05 maggio 2014

Eccentricità emiliana

 
Fotografia Europea si apre quest'anno con un grandissimo omaggio a Luigi Ghirri. Siamo alle solite celebrazioni? No, perché da qui si parte per un percorso che porta a tutte le latitudini di uno sguardo che “vede infinito”, e trasversale. Ci abbiamo provato anche noi, vagabondando per le mostre alla ricerca delle loro “note a margine”. Per scoprire come una carrellata di “folli personaggi” si uniscono alla ricerca del tempo. Con l'aiuto della geografia

di

Luigi Ghirri, Atlante, 1973

La nona edizione del Festival Fotografia Europea, a Reggio Emilia, si intitola “Vedere Uno sguardo infinito”. Si mettono le mani direttamente sul fuoco dell’atto fotografico, con la volontà di portare l’atto quotidiano dello sguardo, quello in grado di vedere e non solo di guardare, altrove. 
Eppure cominciamo un lungo tour direttamente stando a casa, perché se come insegnava Rimbaud Je est un autre, allora Luigi Ghirri è l’alterità per eccellenza nella fotografia, probabilmente non solo europea. Partiamo da qui, dal fotografo di Scandiano che attraverso le immagini dell’Atlante, nel 1973, ha sovvertito l’idea di viaggio, che attraverso un Viaggio in Italia, con una serie di illustri colleghi, tra cui Gabriele Basilico, ha riscritto l’idea della penisola e che, come un altro grande emiliano, Franco Vaccari, ha compiuto una serie di Viaggi Minini, intorno ad una prospettiva che ha reso decisamente incantata. 
Luigi Ghirri, Marina di Ravenna, 1970

Per questo oggi le immagini di Luigi Ghirri affascinano così tanto il grande pubblico: primo, per il loro “assomigliare” agli scatti realizzati con gli “effetti” di Instagram; secondo perché Ghirri è riuscito a mettere l’atmosfera dei luoghi nelle sue immagini, e osservando Bologna, via Stalingrado, 1985, tutti (o per lo meno chi può conoscere un poco la zona) riesce a riconoscerne perfino gli odori. È proustiano Ghirri, peccato però che la mostra non gli renda completamente giustizia. Intendiamoci: l’allestimento è ottimo, le serie prese in considerazione cospicue, e il numero delle immagini vastissimo. Non è forse esaustiva come quella realizzata pochi mesi fa al MAXXI, ma poco ci manca. E così, ad un certo punto, decido di lasciarmi guidare quasi dalle didascalie, un’altra possibile chiave per leggere la mostra. Non sono “introduttive”, ma appartengono a quelle note “a piè pagina” in grado di raccontare forse di più che non facendo un’ennesima indigestione di immagini. É un po’ come guardare una mostra ad occhi chiusi, lasciandosi guidare da un autore espertissimo e colto, in grado di farci entrare in quel famoso “Vedere con sguardo infinito”. E così si scopre che il Ghirri che racconta, è lo stesso che si vede, e che nessuno meglio di lui ha saputo descrivere la poetica del proprio lavoro: “Ho cercato di non chiudermi in filoni o generi. Non ho cercato di fare delle fotografie, ma delle carte, delle mappe, che fossero contemporanemente delle fotografie”, scrive l’autore nel 1979.
Paolo Simonazzi, Cose ritrovate, Bomporto (Mo), 2006

Dieci anni più tardi, prima della sua improvvisa scomparsa (nel 1992) Ghirri parlava di un modo di fotografare che stravolgeva il pensiero degli “ecclesiastici delle immagini”: «L’idea del fantastico credo si adatti bene alla mia idea di paesaggio. Proprio all’interno di questa mutazione si può spiegare l’aura inquietante che abita luoghi e paesaggi…sapendo alla fine che quello che ci è dato di conoscere, raccontare, rappresentare, non è che una piccola smagliatura sulla superficie delle cose». 
E così dall’Emilia si parte, alla scoperta di quell’infinito sguardo che qui aleggia nel pensiero di un altro autore, che forse potremmo assumere come la chiave di volta per entrare dritti nel festival, in scena fino al prossimo 15 giugno. «Di una certa eccentricità padana si è parlato, negli anni, come di una leggenda. Tra le storie tramandate nel tempo le più insolite e bizzarre riguardano personaggi di straordinaria sensibilità, capaci di sentire le voci nelle notti di plenilunio, catturare le parole portate dal vento o trascritte in messaggi conservati in fondo ad un pozzo». Ecco l’introduzione, alla Galleria Parmeggiani, di Paolo Simonazzi e delle sue Cose Ritrovate. Ritrovate qui, nell’arco di pochi chilometri da Reggio Emilia, tra naif, burattinai, folli accumulatori, ambienti usciti da un film di Fellini (nel 2012 o 2013!)
Silvia Camporesi, dal progetto -Planasia- alla Sinagoga

Ecco lo sguardo all’infinito in un’altra direzione, nonostante per certi versi la famigliarità con l’universo arioso e allo stesso appannato di Ghirri restino anche qui, come restano nel bel progetto di Silvia Camporesi, a cura di Marinella Paderni, alla Sinagoga. 
Si chiama Planasia, ed è un’altra esplorazione italiana, ma stavolta un poco più a sud, in un luogo che è sia fantastico che, da sempre, un poco irreale: l’isola di Pianosa. L’artista forlivese, classe 1973, si è calata tout court in una realtà dove del tempo passato sono rimaste solo le rovine, in un film che ha scattato a colori, stampato in bianco e nero e riproposto ridipinto a mano a pastello, con i toni originali. Il progetto di Silvia Camporesi sembra voler prendere parte alla natura di Pianosa attraverso La giusta distanza. Un’eco che ricorda l’omonimo film di Carlo Mazzacurati, altro “folle personaggio” padano, ma del Veneto, che delle sue terre ha tracciato il profilo più oscuro, in questo caso raccontando la cronaca nera dal punto di vista di un giovane aspirante giornalista, reo di essersi calato nei fatti senza mantenere il “distacco” dalla notizia. 
Herbert List, ai Chiostri di San Domenico

Camporesi ci racconta un’isola che sembra stata abbandonata su due piedi, e lo fa con un processo pittorico che forza una resa “naturale”, ma che addolcisce i contorni del tempo, situandolo in un limbo dove non esiste passato e non c’è futuro: l’infinito della rovina. 
Herbert List, negli spazi dei Chiostri di San Domenico, è l’altro personaggio chiave di questo sguardo. 
“Nelle persone creative la tensione tra immagini le interiori e quelle esteriori, tra immaginazione e realtà, aumenta il bisogno di fare arte”. Così ci accoglie la mostra, a cura di Peer-Olaf Richter, un’invasione non solo di immagini di ogni genere, ma anche di corpi, dove il maschile ha un’estetica che più contemporanea non si può, esulando sia dalla pornografia mediata di Mapplethorpe che dall’esotismo del Barone Von Gloeden. I corpi di List, autore anche di un viaggio in Italia con i volti di Anna Magnani, Giorgio Morandi e anche di un giovanissimo Pier Paolo Pasolini a Roma, nel 1953, sono quelli della statuaria classica, che a loro volta però mantengono con il tempo passato solo un’aura “temporale”. Gli sguardi qui sono audaci, le pettinature vicinissime ai nostri giorni, le pose attuali: gli anni, anche in questo caso, hanno subito una dilatazione, e nella continua ricerca di mille soggetti differenti – problema “creativo” che è valso non pochi problemi al fotografo, quando era in vita – diventa anche in questo caso la ricerca di un’identità che pare sfuggire. Così come fugge dalla storia, nel parallelo tra le rovine greche e le macerie della Germania bombardata, segni di due epoche diverse per uno stesso risultato straniante, accostate in un’analogia paradossale. 
Herbert List, ai Chiostri di San Domenico

Usciamo ora però dal classico, per tornare all’Avanguardia. E tornare all’avanguardia ancora una volta significa tornare in Emilia, stavolta allo Spazio Gerra, dove è allestita una mostra decisamente particolare, intorno ad una delle tantissime band che hanno affollato la zona lungo tutto il corso del secondo Novecento, con punte di particolare proliferazione negli anni ’70 e ’80. 
Qui c’è in mostra “Annarella Benemerita Soubrette”, ovvero colei che ha affiancato in veste di musa e giullare uno dei gruppi musicali di punta della scena punk italiana, mai venuti meno alla loro “fedeltà alla linea”: i CCCP.
CCCP - Annarella Benemerita Soubrette, allo Spazio Gerra

Dal 1985 al 1989 circa, Annarella è ritratta da una miriade di fotografi “Senza nome e senza data”, e anche da Diego Cuoghi, Vittorio Catti, Rossana Tagliati e, pensa un po’, Luigi Ghirri. Perché vi raccontiamo anche di questa parte, che potrebbe non essere in tema con i precedenti “sguardi”? Perché anche in questo caso, dall’Emilia, arriva la sicurezza beffarda dei “punk-filosovietici”, scioltisi nel 1990, che annunciavano: «Darsi un abito è accettare un’univoca dimensione pubblica, una regola, inserirsi nella tradizione. (…) Dare vita a un abito è un’assurdità o è un’altra cosa, anzi due. È accettare la potenza del mondo, il regno della necessità. L’abito è la maschera ed è la maschera una volta indossata che comanda, che gestisce chi la indossa. È glorificare la potenza dell’individuo. Un narcisismo che ha bisogno di travestirsi continuamente per continuare ad esistere. Ciò che non è appare, ciò che appare non è. Lode alle soubrettes, vera coscienza acritica e inconsapevole del nostro tempo». 
Quale miglior modo per portare sul palco la propria musica arrabbiata, e rossa? E il cerchio qui si chiude, da una Reggio Emilia che, grazie a Fotografia Europea, si scopre decisamente più visionaria, anche se incantata e infinita. Come la strana “eccentricità” dei suoi artisti, poeti, musicisti. E Annarella, che oggi a Reggio ha un negozio di erboristeria.

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