peggiore di tutti i neri per quanto possa raccogliere tutte le qualità del ³nero su bianco² che sono le promesse della modernità e la condizione più umile e necessaria della semplice carta stampata, per essere tale.
Nell¹arte contemporanea il Quadrato nero di Malevic, chiamato quasi umanizzandolo, Quadrato nero su fondo bianco fu un quadro costruito in mezzo a una nuova teologia cromatica per la pittura astratta. Fu fin dall¹inizio datato 1915 ma pensato e dipinto dopo la prima guerra (e la rivoluzione russa) almeno nel 1920, cioè dopo il periodo giallo, arancione e verde, quasi un inizio simbolico della conversione figurativa di Malevic che in realtà fu uno scherzo al regime e anche la ragione del suo oblio pittorico, resuscitato improvvisamente non prima degli anni Cinquanta del Novecento.
Oggi il quadrato nero di Malevic osservato al Museo russo di San Pietroburgo ha al suo interno fitte screpolature che manifestano una ³rottura² miracolosamente scoperta dal tempo come la gemmazione di una nuova figura. Il nero si è totalmente fessurato da far apparire un¹immagine interna prima non visibile e ora quasi riconoscibile.
L¹orizzonte convulso dell¹Action painting americano è stato un¹esaltazione per quanto patibolare del colore come mezzo espressivo, dall¹anarchia del dripping di Pollock fino alla sintesi riduzionistica di Mark Rothko. Alcuni pittori come Ellsworth Kelly dopo gli anni Cinquanta e dopo una sobria ubriacatura cromatica hanno riproposto la condensazione basilare e originaria del bianco e del nero come punti di partenza e di arrivo della pittura. Ecco che la Minimal Art era diventata l¹interfaccia segreta e nascosta della Pop Art che tuttavia ha guadagnato il Bingo artistico degli anni Sessanta e oltre.
La riduzione a zero e il raggiungimento del nero attuati dalla Max Cole risulta proprio dall¹appassionata ricerca di una rinascita che parte dai gesti verticali e orizzontali e dalle materie originarie che servono, per esempio, a tessere una tela o una Sindone. Il velo della Veronica, pur non presente nei Vangeli, è soltanto un lino fittamente intessuto dove prevale il gesto sulla traccia del sacro volto, che può anche non apparire. Infatti la maggior parte di quelle immagini sacre chiamate ³Veroniche², suggeriva la storia della passione del Cristo indipendentemente dalla ³fotografia² stampata sul lenzuolo. Le linee, alternativamente verticali od orizzontali, ³intessute² dalla umile squaw Max Cole, pensando all¹estrema precisione del loro tracciamento, diventano l¹ordito e la trama per l¹apparizione immateriale di un volto.
Anche i Preraffaelliti inglesi, che avvertivano le minacce di una nascente e già travolgente civiltà industriale, suggerivano accanto alla pittura e alla poesia, di praticare l¹arte etica della tessitura, la ³sweet cross² cioè il gesto rituale del passaggio orizzontale della spola che si intreccia alla verticalità dell¹ordito. E possiamo immaginare quanto questo potesse essere importante in mezzo al fracasso assordante dei telai meccanici della prima rivoluzione industriale.
L¹orizzontalità e la verticalità delle linee della Cole non possono essere distaccate da un¹estrema volontà, astratta quanto concreta, di ritessere una tela apparentemente inanimata, quasi metallica. Questa non sarà la semplice tela-rete di un quadro ma il grande lenzuolo che conserva in un rito estremo, l¹ombra corporea della vita consegnandola all¹immagine di una rinascita. Questo è nella pittura e nella vita delle arti che producono nell¹assolutezza del nero e nella nudità del lenzuolo impresso, il processo teologico della kenosis. Si tratta dell¹annullamento, dello svuotamento, del Consummatum est che porta a una resurrezione, come la cenere odorosa che diventa la concimazione più perfetta per l¹orto delle viti, ma anche la miglior lisciva per un lavaggio purificatorio.
Il tessuto verticale e orizzontale portano alla mappa sindonica dell¹incarnazione, all¹icona del corpo nella sua tensione assolutamente vitale che lo accompagna e lo consegna alla fine della passione.
Il Cristo in avorio qui esposto (che ha per noi una difficile quanto fortunata difficoltà di attribuzione temporale), è stato messo al principio e al termine di un viaggio aniconico della Cole per affermare una propria materiale immaterialità. L¹avorio nella metafora artistica e nel mito ha sempre riproposto la parte per un tutto, riportando l¹immagine del mite e vittorioso elefante che ha vitalmente sviluppato un proprio sensus finis e sa quindi togliersi di mezzo e relegarsi in un luogo appartato senza incombere con la propria mole e il proprio peso animale.
L¹avorio, questo particolare pezzo di avorio che è diventato l¹icona di un Cristo sofferente ma quasi distaccato e risorgente dal legno geometrico della croce, mostra le piccole imperfezioni, le piccole crepe di ogni materia veramente preziosa e richiama a sé l¹esito finale dell¹arte e allo stesso tempo il suo principio. Perché i frammenti che sono stati apparentemente perduti dalla lavorazione dell¹opera, come resti del tutto inutili, sono diventati con il fuoco la polvere preziosa del ³nero avorio² che ha reso altrove possibile un altro quadro, un¹altra pittura, un¹altra figura.
Manlio Brusatin
Ormai da molto tempo l¹arte ³sacra² appare come incapace di comunicare con un mondo sempre più attraversato da una forte inquietudine generata dalla crisi delle ideologie, da un relativismo che mette in discussione i valori fondamentali, da un indebolimento del senso della storia. ³Tempo di povertà², che è ³notte del mondo², direbbe Heidegger. Tempo di ³crisi del senso².
La Chiesa, dopo secoli di una intensa ricerca linguistica ed espressiva motivata dal desiderio di comunicare attraverso le immagini i simboli della propria fede, fatica a fare una seria riflessione sul modo con cui è chiamata a dare risposte alle urgenze del proprio tempo. Si parla spesso della sua incapacità a inculturarsi nel mondo contemporaneo; della sua nostalgia verso un passato glorioso ma ormai sepolto per sempre; del fascino esercitato da seducenti manifestazioni ³commerciali² del ³sacro² che non esitano a proporre ³opere² sul modello degli oggetti industrialiŠ Immagini legate a uno sterile e vacuo pietismo religioso.
Mostre come quelle recentemente presentate a Santa Maria degli Angeli a Roma confermano purtroppo questa tendenza. Il limite di quest¹arte cosiddetta ³religiosa² consiste nella ripresa tanto semplificata e superficiale, quanto artificiosamente naïve della grande tradizione figurativa come veicolo di messaggi spirituali. Questa arte appare caratterizzata da una ingenuità ricercata, costruita, da un falso desiderio di verità che nasconde in realtà solo un vuoto, un¹assenza di contenuti, un¹incapacità di cogliere le preoccupazioni reali del nostro tempo. Si tratta di un¹arte che è puro gioco formale, arte del nulla.
Come purtroppo si fa spesso, non si tratta tanto di ³aggiornare un linguaggio², di riprendere le antiche iconografie per poi ³modernizzarle², quasi fosse possibile interpretare un testo da una lingua all¹altra, traducendolo parola per parola, senza tuttavia capire ciò di cui si sta realmente parlando, senza comprendere quella dimensione di senso che il testo è invece chiamato a incarnare. Occorre ripensare il rapporto tra arte e fede a partire da criteri che tengano conto di una serie riflessione antropologica e teologica. L¹arte deve farsi interprete di una ricerca esistenziale.
Con questo spirito di ricerca, la Galleria San Fedele presenta una nuova mostra che unisce una serie di tele dell¹artista contemporanea Max Cole con uno splendido crocifisso antico in avorio. Apparentemente nulla di più distante. Tecnica, tempi di esecuzione, soggetti, modalità espressive: tutto sembra fare pensare all¹impossibilità di trovare una logica che giustifichi l¹accostamento di opere che si mostrano così diverse tra loro. In realtà, la mostra è come un viaggio dall¹iconico all¹aniconico, dal passato al presente, dalla figurazione all¹astrazione, dalla pittura alla scultura. E viceversa. Viaggio teologico che richiede sosta, riflessione, silenzio.
Da una serie di tele che procedono da toni scuri a toni sempre più chiari, attraverso il passaggio graduale dal nero al bianco, il cammino si conclude con il corpo di Cristo sulla Croce. Il percorso è dunque concepito simbolicamente come esodo dalle tenebre della morte alla luce della vita: passaggio che si condensa e si concentra nel corpo stesso del Dio crocifisso. Al momento della morte di Cristo, riportano i Vangeli, il sole si oscura. Tutto regredisce al caos originario. Il Cristo sta per consegnare il suo spirito. La sue labbra sono dischiuse. Ascoltiamo il suo grido di abbandono al Padre. Tutto è compiuto. Consummatum est. Si tratta dell¹avvenimento dell¹unità della vita e della morte perché la vita possa trionfare. Non c¹è fecondità, apertura alla vita, senza attraversare la morte. E vita e morte appaiono intimamente unite, come la scultura in avorio esemplifica. Il corpo del Figlio di Dio è infatti come sottoposto a una torsione che già allude all¹ascesa verso il cielo, alla resurrezione. Anche il colore stesso dell¹avorio, il bianco, sembra alludere a questa luce di rinascita, di gloria. La morte sta per cedere il posto a un¹esplosione di vita.
Questo termine del percorso ci obbliga tuttavia a ricominciare un altro cammino. E ce ne rendiamo conto se pensiamo a come le tele aniconiche della Cole sono realizzate. L¹artista americana dipinge le sue tele attraverso un ordito di piccolissime aste orizzontali e verticali che disegnano una trama di linee infinite, come simulando il tracciato di una tela. Tutte le immagini sacre della tradizione cristiana si fondano sul gesto originario dell¹impronta di Cristo su di una tela, destinata a presentare alla comunità dei fedeli l¹eicon, la vera immagine. La traccia visibile di un Dio fattosi uomo. Si tratta dell¹impronta di un corpo su di un lenzuolo, di un volto che lascia la sua impressione su di un velo, come tramanda la tradizione della Veronica non riportata dai Vangeli. Ma per accogliere la vera immagine, occorre sopprimere ogni immagine. L¹azzeramento di ogni forma è la condizione per accogliere la vera forma. E le immagini senza immagini della Cole ci accompagnano verso questa rivelazione, verso questa apparizione di luce. Le tele si fanno come epifanie, veli di meditazione, diaframmi di contemplazione. Sacri lenzuoli pronti ad accogliere la traccia materiale del divino, per poterne custodire e trasmettere la memoria. Come se fossero in attesa di accogliere una realtà che va protetta, salvaguardata.
Abbiamo parlato di viaggio teologico. Infinite sono le linee che l¹artista americana traccia sulla tela. Un gesto apparentemente senza giustificazione che sembra non conoscere termine, sosta. Come un gesto che si ripete indefinitamente, ma come per attendere l¹irruzione di un evento che dia pienezza di senso ai gesti compiuti. Il dipingere si fa gesto di una ripetizione contemplativa, quasi fosse la recitazione della stessa preghiera. Come se fosse la preparazione alla verità di un incontro. Alla verità del proprio essere uomini di fronte a Dio.
Andrea Dall'Asta S. I.
Nero Avorio
Il nero della pittura non è il nero, non lo è mai stato.
Nella tecnica pittorica i neri, come ogni altro colore, si espandono nella loro immagine originaria calda o fredda.
Il nero d¹ossa che proviene alla combustione di ossa di animali o di nòccioli di frutta mantiene la sua qualità rossastra. Il nero di vite che viene dalla frantumazione di tralci di vite ridotti a carboncino, una qualità grigio azzurrognola. Ancora bluastro è il nerofumo o nero di lampada cioè quella polvere appiccicosa che si formava sopra una lamina d¹argento posta sopra lo stoppino acceso di una lucerna a olio.
Il nero più prezioso è il nero avorio che sembra una contraddizione, in realtà i frammenti d¹avorio una volta bruciati producono una cenere che è il nero più prezioso in pittura. Mentre il nero di stampa, la materia prima dell¹arte della stampa di Gutenberg, assieme alle virtù dei caratteri mobili, è qualitativamente il peggiore di tutti i neri per quanto possa raccogliere tutte le qualità del ³nero su bianco² che sono le promesse della modernità e la condizione più umile e necessaria della semplice carta stampata, per essere tale.
Nell¹arte contemporanea il Quadrato nero di Malevic, chiamato quasi umanizzandolo, Quadrato nero su fondo bianco fu un quadro costruito in mezzo a una nuova teologia cromatica per la pittura astratta. Fu fin dall¹inizio datato 1915 ma pensato e dipinto dopo la prima guerra (e la rivoluzione russa) almeno nel 1920, cioè dopo il periodo giallo, arancione e verde, quasi un inizio simbolico della conversione figurativa di Malevic che in realtà fu uno scherzo al regime e anche la ragione del suo oblio pittorico, resuscitato improvvisamente non prima degli anni Cinquanta del Novecento.
Oggi il quadrato nero di Malevic osservato al Museo russo di San Pietroburgo ha al suo interno fitte screpolature che manifestano una ³rottura² miracolosamente scoperta dal tempo come la gemmazione di una nuova figura. Il nero si è totalmente fessurato da far apparire un¹immagine interna prima non visibile e ora quasi riconoscibile.
L¹orizzonte convulso dell¹Action painting americano è stato un¹esaltazione per quanto patibolare del colore come mezzo espressivo, dall¹anarchia del dripping di Pollock fino alla sintesi riduzionistica di Mark Rothko. Alcuni pittori come Ellsworth Kelly dopo gli anni Cinquanta e dopo una sobria ubriacatura cromatica hanno riproposto la condensazione basilare e originaria del bianco e del nero come punti di partenza e di arrivo della pittura. Ecco che la Minimal Art era diventata l¹interfaccia segreta e nascosta della Pop Art che tuttavia ha guadagnato il Bingo artistico degli anni Sessanta e oltre.
La riduzione a zero e il raggiungimento del nero attuati dalla Max Cole risulta proprio dall¹appassionata ricerca di una rinascita che parte dai gesti verticali e orizzontali e dalle materie originarie che servono, per esempio, a tessere una tela o una Sindone. Il velo della Veronica, pur non presente nei Vangeli, è soltanto un lino fittamente intessuto dove prevale il gesto sulla traccia del sacro volto, che può anche non apparire. Infatti la maggior parte di quelle immagini sacre chiamate ³Veroniche², suggeriva la storia della passione del Cristo indipendentemente dalla ³fotografia² stampata sul lenzuolo. Le linee, alternativamente verticali od orizzontali, ³intessute² dalla umile squaw Max Cole, pensando all¹estrema precisione del loro tracciamento, diventano l¹ordito e la trama per l¹apparizione immateriale di un volto.
Anche i Preraffaelliti inglesi, che avvertivano le minacce di una nascente e già travolgente civiltà industriale, suggerivano accanto alla pittura e alla poesia, di praticare l¹arte etica della tessitura, la ³sweet cross² cioè il gesto rituale del passaggio orizzontale della spola che si intreccia alla verticalità dell¹ordito. E possiamo immaginare quanto questo potesse essere importante in mezzo al fracasso assordante dei telai meccanici della prima rivoluzione industriale.
L¹orizzontalità e la verticalità delle linee della Cole non possono essere distaccate da un¹estrema volontà, astratta quanto concreta, di ritessere una tela apparentemente inanimata, quasi metallica. Questa non sarà la semplice tela-rete di un quadro ma il grande lenzuolo che conserva in un rito estremo, l¹ombra corporea della vita consegnandola all¹immagine di una rinascita. Questo è nella pittura e nella vita delle arti che producono nell¹assolutezza del nero e nella nudità del lenzuolo impresso, il processo teologico della kenosis. Si tratta dell¹annullamento, dello svuotamento, del Consummatum est che porta a una resurrezione, come la cenere odorosa che diventa la concimazione più perfetta per l¹orto delle viti, ma anche la miglior lisciva per un lavaggio purificatorio.
Il tessuto verticale e orizzontale portano alla mappa sindonica dell¹incarnazione, all¹icona del corpo nella sua tensione assolutamente vitale che lo accompagna e lo consegna alla fine della passione.
Il Cristo in avorio qui esposto (che ha per noi una difficile quanto fortunata difficoltà di attribuzione temporale), è stato messo al principio e al termine di un viaggio aniconico della Cole per affermare una propria materiale immaterialità. L¹avorio nella metafora artistica e nel mito ha sempre riproposto la parte per un tutto, riportando l¹immagine del mite e vittorioso elefante che ha vitalmente sviluppato un proprio sensus finis e sa quindi togliersi di mezzo e relegarsi in un luogo appartato senza incombere con la propria mole e il proprio peso animale.
L¹avorio, questo particolare pezzo di avorio che è diventato l¹icona di un Cristo sofferente ma quasi distaccato e risorgente dal legno geometrico della croce, mostra le piccole imperfezioni, le piccole crepe di ogni materia veramente preziosa e richiama a sé l¹esito finale dell¹arte e allo stesso tempo il suo principio. Perché i frammenti che sono stati apparentemente perduti dalla lavorazione dell¹opera, come resti del tutto inutili, sono diventati con il fuoco la polvere preziosa del ³nero avorio² che ha reso altrove possibile un altro quadro, un¹altra pittura, un¹altra figura.
Manlio Brusatin
16
febbraio 2005
Max Cole / Anonimo XVII secolo – Nero Avorio
Dal 16 febbraio al 09 aprile 2005
arte antica
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
GALLERIA SAN FEDELE
Milano, Via Ulrico Hoepli, 3A-B, (Milano)
Milano, Via Ulrico Hoepli, 3A-B, (Milano)
Orario di apertura
dal martedì al sabato 16-19, mattino su richiesta. Chiuso dal 23 marzo al 4 aprile
Vernissage
16 Febbraio 2005, ore 18
Autore
Curatore