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BugZ – E-motion
E dunque, riconvertendo tutto nella sfera semantica della creatività, diciamo: Bugs esiste, ma non esiste; ed, anzi, ha molte esistenze, cioè una sola. Insomma dovrei sembrare molto convinto io stesso prima di provare a convincerne gli altri, no?
Comunicato stampa
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Un esserci plurimo – Bugs
Augusto Pieroni
Ho un problema: non credo alla reincarnazione. O temo la reincarnazione. O piuttosto, dati i tempi, desidererei disperatamente tornare – quando sarà – sotto qualunque forma non-senziente, ma pavento di rimaterializzarmi nel centro geometrico della nostra animale mortalità. Che non si è molto accreditata, recentemente. Non dovrei quindi nemmeno avvicinarmi a temi come: travaso e moltiplicazione dell’identità, no? Sennonché, ecco che – manco a farlo apposta – proprio l’artista cui oggi faccio da MC si rivela essere un avatar e su questo tavolo mi tocca giocare.
Un momento: due soldi di glossario. Nella ritualità Hip-hop, MC sta per Master of Ceremonies; è, cioè, un tipo che spits (sputa parole), non il DJ che spins (gira i dischi). L’MC – nella mia discutibile metafora – sarebbe quello che coinvolge il pubblico, dicendo, creando, montando su l’edificio retorico della parola/ritmo/senso: in due parole è colui che amministra la cerimonia (anche questa una metafora, ma gospel – da messa cantata afro-americana). Quale cerimonia allora? Lì del rap, qui dell’arte, insomma: di ogni rito contemporaneo. E – oh! – sia chiaro: non c’è ritmo in giro qui! C’è musica in giro? No. Qui si gioca con la parola piana (non piatta), lineare, scura su chiaro: è scrittura, pensiero, perfino lampo e razzo, ma non è forma in sé. Tanto basti per quell’MC buttato lì. Ma avatar, beh, non è un termine casuale. È la parola col quale si identificano le identità multiple, spesso apocrife, garantite dalla tecnologia telematica e proliferati nelle cyberculture (da Luther Blisset al Subcomandante Marcos, ma metteteci pure i nickname che usate in chat-line). La radice, come tutti sanno, proviene dalla cultura induista che chiama avatara le modalità di discesa in terra degli dei in forma parzialmente umana. Insomma: non reincarnazioni, quanto incarnazioni. Spesso multiple, diverse tra loro, parallele, connesse al mainframe divino da un network spirituale, tutte queste identità hanno ragione di esistere in quanto agenti nella storia. E, se non erro, proprio lo stesso Hakim Bey, teorico del cyberpensiero, era molto focalizzato sull’attivismo storico delle incarnazioni temporanee del potere popolare. O mi sbaglio?
E dunque, riconvertendo tutto nella sfera semantica della creatività, diciamo: Bugs esiste, ma non esiste; ed, anzi, ha molte esistenze, cioè una sola. Insomma dovrei sembrare molto convinto io stesso prima di provare a convincerne gli altri, no? Eppure non dovrei avere alcun dubbio su quel che vado presentando, dal momento che con Bugs ho già interagito: rispondendo a, scrivendo per, discutendo con, presentando in, intersecando fra, dislocando su, portando da. E via aggiungendo gerundi e posponendo preposizioni. Quindi, ritentiamo: Bugs esiste perché altrimenti non potremmo discuterne, ok? Ma in realtà non è quello che saremmo pronti a credere che sia. O piuttosto: è insieme varie forme, nessuna delle quali può esaurire l’entità sorgente. Tuttavia, ognuna delle varie avatara illumina su alcune particolari caratteristiche dell’entità emanante, anzi sono proprio le sue moltiplicazioni a disvelarla come meglio ella non potrebbe. E questo perché aggiungono un possente apparato simbolico a coronamento ed amplificazione del suo essere. Un essere che include vari modi di esserci. Ed è – tutto sommato – più della già paradossale addizione delle sue parti. Ciò forse non vuol dire altro – per la centomiliardesima volta, accidenti! – che l’opera d’arte è l’autoritratto del proprio autore. E qui, senza nemmeno l’ombra del dubbio.
Personaggio, non persona, creatore e opera ella stessa, l’autrice calca la scena – elettronica e fotoelettronica, materiale e percettiva – dissimulando il terrore di perdersi, ebbra in quel disperdersi che è un rinascere nel respiro vitale degli spettatori. Pubblico reale o virtuale che sia, l’onnivoro autore divora e metabolizza; è divorato e fatto carne e pensiero, mentre il suo stesso pensiero – se non la carne – si rigenerano di quel cibo da dei che è lo sguardo altrui. Palindromicamente, a ciclo continuo in un tantrico segno dei pesci tra auteur e regard. Uno sguardo che è ancor più ferinamente un agire, interagire: un muoversi, uno studiarsi reciproco, un tendersi dell’arco per lasciar andare – d’un colpo secco, al colpire preciso di un metamorfico link – la tenerezza d’un racconto, la violenza d’un agguato o d’una fuga, il calore di una melodia o di un ammonimento.
Si fa bella, si fa simbolo, l’autrice: per i vostri occhi soltanto e per ogni sguardo. Assume pubblicamente i marchi di un rito concepito interiormente, vissuto e nutrito di segni, emozioni, materie, strategie. Un rito perciò controllato e purificato, esente da inflessioni occasionali: fatto di segni ponderati, ma mantenuti freschi, come appena esalati. E l’arte, in fondo, non è sempre così? No, direi, non sempre.
Il racconto, l’auto-racconto che è insieme favola e mito fondativo, ci avvolgono in una ragnatela di sensazioni: solleticandoli, attivano i nostri sensi: negli spazi reali e virtuali del disporsi e transitare, nella qualità visiva del presentarsi e rappresentarsi, nella densa figuralità del mostrare e celare, nel cromatismo elettronico del trasparire e rivelare, nella intermittente sensualità del suono, del bisbiglio e del silenzio. Così, solo così, la labile presenza di un soggetto elettronico, pseudonimico e delocalizzato, si sovraccarica di valori – sì proprio nel senso pittorico di rapporto qualitativo – e si incarica di produrre e-mozioni reali. Cioè agitarci nelle nostre funzioni e reazioni psico-emotive conducendo la seduzione sul piano elettronico. Non seguirò il gioco dell’e-mulazione grafico-verbale. Troppo semplice, troppo in vogue, è cultura olistica: tutto cyber: il sex il café il nauta; tutto virtual: la reality il museum l’aula, tutto e-: la mail il learning il commerce il banking. Ma l’amore no (vien quasi fatto di canticchiare).
L’amore della grande madre, di Khali e di Shiva il fallico (quello che Salman Rushdie chiama “il nostro amico tutto blu”), ma anche l’amore neoplatonico dell’armonia (si noti un Sitar, qui e lì). E dovunque disseminata in forma di proiezione diapositiva sulla pelle, come in forma di base audio, la meditazione e l’aspirazione a un trascendimento della materialità. Un’aspirazione alla partenogenesi ermafrodita, che finalmente si arrende alla lotta e alla dialettica degli opposti. In un catartico 69 dell’intero universo. Kundalini e Uroboros che ci ricomprendono e che – grazie all’arte che ne è la figura, e a Bugs, il soggetto che si finge oggetto – daccapo ricomprendiamo in noi stessi.
Ed è una specie di rinascita: l’unica che ci è permessa.
Augusto Pieroni
Ho un problema: non credo alla reincarnazione. O temo la reincarnazione. O piuttosto, dati i tempi, desidererei disperatamente tornare – quando sarà – sotto qualunque forma non-senziente, ma pavento di rimaterializzarmi nel centro geometrico della nostra animale mortalità. Che non si è molto accreditata, recentemente. Non dovrei quindi nemmeno avvicinarmi a temi come: travaso e moltiplicazione dell’identità, no? Sennonché, ecco che – manco a farlo apposta – proprio l’artista cui oggi faccio da MC si rivela essere un avatar e su questo tavolo mi tocca giocare.
Un momento: due soldi di glossario. Nella ritualità Hip-hop, MC sta per Master of Ceremonies; è, cioè, un tipo che spits (sputa parole), non il DJ che spins (gira i dischi). L’MC – nella mia discutibile metafora – sarebbe quello che coinvolge il pubblico, dicendo, creando, montando su l’edificio retorico della parola/ritmo/senso: in due parole è colui che amministra la cerimonia (anche questa una metafora, ma gospel – da messa cantata afro-americana). Quale cerimonia allora? Lì del rap, qui dell’arte, insomma: di ogni rito contemporaneo. E – oh! – sia chiaro: non c’è ritmo in giro qui! C’è musica in giro? No. Qui si gioca con la parola piana (non piatta), lineare, scura su chiaro: è scrittura, pensiero, perfino lampo e razzo, ma non è forma in sé. Tanto basti per quell’MC buttato lì. Ma avatar, beh, non è un termine casuale. È la parola col quale si identificano le identità multiple, spesso apocrife, garantite dalla tecnologia telematica e proliferati nelle cyberculture (da Luther Blisset al Subcomandante Marcos, ma metteteci pure i nickname che usate in chat-line). La radice, come tutti sanno, proviene dalla cultura induista che chiama avatara le modalità di discesa in terra degli dei in forma parzialmente umana. Insomma: non reincarnazioni, quanto incarnazioni. Spesso multiple, diverse tra loro, parallele, connesse al mainframe divino da un network spirituale, tutte queste identità hanno ragione di esistere in quanto agenti nella storia. E, se non erro, proprio lo stesso Hakim Bey, teorico del cyberpensiero, era molto focalizzato sull’attivismo storico delle incarnazioni temporanee del potere popolare. O mi sbaglio?
E dunque, riconvertendo tutto nella sfera semantica della creatività, diciamo: Bugs esiste, ma non esiste; ed, anzi, ha molte esistenze, cioè una sola. Insomma dovrei sembrare molto convinto io stesso prima di provare a convincerne gli altri, no? Eppure non dovrei avere alcun dubbio su quel che vado presentando, dal momento che con Bugs ho già interagito: rispondendo a, scrivendo per, discutendo con, presentando in, intersecando fra, dislocando su, portando da. E via aggiungendo gerundi e posponendo preposizioni. Quindi, ritentiamo: Bugs esiste perché altrimenti non potremmo discuterne, ok? Ma in realtà non è quello che saremmo pronti a credere che sia. O piuttosto: è insieme varie forme, nessuna delle quali può esaurire l’entità sorgente. Tuttavia, ognuna delle varie avatara illumina su alcune particolari caratteristiche dell’entità emanante, anzi sono proprio le sue moltiplicazioni a disvelarla come meglio ella non potrebbe. E questo perché aggiungono un possente apparato simbolico a coronamento ed amplificazione del suo essere. Un essere che include vari modi di esserci. Ed è – tutto sommato – più della già paradossale addizione delle sue parti. Ciò forse non vuol dire altro – per la centomiliardesima volta, accidenti! – che l’opera d’arte è l’autoritratto del proprio autore. E qui, senza nemmeno l’ombra del dubbio.
Personaggio, non persona, creatore e opera ella stessa, l’autrice calca la scena – elettronica e fotoelettronica, materiale e percettiva – dissimulando il terrore di perdersi, ebbra in quel disperdersi che è un rinascere nel respiro vitale degli spettatori. Pubblico reale o virtuale che sia, l’onnivoro autore divora e metabolizza; è divorato e fatto carne e pensiero, mentre il suo stesso pensiero – se non la carne – si rigenerano di quel cibo da dei che è lo sguardo altrui. Palindromicamente, a ciclo continuo in un tantrico segno dei pesci tra auteur e regard. Uno sguardo che è ancor più ferinamente un agire, interagire: un muoversi, uno studiarsi reciproco, un tendersi dell’arco per lasciar andare – d’un colpo secco, al colpire preciso di un metamorfico link – la tenerezza d’un racconto, la violenza d’un agguato o d’una fuga, il calore di una melodia o di un ammonimento.
Si fa bella, si fa simbolo, l’autrice: per i vostri occhi soltanto e per ogni sguardo. Assume pubblicamente i marchi di un rito concepito interiormente, vissuto e nutrito di segni, emozioni, materie, strategie. Un rito perciò controllato e purificato, esente da inflessioni occasionali: fatto di segni ponderati, ma mantenuti freschi, come appena esalati. E l’arte, in fondo, non è sempre così? No, direi, non sempre.
Il racconto, l’auto-racconto che è insieme favola e mito fondativo, ci avvolgono in una ragnatela di sensazioni: solleticandoli, attivano i nostri sensi: negli spazi reali e virtuali del disporsi e transitare, nella qualità visiva del presentarsi e rappresentarsi, nella densa figuralità del mostrare e celare, nel cromatismo elettronico del trasparire e rivelare, nella intermittente sensualità del suono, del bisbiglio e del silenzio. Così, solo così, la labile presenza di un soggetto elettronico, pseudonimico e delocalizzato, si sovraccarica di valori – sì proprio nel senso pittorico di rapporto qualitativo – e si incarica di produrre e-mozioni reali. Cioè agitarci nelle nostre funzioni e reazioni psico-emotive conducendo la seduzione sul piano elettronico. Non seguirò il gioco dell’e-mulazione grafico-verbale. Troppo semplice, troppo in vogue, è cultura olistica: tutto cyber: il sex il café il nauta; tutto virtual: la reality il museum l’aula, tutto e-: la mail il learning il commerce il banking. Ma l’amore no (vien quasi fatto di canticchiare).
L’amore della grande madre, di Khali e di Shiva il fallico (quello che Salman Rushdie chiama “il nostro amico tutto blu”), ma anche l’amore neoplatonico dell’armonia (si noti un Sitar, qui e lì). E dovunque disseminata in forma di proiezione diapositiva sulla pelle, come in forma di base audio, la meditazione e l’aspirazione a un trascendimento della materialità. Un’aspirazione alla partenogenesi ermafrodita, che finalmente si arrende alla lotta e alla dialettica degli opposti. In un catartico 69 dell’intero universo. Kundalini e Uroboros che ci ricomprendono e che – grazie all’arte che ne è la figura, e a Bugs, il soggetto che si finge oggetto – daccapo ricomprendiamo in noi stessi.
Ed è una specie di rinascita: l’unica che ci è permessa.
24
settembre 2004
BugZ – E-motion
Dal 24 settembre al 22 ottobre 2004
arte contemporanea
Location
GALLERIA ARTURARTE
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Nepi, Via Settevene Palo, 1a, (Viterbo)
Orario di apertura
Dal lun al ven 9.00-13.00 15.00-18.00
Vernissage
24 Settembre 2004, Performances h 21.00
Curatore