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29
agosto 2014
L’intervista/Richard Nonas La forza del pensiero crudo
Personaggi
Antropologo di formazione ma artista per scelta, Richard Nonas realizza un’arte con la quale cerca di mostrare la complessità del reale. Che è più stratificato di quanto lui stesso possa pensare. E per il quale non esiste nessuna risposta semplice. Perché, come ha affermato Duchamp, “non esistono domande semplici”
Nella città che diede il natale al Vasari, Arezzo, una linea leggermente diagonale di blocchi di ferro taglia con impensabile leggerezza piazza Sant’Agostino. Il sagrato, luogo simbolo della continuazione della fede sembra subire un cambiamento. Semplici ed essenziali pezzi di ferro modificano radicalmente l’orientamento dell’abitare un luogo. Alle 13 la scuola elementare accanto alla chiesa apre i cancelli. Nel giro di pochi secondi cambiano i rumori, i colori, gli odori di uno spazio che non è più quello di ieri. La piazza è affollata da bambini che interagiscono spontaneamente con questa lunga linea di ferro: c’è chi salta ogni pezzo, chi si siede, chi attraversa lo spazio vuoto tra un frammento e l’altro, caricando quel piccolo quadrato di piazza di un nuovo senso. I cani sono attratti da questi nuovi oggetti che li costringono a percorsi insoliti. I ragazzi che frequentano la piazza alla sera hanno modificato le loro abitudini sfruttando i pezzi di ferro per le loro soste e osservando uno spazio consueto con una nuova attenzione. L’installazione – per Icastica 2014 (fino al 31/10) – è di Richard Nonas. Newyorkese, classe 1936, Antropologo di formazione, durante gli anni Sessanta abbandona gli strumenti dell’antropologia perché complici di una comprensione distorta della realtà e si dedica all’arte che rappresenta per lui una reale possibilità di riconoscere le complessità del mondo.
Con semplicità e rigorosa consapevolezza, le costruzioni di Nonas rendono possibile un confronto reale e chiaro con la realtà, che non viene modificata per esser osservata, ma viene completata per essere riconosciuta.
Per Icastica 2014 ti è stato proposto, inizialmente, di esporre anche al Museo Medievale. Perché hai rifiutato? Succede spesso di trovarti a rifiutare uno spazio?
«No, non spesso. Il mio compito è quello di trovare qualcosa di significativo da fare nello spazio propostomi. Mi chiedo cosa posso far succedere, cosa posso far diventare quel luogo. Non è mai una questione di buono o cattivo spazio, io sono disposto a lavorare in spazi che sento brutti o sbagliati. Il mio impegno è quello di far succedere qualcosa che valga la pena. In questo senso, non riuscivo a trovare un modo per fare accadere tutto ciò al Museo Medievale di Arezzo».
Ti possono aiutare video o fotografie degli spazi nei quali lavorerai?
«No, quasi mai. Le foto dello spazio non possono aiutarmi molto. Una foto mi mostra un posto diverso. Stranamente il video è ancor peggio. La vera domanda è: perché pensare che un video o una foto mi possano aiutare? Le immagini non sono dei luoghi, in qualche modo sono degli anti-luoghi. Il mio punto d’inizio è sempre quello che vedo con i miei occhi, quello che vedo di fronte a me e quello che mi circonda. La natura del mondo che osservo è sempre infinitamente complessa, diventa dunque cruciale originare il mio punto di vista in quella totalità. Perché ogni punto di vista, ogni filtro, cambia tutto».
Il punto d’inizio di cui ci parli è difficile da riconoscere, è difficile vedere con occhi liberi da contaminazioni di questo tipo.
«Non devi vedere attraverso, ma vedere e riconoscere. Da dove cominci dipende cosa vedrai. La migliore critica sull’arte è stata scritta da chi ha cominciato facendo due passi indietro, diversamente da quello che hanno fatto i loro colleghi».
È questo il modo con cui ti confronti con la realtà rispetto al tuo lavoro?
«Forse. C’è una frase, molto forte, di Bertold Brecht che arriva a me da Walter Benjamin e Hannah Arendt ed è: “crude thinking”, ovvero pensieri che cominciano da una posizione meno teorica possibile. Questo è il modo con il quale mi confronto con la realtà».
Tutto questo è quello che vuoi raccontare con il tuo lavoro? Cos’è che intendi comunicare con le tue installazioni?
«L’unica cosa che voglio dire con qualsiasi cosa che faccio è la semplice affermazione che il mondo è più complesso di come lo penso. E non solo più complesso di come lo penso, ma più complesso di come potrei pensarlo. L’arte forte evidenzia tutto ciò. Il “pensiero crudo”. Nessuna semplice risposta, come disse Duchamp, perché non esistono domande semplici».
Quindi è bene porsi in mezzo, fra la domanda e la risposta?
«Né le domande né le risposte sono il punto. Il lavoro, l’incarico, il compito sono il punto. Il mio compito finale è dare vita a questa piazza. Il mio compito iniziale, dunque, è quello di riconoscere che manipolando lo spazio potrei arrivare a creare una certa presenza, un certo potere. Io non devo risolvere lo spazio ma, semplicemente, riconoscerne la complessità. Riconoscere, ad esempio, la sua inevitabile e palese incompletezza, il suo pathos. Né domanda né risposta sembrano importanti, ma il riconoscimento di un’intransigente assenza. A questo proposito penso al lavoro di Anthony Gormley esposto all’interno della chiesa di San Francesco di Arezzo, che dimostra sia il potere sia il pathos dell’iconografia cristiana. Riconoscendone, allo stesso tempo, l’incoerenza».