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A un passo dall’essere
Progetti e iniziative
Meglio forse dire “essere non essere”, come titola Giulio Paolini la sua mostra al Macro. Dove le opere riempiono lo spazio con assoluto distacco. Mettendo in scena, con quella sospensione che solo l’artista torinese è in grado di realizzare, l’illusorietà dell’esistenza. Compresa la propria e di chi guarda l’opera. In un eterno gioco di rimandi, dove il disegno si conferma l’elemento intellettuale e primario del lavoro
“Essere o non essere”, esposizione di Giulio Paolini al Macro per l’ultima curatela di Bartolomeo Pietromarchi, è un percorso visivo preciso, senza inutili ammiccamenti estetici, che si snoda attraverso quattordici lavori (datati dal 1997 al 2013) e ritmato come una partitura musicale che comincia con l’adagio di Delfo per concludersi, con un perfetto “crescendo rossiniano”, con il “fortissimo” dell’ultima sala che diventa l’ideale teatro dell’inedito lavoro “site-specific” L’autore che credeva di esistere (sipario: buio in sala).
Giulio Paolini è
uno di quegli artisti che realizzano delle opere che costringono lo
spettatore a fermarsi per oltrepassare con gli occhi della mente la
soglia della percezione. Entrare nel suo lavoro è un po’ come
entrare nel suo immaginario, nella banca-dati del suo cervello in cui
mi piace pensare che si conservino, come in un archivio, le immagini,
le iconografie e i suoi temi che ritornano costanti: il doppio, la
soglia, l’osservare dal di fuori e la bellezza fredda del marmo
bianco di winkelmaniana memoria ripreso dalla statuaria ottocentesca,
che formano quella particolare e precisa estetica che segna tutta la
sua opera e che viene continuamente ripensata e modulata nei suoi
lavori.
L’Arte classica e
le sue suggestioni estetiche sono certamente un punto di partenza per
Paolini, ma è un classicismo costantemente filtrato
dall’Illuminismo, dalla ragione, dal pensiero analitico ed è per
questo che ogni sua singola opera è un mistero che si ripete ogni
volta. È un’epifania che si concretizza in un equilibrio formale
così perfetto da dare l’illusione dell’atemporalità. Le sue
opere riempiono lo spazio con assoluto distacco, sono le
rappresentazioni perfette dell’illusorietà dell’esistenza e
l’artista esiste, o meglio, ha l’impressione di esistere
attraverso la realizzazione del lavoro. Quindi, mai titolo poteva
essere più perfetto di “Essere o non essere” perché l’artista
da sempre si interroga non solo sulla sua esistenza ma anche sul
“rapporto simmetrico e complementare autore/spettatore…”.
La prima opera che
accoglie il visitatore è Delfo (IV)
del 1997 – quarta variante di un tema avviato nel 1965, anno in cui
introduce la fotografia nel suo lavoro – in cui Paolini rappresenta
l’artista sia come creatore che come primo spettatore dell’opera
che, superando la sua oggettualità, diventa idea e progetto. In
questa versione l’immagine dell’artista affacciata al balcone
della sua abitazione è inserita all’interno dell’ingrandimento
della fotografia stessa in corrispondenza dell’inquadratura della
finestra e la prospettiva è incongruamente ribaltata dall’interno
all’esterno, creando quindi uno spiazzamento visivo fra
l’osservatore, ovvero l’artista e il pubblico.
Dagli anni Ottanta
Paolini indaga la
tematica dell’allestimento come
elemento fondamentale del processo creativo, infatti, secondo
l’artista, per far arrivare il messaggio allo spettatore nel modo
corretto è necessario organizzare lo spazio espositivo con un
preciso criterio visivo. Il secondo lavoro
Big Bang
del 1997-98 è la rappresentazione di un interrogativo che comprende
non solo il concetto di fruizione dell’opera, ma anche la sua
genesi, una sedia, due cubi di Plexiglas sovrapposti, tele bianche,
faretti e fogli di carta appallottolati e sparpagliati tutt’intorno
raccontano sia il momento della creazione che il luogo della
creazione, l’atelier dell’artista rappresentato da un modellino
di cavalletto esposto all’interno del cubo più grande. Essere
o non essere del 1994-95 è l’opera
che da il titolo alla mostra ed è una grande scacchiera a terra
fatta di tele, alcune ci mostrano solo la loro superficie bianca e
intonsa, come fossero tante possibili finestre aperte sulle infinite
possibilità della creazione, mentre altre sono orientate al recto in
una sorta di negazione di una possibilità di rappresentazione ma
che, allo stesso tempo, ci svelano il segreto della loro esistenza,
la loro parte segreta. Al centro due figure maschili sono fotografate
dall’alto a grandezza naturale, uno disegna e l’altro osserva il
foglio su cui sta per nascere l’immagine. Il momento della
creazione, il disegno come elemento intellettuale e primario
dell’opera sono i temi che ricorrono frequenti nelle opere di
Paolini e poi la squadratura che ci rimanda al suo primo lavoro del
1960 Disegno geometrico in
cui la superficie bianca di una tela dipinta presentava solo i segni
della squadratura. La visualizzazione del percorso creativo
dell’artista si dispiega così davanti ai nostri occhi apparendo e
scomparendo fra le tessere di questa scacchiera virtuale che ci
racconta lo svolgersi spesso accidentato del lavoro creativo.
Nella terza sala ben
quattro lavori, che hanno come filo conduttore l’immagine della
mano dell’artista mentre disegna, sono riuniti intorno all’opera
del 1992 Contemplator enim
una struttura di plexiglas che si dispiega come un paravento in cui
alle due estremità sono riprodotte le figure di due “valet de
chambre” in marsina. Il paravento ha delle aperture rettangolari
come fossero i vuoti lasciati dall’assenza delle tele in una
quadreria. Il valletto è una delle figure “simbolo”
dell’iconografia di Paolini, personaggio che ben rappresenta la
presenza/assenza con il suo esserci ma allo stesso tempo non esserci,
un servo di scena muto che apre e chiude il sipario della
rappresentazione. Sul soffitto al centro della composizione sono
appese un paio di scarpe da ballo maschili, ci mostrano un passo di
danza impossibile e trattengono dei fogli da disegno bianchi che
scendono in verticale e loro si che sembrano danzare. L’allegoria
dello studio e della creazione è ben rappresentata
dall’installazione nell’ultima stanza, L’autore
che credeva di esistere (sipario: buio in sala),
in cui gli strumenti del lavoro, fogli, matita, immagini, sono tutti
presenti ma l’autore è scomparso senza lasciare trace di se. Lo
vediamo solo ripreso dall’alto mentre disegna con la matita
conficcata sul piano del tavolo. Al centro della sala espositiva il
tavolo da lavoro è invaso da una sorta di terremoto cartaceo che
rappresenta i documenti, le immagini e i manoscritti che formano la
selezione dei materiali che formano la banca dati dell’artista
mentre, con un sorprendente effetto avvolgente sulla vasta parete che
fronteggia l’installazione, una sorta di quadreria cieca non ci
trasmette nessun messaggio visivo dato che le tele sono vuote, prive
di immagini che invece vengono proiettate sul muro, con un grafismo
volutamente poco chiaro in una felice sovrapposizione fra il prima e
il dopo, fra la realtà e l’immaginazione, che annulla
completamente la verticalità dello scorrere del tempo oltre che la
nostra già labile percezione della realtà.