Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Leone Contini Bonacossi – Human Landscape
Le figure si affollano in ciascuno dei miei quadri, talvolta sono corpi che si tendono, si torcono, si atteggiano in un qualche gesto non ben comprensibile, talvolta sono ombre che silenziosamente gremiscono quella superficie.
Comunicato stampa
Segnala l'evento
“ Le figure si affollano in ciascuno dei miei quadri, talvolta sono corpi che si tendono, si torcono, si atteggiano in un qualche gesto non ben comprensibile, talvolta sono ombre che silenziosamente gremiscono quella superficie arbitrariamente delimitata dal perimetro di una tela.
Il significato sta nella presenza collettiva, nella co-presenza, non nella singola postura di un singolo corpo. Il rapporto tra singolo e pluralità è centrale: le mie figure hanno bisogno di altre figure, come le lettere di un alfabeto a comporre parole, e le parole tra loro, in un delirio affabulatorio, a creare la narrazione - o le narrazioni. Come gli elementi di un paesaggio si integrano tra loro in un tutto organico non riducibile alle singole parti - e che tuttavia dalle singole parti non può prescindere - e le parole si fondono nel flusso del racconto, così la ripetizione del corpo umano, unità minima di una narrazione collettiva, delinea un tipo inedito di paesaggio, un vero e proprio panorama antropologico, dotato di una logica interna nuova ed originale, entro cui i destini individuali cessano di essere assoluti, prioritari.
Il corpo ripete, riproduce se stesso a comporre teorie oltre le quali nuove entità continuamente aggregano materia, proliferano, in una sorta di processo in cui alla generazione biologica faccia eco la generazione dei simboli e delle identità. Qualcosa avviene ma non è chiaro cosa: danze, esodi, feste, processioni; il racconto si offre in una lingua semi sconosciuta, di cui forse è possibile apprezzare la cadenza, ma che lascia insoluta un’ambiguità strutturale: ogni paesaggio, ed a maggior ragione quel tipo di paesaggio umano che è la moltitudine, ha un versante totalmente muto, meccanico, indecifrabile, naturale, ed un altro in qualche modo loquace, dotato della possibilità di reciprocare uno sguardo e delineare un orizzonte di senso, seppur frammentario e temporaneo.
Il confine tra la violenza istintiva della folla e la ricchezza simbolica di una moltitudine in festa è spesso difficilmente identificabile: ad ogni istante la festa può trasformarsi in massacro e vice versa. Ad interessarmi è proprio la fragilità del frame, la polisemia insita nel concetto di paesaggio come di moltitudine, la possibilità di un improvviso slittamento semantico. Il paesaggio, concetto prospettico per definizione, è una porzione del mondo fisico che cade nel campo visivo di un essere umano, il cui occhio interpretante antropomorfizza quello che non sarebbe nient’altro che una cosa inerte; il paesaggio è simultaneamente epifania delle leggi naturali e specchio dell’interiorità umana e si porta dentro, incarna, questa scissione: è un confine esso stesso e per questo diviene chiave interpretativa e potente metafora dell’ambiguità costitutiva di ogni agglomerato umano.
Ho temuto di creare un mondo di entità stereotipate, schiere di corpi privi di specificità, irrigiditi in un gesto ripetuto, irriflesso - affogati nella folla, nell’istinto imitativo - ho reiterato una singola postura decine e decine di volte, ma la materia con cui lavoravo, con cui modellavo cloni e burattini, insomma tutto quel latte, quell’olio e quel vino, mescolandosi, hanno preso vita, hanno espresso una volontà differente e quello che ho visto e sentito alla fine era un intrecciarsi di suoni, danze, idiomi, volizioni.”
Leone Contini Bonacossi
Il significato sta nella presenza collettiva, nella co-presenza, non nella singola postura di un singolo corpo. Il rapporto tra singolo e pluralità è centrale: le mie figure hanno bisogno di altre figure, come le lettere di un alfabeto a comporre parole, e le parole tra loro, in un delirio affabulatorio, a creare la narrazione - o le narrazioni. Come gli elementi di un paesaggio si integrano tra loro in un tutto organico non riducibile alle singole parti - e che tuttavia dalle singole parti non può prescindere - e le parole si fondono nel flusso del racconto, così la ripetizione del corpo umano, unità minima di una narrazione collettiva, delinea un tipo inedito di paesaggio, un vero e proprio panorama antropologico, dotato di una logica interna nuova ed originale, entro cui i destini individuali cessano di essere assoluti, prioritari.
Il corpo ripete, riproduce se stesso a comporre teorie oltre le quali nuove entità continuamente aggregano materia, proliferano, in una sorta di processo in cui alla generazione biologica faccia eco la generazione dei simboli e delle identità. Qualcosa avviene ma non è chiaro cosa: danze, esodi, feste, processioni; il racconto si offre in una lingua semi sconosciuta, di cui forse è possibile apprezzare la cadenza, ma che lascia insoluta un’ambiguità strutturale: ogni paesaggio, ed a maggior ragione quel tipo di paesaggio umano che è la moltitudine, ha un versante totalmente muto, meccanico, indecifrabile, naturale, ed un altro in qualche modo loquace, dotato della possibilità di reciprocare uno sguardo e delineare un orizzonte di senso, seppur frammentario e temporaneo.
Il confine tra la violenza istintiva della folla e la ricchezza simbolica di una moltitudine in festa è spesso difficilmente identificabile: ad ogni istante la festa può trasformarsi in massacro e vice versa. Ad interessarmi è proprio la fragilità del frame, la polisemia insita nel concetto di paesaggio come di moltitudine, la possibilità di un improvviso slittamento semantico. Il paesaggio, concetto prospettico per definizione, è una porzione del mondo fisico che cade nel campo visivo di un essere umano, il cui occhio interpretante antropomorfizza quello che non sarebbe nient’altro che una cosa inerte; il paesaggio è simultaneamente epifania delle leggi naturali e specchio dell’interiorità umana e si porta dentro, incarna, questa scissione: è un confine esso stesso e per questo diviene chiave interpretativa e potente metafora dell’ambiguità costitutiva di ogni agglomerato umano.
Ho temuto di creare un mondo di entità stereotipate, schiere di corpi privi di specificità, irrigiditi in un gesto ripetuto, irriflesso - affogati nella folla, nell’istinto imitativo - ho reiterato una singola postura decine e decine di volte, ma la materia con cui lavoravo, con cui modellavo cloni e burattini, insomma tutto quel latte, quell’olio e quel vino, mescolandosi, hanno preso vita, hanno espresso una volontà differente e quello che ho visto e sentito alla fine era un intrecciarsi di suoni, danze, idiomi, volizioni.”
Leone Contini Bonacossi
06
ottobre 2004
Leone Contini Bonacossi – Human Landscape
Dal 06 al 20 ottobre 2004
arte contemporanea
Location
SACI GALLERY – PALAZZO DEI CARTELLONI
Firenze, Via Sant'Antonino, 11, (Firenze)
Firenze, Via Sant'Antonino, 11, (Firenze)
Orario di apertura
dal lunedì al venerdì dalle 9.00 alle 19.00
Vernissage
6 Ottobre 2004, ore 18.00
Autore