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Zetta Antsakli / Romana Zambon – Il passato alla luce del presente
In un connubio tra passato e presente Italia e Grecia si incontrano grazie alle immagini di Zetta Antsakli e Romana Zambon in una mostra a cura di Roberto Mutti.
Comunicato stampa
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IL PASSATO ALLA LUCE DEL PRESENTE
Isorropia Homegallery, Kourd Gallery e Federica Ghizzoni Gallery sono liete di presentare le opere di Zetta Antsakli e Romana Zambon in “Il passato alla luce del presente” a cura di Roberto Mutti presso l’Oratorio della Passione nella Basilica di Sant’Ambrogio, Milano.
In un connubio tra passato e presente, Italia e Grecia si incontrano, per raccontare le rovine della nostra storia alla luce del medium fotografico ed esaltarne la bellezza.
In scena le “finestre fotografiche” aperte su un mondo che non c’è più, rimasto in mistero arcaico, di Zetta Antsakli e Romana Zambon, che pur lontane si incontrano.
Di loro, il curatore Roberto Mutti scrive:
“Oggi guardiamo le rovine lasciateci da una civiltà antica eppure mai dimenticata e intuiamo che quelle pietre, quelle colonne, quei monumenti ancora ci parlano e lo fanno lasciandoci messaggi nascosti nelle stesse parole che li definiscono. Bellissima è l’origine del termine tempio che deriva dal verbo témno, tagliare, e indica una porzione del cielo che viene idealmente individuata e poi proiettata sulla terra stabilendo un audace rapporto fra alto e basso, fra spirito e materia fino a delineare così un recinto del sacro. Oggi sono gli strumenti dell’arte a poter ripercorrere quelle antiche, affascinanti tracce: è questo il senso profondo del lavoro con cui Zetta Antsakli getta uno sguardo carico di nuova consapevolezza sui siti archeologici greci. Non li osserva come intoccabili reperti museali, non li rianima come in certe asettiche ricostruzioni ideali ma si confronta dialetticamente con loro usando i tubi fluorescenti del neon come elementi capaci di rapportarsi con la maestosità del passato per conferirgli una vitalità attuale ancora una volta implicita, per uno strano gioco di parole, nello stesso termine neon, nuovo.”
“Per gli antichi Greci il teatro era il luogo dove tutti i concittadini si ritrovavano per assistere al rito del rispecchiamento della loro realtà, delle loro paure più profonde, dei loro sogni e dei loro incubi. Tutti sapevano che quando veniva messo in scena non era la realtà ma ne conservava la parvenza perché ne era una rappresentazione. Trasformato spesso nella sua versione più edulcorata, l’intrattenimento, il teatro può perdere la sua efficacia catartica ma se affidato a mani esperte riacquista una potenza narrativa che si carica di un affascinante mistero.
Romana Zambon ama gli spazi liberi perché le consentono di ampliare i confini della sua fantasia così quando si è trovata di fronte al bianco abbacinante delle cave ha subito intuito di doverle trasfigurare fino a farle approdare a una dimensione surreale dove la realtà e l’immaginazione si sovrappongono fino a identificarsi. Ha così creato fotografie caratterizzate dall’assoluta mancanza di figure umane e da tre elementi in dialogo stretto fra loro: il cielo, più volte cangiante, insegue all’orizzonte la linea del mare e incombe curioso sulla scena; le pietre, caratterizzate dai tagli decisi che le attraversano come ferite, sono disposte spontaneamente a semicerchio come per valorizzare il palco naturale su cui si alternano come apparizioni ora massi dalle forme abbozzate ora figure emblematiche tutte da interpretare”.
Zetta Antsakli. ARCHEON – NEON a cura di Roberto Mutti
Oggi guardiamo le rovine lasciateci da una civiltà antica eppure mai dimenticata e intuiamo che quelle pietre, quelle colonne, quei monumenti ancora ci parlano e lo fanno lasciandoci messaggi nascosti nelle stesse parole che li definiscono.
Bellissima è l’origine del termine tempio che deriva dal verbo témno, tagliare, e indica una porzione del cielo che viene idealmente individuata e poi proiettata sulla terra stabilendo un audace rapporto fra alto e basso, fra spirito e materia fino a delineare così un recinto del sacro.
Oggi sono gli strumenti dell’arte a poter ripercorrere quelle antiche, affascinanti tracce: è questo il senso profondo del lavoro con cui Zetta Antsakli getta uno sguardo carico di nuova consapevolezza sui siti archeologici greci.
Non li osserva come intoccabili reperti museali, non li rianima come in certe asettiche ricostruzioni ideali ma si confronta dialetticamente con loro usando i tubi fluorescenti del neon come elementi capaci di rapportarsi con la maestosità del passato per conferirgli una vitalità attuale ancora una volta implicita, per uno strano gioco di parole, nello stesso termine neon, nuovo.
Le forme geometriche riacquistano il loro potere archetipo: un triangolo si insinua fra gli elementi architettonici indicando possibili rapporti fra punti diversi e lontani, una linea attraversa come una freccia scoccata da un arco l’intera fila di un colonnato, un’altra cala dall’alto e colpisce il terreno gettando tutto intorno un bagliore improvviso.
Siamo immersi in un momento strano, quello che definisce il confine fra la notte che sta allontanandosi pian piano e il giorno che avanza lentamente, così tutto è immerso in un’atmosfera sospesa quasi cristallina dove l’arte, l’architettura, la filosofia convergono in una intrigante commistione.
Si può così osservare il brillio di una scala posta fra le gradinate di un teatro (e, come in Eraclito, non si sa se scenda o salga perché “identica è la via all’insù e all’ingiù”), apprezzare la perfezione del cerchio che indica nella sua stessa natura sia la staticità che il movimento, sorprenderci di fronte alle linee curve che si avvolgono attorno allo slancio delle colonne a ribadire l’antica intuizione dell’eterno ritorno.
E guardare, infine, l’installazione essenziale e pungente che, ridefinendo i bordi delle porte d’ingresso di un teatro, sembra invitarci a oltrepassare la soglia oltre la quale si può provare scoprire se stessi.
Romana Zambon. Al centro della scena a cura di Roberto Mutti
Per gli antichi Greci il teatro era il luogo dove tutti i concittadini si ritrovavano per assistere al rito del rispecchiamento della loro realtà, delle loro paure più profonde, dei loro sogni e dei loro incubi. Tutti sapevano che quando veniva messo in scena non era la realtà ma ne conservava la parvenza perché ne era una rappresentazione.
Trasformato spesso nella sua versione più edulcorata, l’intrattenimento, il teatro può perdere la sua efficacia catartica ma se affidato a mani esperte riacquista una potenza narrativa che si carica di un affascinante mistero.
Romana Zambon ama gli spazi liberi perché le consentono di ampliare i confini della sua fantasia così quando si è trovata di fronte al bianco abbacinante delle cave ha subito intuito di doverle trasfigurare fino a farle approdare a una dimensione surreale dove la realtà e l’immaginazione si sovrappongono fino a identificarsi. Ha così creato fotografie caratterizzate dall’assoluta mancanza di figure umane e da tre elementi in dialogo stretto fra loro: il cielo, più volte cangiante, insegue all’orizzonte la linea del mare e incombe curioso sulla scena; le pietre, caratterizzate dai tagli decisi che le attraversano come ferite, sono disposte spontaneamente a semicerchio come per valorizzare il palco naturale su cui si alternano come apparizioni ora massi dalle forme abbozzate ora figure emblematiche tutte da interpretare.
Di chi è quel volto che sembra affiorare dal nulla ed esibisce un’espressione enigmatica, a quale mito si richiama il cavallo senza zampe né coda che pure conserva, pur nell’immobilità, una fierezza antica?
Romana Zambon conosce bene il valore del mistero e l’importanza di non svelarlo: si limita a lasciare ai suoi interlocutori labili tracce che ognuno utilizzerà per evocare il volto ermetico della divinità oracolante di Delfi o quello gelido e sprezzante di Dioniso, i cavalli alati posti a guardia di Tarquinia o la statua cava dell’inganno ordito da Odisseo. Perché al centro della scena si mostra quanto labile sia il confine fra il vero e l’ingannevole, il reale e l’immaginario, l’esistente e l’artificioso. Proprio come la fotografia che tanto più è frutto di grande creatività quanto più svela il suo meraviglioso allontanarsi dal vero.
Romana Zambon ama gli spazi liberi perché le consentono di ampliare i confini della sua fantasia: di fronte allo spettacolo delle cave ha scelto di trasfigurarle per approdare a una dimensione surreale dove realtà e immaginazione si sovrappongono fino a identificarsi.
Ha così creato fotografie caratterizzate da tre elementi: il cielo cangiante che incombe sulla scena, le pietre disposte a semicerchio e il palco naturale su cui si alternano come apparizioni ora massi dalle forme abbozzate ora figure emblematiche tutte da interpretare.
BIO ZETTA ANTSAKLI
Nata e cresciuta ad Atene, Zetta studia fotografia affiancando due acclamati fotografi: Andreas Smaragdis e Palton Rivellis.
Si è distinta in diversi premi e competizioni a livello internazionale e il suo lavoro è stato esposto in occasione di personali e collettive in Grecia e all’estero.
Le opere di Antsakli sono parte di importanti collezioni elleniche, europee ed americane; inoltre si registra la presenza all’interno della raccolta del Ministro per gli Affari Esteri della Grecia e presso l’Aeroporto Internazionale di Atene
Nel 2013 e nel 2016 Zetta Antsakli ha partecipato con la Kourd Gallery di Atene alla MIA PHOTO Fair di Milano.
BIO ROMANA ZAMBON
E’ cominciata con alcune partecipazioni ad aste di charity la carriera di fotografa di Romana Zambon, milanese d’adozione, architetto e amante della fotografia.
“Sono sempre stata attratta dalla forza del colore che associo a vari stati d’animo” afferma Romana quando parla della sua passione per la fotografia che ha trasformato in una professione e continua spiegando che “questo elemento, insieme all’armonia delle forme, colpisce la mia attenzione e la trasforma in scatto, in istante, in fotografia”.
La sua fotografia Senza titolo #17 è stata una delle 15 opere selezionate da BNL per A curator’s guide, al MIA PHOTO Fair 2017.
Isorropia Homegallery, Kourd Gallery e Federica Ghizzoni Gallery sono liete di presentare le opere di Zetta Antsakli e Romana Zambon in “Il passato alla luce del presente” a cura di Roberto Mutti presso l’Oratorio della Passione nella Basilica di Sant’Ambrogio, Milano.
In un connubio tra passato e presente, Italia e Grecia si incontrano, per raccontare le rovine della nostra storia alla luce del medium fotografico ed esaltarne la bellezza.
In scena le “finestre fotografiche” aperte su un mondo che non c’è più, rimasto in mistero arcaico, di Zetta Antsakli e Romana Zambon, che pur lontane si incontrano.
Di loro, il curatore Roberto Mutti scrive:
“Oggi guardiamo le rovine lasciateci da una civiltà antica eppure mai dimenticata e intuiamo che quelle pietre, quelle colonne, quei monumenti ancora ci parlano e lo fanno lasciandoci messaggi nascosti nelle stesse parole che li definiscono. Bellissima è l’origine del termine tempio che deriva dal verbo témno, tagliare, e indica una porzione del cielo che viene idealmente individuata e poi proiettata sulla terra stabilendo un audace rapporto fra alto e basso, fra spirito e materia fino a delineare così un recinto del sacro. Oggi sono gli strumenti dell’arte a poter ripercorrere quelle antiche, affascinanti tracce: è questo il senso profondo del lavoro con cui Zetta Antsakli getta uno sguardo carico di nuova consapevolezza sui siti archeologici greci. Non li osserva come intoccabili reperti museali, non li rianima come in certe asettiche ricostruzioni ideali ma si confronta dialetticamente con loro usando i tubi fluorescenti del neon come elementi capaci di rapportarsi con la maestosità del passato per conferirgli una vitalità attuale ancora una volta implicita, per uno strano gioco di parole, nello stesso termine neon, nuovo.”
“Per gli antichi Greci il teatro era il luogo dove tutti i concittadini si ritrovavano per assistere al rito del rispecchiamento della loro realtà, delle loro paure più profonde, dei loro sogni e dei loro incubi. Tutti sapevano che quando veniva messo in scena non era la realtà ma ne conservava la parvenza perché ne era una rappresentazione. Trasformato spesso nella sua versione più edulcorata, l’intrattenimento, il teatro può perdere la sua efficacia catartica ma se affidato a mani esperte riacquista una potenza narrativa che si carica di un affascinante mistero.
Romana Zambon ama gli spazi liberi perché le consentono di ampliare i confini della sua fantasia così quando si è trovata di fronte al bianco abbacinante delle cave ha subito intuito di doverle trasfigurare fino a farle approdare a una dimensione surreale dove la realtà e l’immaginazione si sovrappongono fino a identificarsi. Ha così creato fotografie caratterizzate dall’assoluta mancanza di figure umane e da tre elementi in dialogo stretto fra loro: il cielo, più volte cangiante, insegue all’orizzonte la linea del mare e incombe curioso sulla scena; le pietre, caratterizzate dai tagli decisi che le attraversano come ferite, sono disposte spontaneamente a semicerchio come per valorizzare il palco naturale su cui si alternano come apparizioni ora massi dalle forme abbozzate ora figure emblematiche tutte da interpretare”.
Zetta Antsakli. ARCHEON – NEON a cura di Roberto Mutti
Oggi guardiamo le rovine lasciateci da una civiltà antica eppure mai dimenticata e intuiamo che quelle pietre, quelle colonne, quei monumenti ancora ci parlano e lo fanno lasciandoci messaggi nascosti nelle stesse parole che li definiscono.
Bellissima è l’origine del termine tempio che deriva dal verbo témno, tagliare, e indica una porzione del cielo che viene idealmente individuata e poi proiettata sulla terra stabilendo un audace rapporto fra alto e basso, fra spirito e materia fino a delineare così un recinto del sacro.
Oggi sono gli strumenti dell’arte a poter ripercorrere quelle antiche, affascinanti tracce: è questo il senso profondo del lavoro con cui Zetta Antsakli getta uno sguardo carico di nuova consapevolezza sui siti archeologici greci.
Non li osserva come intoccabili reperti museali, non li rianima come in certe asettiche ricostruzioni ideali ma si confronta dialetticamente con loro usando i tubi fluorescenti del neon come elementi capaci di rapportarsi con la maestosità del passato per conferirgli una vitalità attuale ancora una volta implicita, per uno strano gioco di parole, nello stesso termine neon, nuovo.
Le forme geometriche riacquistano il loro potere archetipo: un triangolo si insinua fra gli elementi architettonici indicando possibili rapporti fra punti diversi e lontani, una linea attraversa come una freccia scoccata da un arco l’intera fila di un colonnato, un’altra cala dall’alto e colpisce il terreno gettando tutto intorno un bagliore improvviso.
Siamo immersi in un momento strano, quello che definisce il confine fra la notte che sta allontanandosi pian piano e il giorno che avanza lentamente, così tutto è immerso in un’atmosfera sospesa quasi cristallina dove l’arte, l’architettura, la filosofia convergono in una intrigante commistione.
Si può così osservare il brillio di una scala posta fra le gradinate di un teatro (e, come in Eraclito, non si sa se scenda o salga perché “identica è la via all’insù e all’ingiù”), apprezzare la perfezione del cerchio che indica nella sua stessa natura sia la staticità che il movimento, sorprenderci di fronte alle linee curve che si avvolgono attorno allo slancio delle colonne a ribadire l’antica intuizione dell’eterno ritorno.
E guardare, infine, l’installazione essenziale e pungente che, ridefinendo i bordi delle porte d’ingresso di un teatro, sembra invitarci a oltrepassare la soglia oltre la quale si può provare scoprire se stessi.
Romana Zambon. Al centro della scena a cura di Roberto Mutti
Per gli antichi Greci il teatro era il luogo dove tutti i concittadini si ritrovavano per assistere al rito del rispecchiamento della loro realtà, delle loro paure più profonde, dei loro sogni e dei loro incubi. Tutti sapevano che quando veniva messo in scena non era la realtà ma ne conservava la parvenza perché ne era una rappresentazione.
Trasformato spesso nella sua versione più edulcorata, l’intrattenimento, il teatro può perdere la sua efficacia catartica ma se affidato a mani esperte riacquista una potenza narrativa che si carica di un affascinante mistero.
Romana Zambon ama gli spazi liberi perché le consentono di ampliare i confini della sua fantasia così quando si è trovata di fronte al bianco abbacinante delle cave ha subito intuito di doverle trasfigurare fino a farle approdare a una dimensione surreale dove la realtà e l’immaginazione si sovrappongono fino a identificarsi. Ha così creato fotografie caratterizzate dall’assoluta mancanza di figure umane e da tre elementi in dialogo stretto fra loro: il cielo, più volte cangiante, insegue all’orizzonte la linea del mare e incombe curioso sulla scena; le pietre, caratterizzate dai tagli decisi che le attraversano come ferite, sono disposte spontaneamente a semicerchio come per valorizzare il palco naturale su cui si alternano come apparizioni ora massi dalle forme abbozzate ora figure emblematiche tutte da interpretare.
Di chi è quel volto che sembra affiorare dal nulla ed esibisce un’espressione enigmatica, a quale mito si richiama il cavallo senza zampe né coda che pure conserva, pur nell’immobilità, una fierezza antica?
Romana Zambon conosce bene il valore del mistero e l’importanza di non svelarlo: si limita a lasciare ai suoi interlocutori labili tracce che ognuno utilizzerà per evocare il volto ermetico della divinità oracolante di Delfi o quello gelido e sprezzante di Dioniso, i cavalli alati posti a guardia di Tarquinia o la statua cava dell’inganno ordito da Odisseo. Perché al centro della scena si mostra quanto labile sia il confine fra il vero e l’ingannevole, il reale e l’immaginario, l’esistente e l’artificioso. Proprio come la fotografia che tanto più è frutto di grande creatività quanto più svela il suo meraviglioso allontanarsi dal vero.
Romana Zambon ama gli spazi liberi perché le consentono di ampliare i confini della sua fantasia: di fronte allo spettacolo delle cave ha scelto di trasfigurarle per approdare a una dimensione surreale dove realtà e immaginazione si sovrappongono fino a identificarsi.
Ha così creato fotografie caratterizzate da tre elementi: il cielo cangiante che incombe sulla scena, le pietre disposte a semicerchio e il palco naturale su cui si alternano come apparizioni ora massi dalle forme abbozzate ora figure emblematiche tutte da interpretare.
BIO ZETTA ANTSAKLI
Nata e cresciuta ad Atene, Zetta studia fotografia affiancando due acclamati fotografi: Andreas Smaragdis e Palton Rivellis.
Si è distinta in diversi premi e competizioni a livello internazionale e il suo lavoro è stato esposto in occasione di personali e collettive in Grecia e all’estero.
Le opere di Antsakli sono parte di importanti collezioni elleniche, europee ed americane; inoltre si registra la presenza all’interno della raccolta del Ministro per gli Affari Esteri della Grecia e presso l’Aeroporto Internazionale di Atene
Nel 2013 e nel 2016 Zetta Antsakli ha partecipato con la Kourd Gallery di Atene alla MIA PHOTO Fair di Milano.
BIO ROMANA ZAMBON
E’ cominciata con alcune partecipazioni ad aste di charity la carriera di fotografa di Romana Zambon, milanese d’adozione, architetto e amante della fotografia.
“Sono sempre stata attratta dalla forza del colore che associo a vari stati d’animo” afferma Romana quando parla della sua passione per la fotografia che ha trasformato in una professione e continua spiegando che “questo elemento, insieme all’armonia delle forme, colpisce la mia attenzione e la trasforma in scatto, in istante, in fotografia”.
La sua fotografia Senza titolo #17 è stata una delle 15 opere selezionate da BNL per A curator’s guide, al MIA PHOTO Fair 2017.
18
marzo 2019
Zetta Antsakli / Romana Zambon – Il passato alla luce del presente
Dal 18 al 24 marzo 2019
archeologia
architettura
fotografia
arte contemporanea
architettura
fotografia
arte contemporanea
Location
EX ORATORIO DELLA CONFRATERNITA DELLA PASSIONE – BASILICA DI SANT’AMBROGIO
Milano, Piazza Sant'ambrogio, (Milano)
Milano, Piazza Sant'ambrogio, (Milano)
Orario di apertura
Da Martedì a Domenica ore 15.00 - 20.00
Vernissage
18 Marzo 2019, Su invito
Autore
Curatore