21 novembre 2013

Ritratto del curatore da giovane

 
Intervista a Simone Ciglia, il critico d’arte trentunenne che vive tra Roma e Pescara. Simone non perde l’occasione per denunciare alcuni aspetti che a suo parere non funzionano nel nostro Paese in ambito culturale e dintorni. E parlando della sua giovane carriera, non nasconde un rimpianto in particolare [di Manuela Valentini]

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Dando un’occhiata al tuo curriculum vitae, mi sono resa conto che hai conseguito il dottorato di ricerca nel 2012. Quali porte ti ha aperto in più? Quali i vantaggi, quali gli svantaggi? 
«Il dottorato di ricerca ha costituito la naturale prosecuzione dei miei studi in storia dell’arte contemporanea, condotti presso “La Sapienza” di Roma sotto la guida del prof. Claudio Zambianchi. Ho fatto questa scelta perché il mio desiderio sarebbe quello d’intraprendere la carriera accademica, anche se in Italia si tratta di una scelta pressoché utopistica. Avendo conseguito da poco il titolo, per adesso il dottorato non ha ancora avuto un esito definito a livello professionale. Spero che in futuro possa essere una carta da giocare: in ogni caso si tratta di una qualifica maggiormente spendibile all’estero. Il triennio del dottorato è stato un momento fondamentale della mia formazione, e davvero un periodo di grazia. Con il sostegno della borsa di studio, ho potuto condurre in grande libertà una ricerca su uno dei temi che mi ha maggiormente appassionato: la questione dell’utopia (e del suo contrario, la distopia) nell’arte contemporanea. Ho deciso d’incentrare in particolare la mia analisi sul momento storico più vicino a noi, quello che va dalla caduta del muro di Berlino fino a oggi. La ricerca mi ha portato a Londra e New York, per un periodo che pur nella sua brevità è stato rivelatore. Ritengo che la scelta del dottorato possa fornire a un aspirante curatore o critico d’arte una solida base teorica e storica. Quello che infatti mi sembra di riscontrare spesso nei diversi attori del sistema dell’arte contemporanea – specialmente nel nostro Paese – è appunto la carenza di un robusto fondamento in questi campi».  
Con riferimento al tuo percorso formativo, c’è qualcosa che non rifaresti o che faresti, ma in modo diverso? Anche se sei molto giovane, c’è qualcosa che rimpiangi?  
«In tutta onestà non ho finora rimpianto la scelta di dedicare la mia vita all’arte e alla sua storia, anche se il percorso è tuttora non facile. La tentazione di lasciare questo Paese è sempre molto forte, per le ragioni ben note, che si ripetono ritualmente come una litania senza tuttavia che a esse seguano provvedimenti: uno Stato che non investe nel campo della cultura, strategico invece per l’Italia; una classe politica sorda alle istanze che provengono da questo settore; una iniziativa privata che non riesce a supplire a queste carenze; un Paese che non funziona come sistema; un’intera nazione che da vent’anni è ostaggio degli interessi privati di una sola persona. Il problema tuttavia è più ampiamente culturale, e risiede in un habitus mentale tipicamente italiano, in un’incultura diffusa che genera, tra le altre cose, la scarsa considerazione per le ragioni del merito. Per questo ritengo necessaria una nuova alfabetizzazione civile, un’opera che solo la scuola può portare avanti. Tra le altre cose ho conseguito anche l’abilitazione d’insegnante di storia dell’arte, ma vedo come un miraggio il possibile inserimento a scuola. Più in generale l’ingresso nel mondo del lavoro, soprattutto in un settore come il nostro, è estremamente accidentato. Ecco, forse l’unico rimpianto a volte è quello di non essere ancora andato via. Non voglio fare qui l’ennesima geremiade, perché io combatto ogni giorno per cercare di realizzare quello che faccio. Tuttavia il nostro Paese necessita di un cambiamento radicale, di cui dobbiamo essere noi stessi i fautori».   
In generale, che giudizio e impressione ti sei fatto della tua professione e dei tuoi colleghi? Pensi ci siano delle differenze tra la generazione dei curatori giovani e maturi?
«Non mi definisco mai un curatore: se devo incasellare il mio lavoro preferisco farlo sotto la voce “storico dell’arte”, con una specializzazione sul contemporaneo. L’aspetto che mi riesce meno gradito di questa attività è quello legato alle pubbliche relazioni: si tratta della parte più superficiale, che spesso tuttavia diventa sostanziale. Comprendo che si tratta di un aspetto ineludibile, ma preferirei che l’attenzione si concentrasse maggiormente sugli aspetti contenutistici, ovvero sul lavoro dell’artista. 
È certamente possibile individuare differenze sostanziali nel campo della curatela a livello generazionale. Il discorso in proposito sarebbe molto lungo: per andare al cuore del problema, credo che negli ultimi anni si sia assistito a una sempre maggiore professionalizzazione all’interno del sistema dell’arte. Questo forse a scapito di una visione d’insieme, che era patrimonio delle generazioni precedenti. Quello che auspico è che si torni verso una maggiore ampiezza d’orizzonte, per cui il curatore o il critico sia anche un intellettuale a tutto tondo. 
Tra i curatori delle generazioni precedenti credo che uno dei debiti maggiori vada riconosciuto a Harald Szeemann, che ha svolto il ruolo di pioniere in questo campo. Per quanto riguarda poi nello specifico il nostro Paese, ammiro la visione critica e insieme strategica di Germano Celant e Achille Bonito Oliva, che ha prodotto gli ultimi due momenti in cui l’arte italiana è riuscita ad affermarsi in maniera programmatica nel mondo. Vorrei poi avere la fantasia di Giacinto Di Pietrantonio, il rigore di Stefano Chiodi, l’intuito di Ludovico Pratesi, l’apertura internazionale di Cristiana Perrella, lo sguardo di Massimiliano Gioni. Fra i curatori giovani apprezzo il lavoro di Luca Lo Pinto, la sua capacità rabdomantica di scegliere i luoghi delle sue mostre e di creare un’alchimia fra questi e le opere che vi sono collocate». 
A cosa stai lavorando al momento?
«Attualmente sto lavorando al completamento del nuovo progetto di Giuseppe Stampone L’ABC dell’Arte, nell’ambito della collana BcomeBox. Quello che mi ha appassionato del progetto Bcome è l’idea di muoversi al di là del sistema dell’arte per realizzare un prodotto rivolto a un pubblico più ampio. L’idea infatti è quella di chiamare ogni volta un artista a realizzare un progetto che coinvolga in prima persona il collezionista: quest’ultimo acquista (ad un prezzo largamente accessibile) una scatola che contiene al suo interno dei materiali predisposti dall’artista, di cui poi si servirà per realizzare un’opera. Un lavoro quindi che nasce dall’interazione e che credo possa contribuire a far uscire l’arte dal discorso elitario in cui spesso appare rinchiusa. La prima uscita è stata realizzata da Matteo Fato, che ha voluto donare una prima introduzione al disegno. Quella successiva è stata affidata, appunto, a Stampone, che ha ideato un vero e proprio gioco da tavolo per tutte le età, con lo scopo di costruire una prima alfabetizzazione sull’arte contemporanea. In questo periodo, tra le altre cose, sto poi collaborando con Ludovico Pratesi e Chiara Pirozzi alla scrittura di un libro che affronta la questione del rapporto fra l’arte contemporanea e l’identità nazionale. Infine, non smetto mai di cercare un posto nel mondo».   

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