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28
gennaio 2014
L’intervista/Silvia Camporesi Colorare è far rivivere
Personaggi
È nota soprattutto come fotografa. Ma Silvia Camporesi usa anche il pennello. Con un obiettivo molto preciso: far tornare in vita luoghi morti, abbandonati. E il tutto fa parte di un progetto molto ambizioso sostenuto da quindici collezionisti. Ma l’artista romagnola è anche altro. Una figura intensa e sfaccettata, come emerge da questa intervista
Circondata da luoghi abbandonati – reali e immaginari – Silvia Camporesi (Forlì 1973), che di recente si è aggiudicata il Premio Fabbri per le Arti Contemporanee racconta “l’azione” che si appresta a fare nella sua personale Souvenir Universo da Z2O di Roma. Davanti a lei, delle matite colorate sono allineate sul lungo tavolo bianco, in attesa del momento in cui verranno usate. L’artista è pronta a colorare a mano le fotografie stampate in bianco e nero. Un modo per ridare vita a luoghi, paesi abbandonati. E nulla è affidato al caso, meno che mai il titolo di questa mostra, come spiega la stessa Camporesi: «Souvenir e universo sono due parole che si anagrammano a vicenda, quindi hanno le stesse lettere. Ho giocato sul senso con l’idea di creare delle cartoline, dei souvenir di luoghi che non appartengono ad alcuna specifica identità. Un universo inteso come un luogo che è tutti i luoghi, o nessuno».
Hai cominciato realizzando una sorta di mappatura di luoghi privi di vita?
«Sì, una sorta di viaggio in Italia alla Goethe e alla Ghirri, per paesi e luoghi abbandonati che sono d’interesse. Alcuni kirigami (tecnica orientale di intaglio e piegatura da cui si ottengono forme tridimensionali n.d.r.), in particolare, sono dedicati al paese di Apice, nel beneventano, abbandonato dopo un terremoto, ma che, in realtà, è rimasto intatto nelle pareti e negli intonaci. Sembra il set di un film con le case che danno la sensazione di esser state abitate fino a qualche giorno prima. In alcuni casi c’era ancora la tavola con alcuni piatti. In mostra sono esposte anche le prime dieci foto di questo lavoro, Beautiful places, in cui ho iniziato l’intervento di coloratura manuale. Foto che stampo in bianco e nero e poi coloro a mano, con il pensiero che sono luoghi abbandonati e hanno perso la loro identità, ma colorandoli in qualche modo gli ridò vita. Si tratta di una mappatura poetica, non geografica. Sono appena stata in Sicilia, oggi colorerò le foto di Poggioreale e sto lavorando su Pianosa, che porterò alla prossima edizione di Fotografia Europea. Poi piano piano attraverserò tutta l’Italia. È un lungo progetto di crowdfunding in cui quindici collezionisti metteranno ciascuno una quota in cambio di un’opera. Questo mi permette di creare questo grande progetto che finirà in un libro in cui toccherò tutte le regioni italiane».
A proposito di fotografia colorata a mano, viene in mente la tradizione che accompagna la storia della fotografia stessa, arrivando a tempi abbastanza recenti. Nel recupero che fai c’è consapevolezza di questa pratica d’altri tempi?
«Ho fatto una ricerca sulla fotografia colorata a mano. Fondamentalmente si coloravano i ritratti delle persone e la coloratura era molto evidente. Anche perché quando si va a colorare un volto, è molto facile non trovare il colore giusto per la pelle. Inoltre, si usavano le aniline e tecniche che rendevano i colori molto brillanti. A me, invece, interessa rendere questo intervento nvisibile».
L’incontro con il kirigami, in particolare, fa parte dell’esperienza giapponese di qualche anno fa. Giusto?
«Sono stata in Giappone e ho conosciuto in generale la cultura giapponese, alla quale sono molto legata. Poi è successo che qualche anno fa sognai di fare un libro per bambini pop-up. Era un sogno così vivido che lo trascrissi tra le idee da poter sviluppare nel futuro. A distanza di mesi, riguardando quel quaderno realizzai che era il momento di fare un pop-up. Sono stata sempre affascinata, come dimostra questa mostra, dalle possibili diramazioni della fotografia. La fotografia come punto di partenza, non come punto d’arrivo. Ma per tornare al pop-up, facendo una ricerca ho scoperto che a Forlì abita Massimo Missiroli, il maggiore esperto italiano di pop-up engineering, conosciuto a livello internazionale. Missiroli è anche il mio vicino di casa! Mi ha fatto lezione per alcuni mesi, spiegandomi le tecniche del pop-up. Tecniche difficilissime che non sono facilmente applicabili alla fotografia, perché bisogna prevedere la prospettiva. In queste lezioni sono venuta a conoscenza del kirigami (kiri= taglio e gami = carta), tecnica giapponese che non prevede, come il pop-up, asportazioni o aggiunte. Stendendo la carta torna tutto normale, è solo nella piegatura che viene fuori l’architettura. Ho trovato che questa tecnica fosse ideale in una superficie fotografica, perché permette su soggetti generali dove non c’è un accadimento – paesaggi e luoghi fatiscenti – di sottolineare un particolare con la tridimensionalità. Concettualmente trovo che sia un aspetto affascinante il fatto di trovare la terza dimensione della fotografia».
Facciamo un passo indietro, come avviene il tuo incontro con la fotografia dopo la laurea in filosofia? Qual è stato il punto d’unione tra questi due mondi?
«In realtà me lo chiedo sempre! Naturalmente ho dovuto affrontare tutta la parte di conoscenza del mezzo, sia dal punto di vista tecnico che della storia della fotografia. Ma studiando filosofia ho accumulato degli strumenti di elaborazione che, probabilmente, se avessi fatto l’accademia non avrei avuto. L’aspetto analitico mi porta sicuramente a guardare il mondo con un occhio di ricerca, in cui il rapporto domanda/risposta entra nel discorso artistico. Ad esempio il video del vulcano nasce dall’aver letto un libro del filosofo matematico Paolo Zellini, che è appunto Breve storia dell’infinito, in cui analizza situazioni reali, quotidiane, in cui è presente il concetto d’infinito».
Allora quali erano i tuoi mentori?
«Quando mi sono approcciata alla fotografia sicuramente una figura che mi ha sconvolto per la forza delle immagini, e anche per il suo andare controcorrente rispetto alla fotografia classica, è stata Diane Arbus. Poi è stata la volta di Ghirri, che non mi ha lasciato indifferente e non riesco a dimenticare, soprattutto nelle azioni manuali come la colorazione delle immagini. Nella fase concettuale, invece, l’autore di riferimento è sicuramente Jeff Wall per la metodologia di lavoro, il modo in cui trova un’immagine per strada, la disegna e, a distanza di anni, la riproduce e il suo concetto di finzione e realtà. Altri autori sono Thomas Demand e James Casebere».
All’inizio l’autoritratto era molto presente nel tuo lavoro. Quale era il tuo atteggiamento nell’utilizzo di questa formula?
«L’autoritratto è nato proprio nel momento in cui ho preso in mano la fotografia. È un tema che, come l’acqua, a tratti ritorna nella mia storia artistica. All’inizio si trattava anche di una questione di semplicità, per il fatto di avere me stessa sempre a disposizione. Poi, vedendo che riuscivo ad ottenere quello che avevo in mente, mi caricava molto. Per un certo periodo riguardava più un aspetto estetico, poi però è diventato un fatto molto personale. Soprattutto in Indizi Terrestri, un lavoro del 2004-2006, parlavo di una ricerca spirituale fatta attraverso un vero percorso filosofico di letture di libri sui mistici. Letture che provavo a riflettere su me stessa, interpretando figure di personaggi che avevo incontrato in questo percorso e che sentivo molto affini a quello che avrei voluto in quel momento. Quindi l’autoritratto era indispensabile, perché ero io stessa che stavo vivendo quel momento e anche concettualmente ero presente nel racconto. Più o meno è andata così fino al 2010, quando ho interpretato cinque donne ai confini della follia, tra cui Simone Weil. Ero ancora io la figura femminile nel video della corsa, Sifr (2011), ma in questo caso era stata una necessità, perché l’atleta che avrebbe dovuto correre nel video non si è presentata il giorno previsto per le riprese. Quello è stato l’ultimo gesto autoritrattista. Negli ultimi anni, poi, la figura umana sta scomparendo dalle mie immagini. Probabilmente tornerà, ma nel frattempo mi rendo conto di aver bisogno di un ossigeno dato dai luoghi. Queste peregrinazioni per l’Italia mi piacciono molto, la “paesologia” che sta venendo fuori. Per l’occasione sto leggendo un libro bellissimo di Franco Arminio, per l’appunto paesologo, che parla di paesi non cartolina, anonimi, e dell’atteggiamento di visita in questi luoghi. Un atteggiamento che capisco e ripropongo nel momento in cui vado a fotografare luoghi che sono addirittura abbandonati».
Quando arrivi in un luogo abbandonato cosa ti colpisce di più?
«Mi emoziona pensare la vita che c’è stata e che ad un certo punto si è interrotta. Anche se devo fare i conti con la fotografia, perché fino a quando sono in studio e posso combinare il modellino come mi piace i miei problemi sono di un certo tipo, cioè riuscire a fotografare quel luogo come ce l’ho in mente,. Ma quando sono sul campo – nel paese – devo tirar fuori delle immagini che funzionino. Quindi si pone tutta un’altra serie di problemi, tanto che non tutti i paesi che ho visitato saranno presenti nel libro. Alcuni, magari, li ho raggiunti anche con fatica per poi rimanere delusa nel trovare solo ruderi infotografabili. È un approccio visivo, emozionale ma anche razionale nel constatare, ad esempio, che se c’è il sole non posso fotografare e devo tornare più tardi, oppure se anche se c’è il sole non è importante, perché fotografo in bianco e nero e poi coloro manualmente»».
Letteratura e cinema entrano costantemente nel tuo lavoro, da Antonioni a Murakami.
«Non sono interessata ad un argomento in particolare, per esempio la politica o l’attualità, mi interessa di più la ricerca spirituale in senso lato. Per cui l’assioma di partenza è che tutto è materiale e si può trasformare in opera. Questo passaggio avviene attraverso i libri. È un metodo che ho creato probabilmente attraverso l’esperienza universitaria, dove era necessario lo studio e un certo tipo di pensiero».
A proposito di metodologia, facevi riferimento all’esercizio di prendere sempre appunti sui tuoi quaderni.
«Dato che sono una persona disordinata, nelle cose artistiche cerco di essere ordinata e ossessiva. Dal 2000 ho un diario nero, sempre lo stesso modello per una questione apotropaica, che si apre ogni anno con un titolo che è un po’ il mood di quell’anno. Quest’anno è “s-blocco”. Tutte le idee, i sogni, gli abbozzi di disegni, i disegni ecc. vengono segnati in quel diario e quando finisce l’anno, la prima cosa da fare nell’anno nuovo è guardare a ritroso tutte le idee che non sono state realizzate e portarle avanti. Ci sono idee che in dieci anni non sono ancora state realizzate, ma prima o poi lo saranno».