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Gaspare Sicula -L’opera dei pupi
Mi ci portava mio padre, quando avevo cinque, sei, sette anni. A Partinico, mio luogo natale, adagiato in seno a una pianura sotto la Montagna del Re, non tanto lontano dal mare che dalla terrazza di casa vedevo, avviandosi in direzione del Corso dei Mille, dopo “u Pantanu Tronu” (una fontana al margine in uno slargo soggetto ad allagamenti in caso di forti piogge).
Comunicato stampa
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Mi ci portava mio padre, quando avevo cinque, sei, sette anni. A Partinico, mio luogo natale, adagiato in seno a una pianura sotto la Montagna del Re, non tanto lontano dal mare che dalla terrazza di casa vedevo, avviandosi in direzione del Corso dei Mille, dopo “u Pantanu Tronu” (una fontana al margine in uno slargo soggetto ad allagamenti in caso di forti piogge) e prima di arrivare in Largo Modica, che era una piazza di medie dimensioni – non quella principale chiamata tout court “A chiazza” – sita alla fine di una breve e ripida salita di cuticchi e due file parallele di balati, si scorgeva, sul cuneo di una biforcazione, il fianco di un edificio insolito: a pianta circolare; come il Pantheon, ma molto, molto più piccolo. E lì, in quella strana casa rotonda con la cupola piuttosto bassa che avrebbe potuto ospitare un planetario (ma allora le stelle, di notte, erano più che visibili, e quelle che non lo erano le si potevano trovare nell’immaginazione o in qualche personale zona della volta celeste, insieme al senno degli artisti e degli eroi di carta), dopo la cena, che qualche volta, soprattutto nei mesi più freddi, avveniva al lume di candela ( ah, le aringhe cotte nella brace!), lì, dicevo, nelle serate invernali, quando il buio, anche in Sicilia, veniva giù presto e tutti erano molto più giovani, si cominciava a sognare davanti alle storie di Rinaldo e Orlando, Angelica, Bradamante, Rodomonte e Ruggiero, Gano di Maganza, davanti e dentro l’Opra di Pupi alti più di me. Mio padre amava anche leggerle, e sapeva farlo bene, le gesta dei Paladini e dei Saraceni tratte dalla Chanson de Roland, dall’Orlando Furioso. Tante volte stavamo ad ascoltarlo mentre mia madre ricamava.
Tra il luccichio delle armature e l’opulenza dei broccati delle dame, scanditi dal coordinato calpestio dei piedi “d’attore di passi e di voci”, di vocianti passi, di variopinte voci, tra i combattimenti, gli incontri, le trame di corte e l’eroismo dei duellanti contendenti elargito a pieni pugni e senza freni, ma con fori e fili, i tradimenti e le scenografie che srotolandosi davano agio a mille sogni ancora da costruire, c’era un altro posto dove, qualche anno dopo, andavo a vedere l’Opera dei Pupi. Questo luogo – teatro anche d’altre storie, sperimentali, più vicine nel tempo ma più lontane nella memoria, il cui proscenio si trovava alla fine di una lunghissima sala semibuia, rettangolare, enormemente alta e col tetto a capriate – più in là nel tempo, quando ormai, tanto vuoto da sembrare ancor più ampio, vi si aggiravano solamente i fantasmi delle vite dei Pupi, ma sulle alte e irregolari pareti rimbombavano ancora le voci di quelle pupille vive incorniciate d’elmi e piume o da acconciature strabilianti, di quelle bocche fisse, dei movimenti a scatti e i salti snodati, di quelle figure irreali, qualcuna con l’armatura brunita, appese in attesa e in fila una accanto all’altra, lo acquistammo, insieme ad un altro edificio esattamente uguale e posto accanto e parallelamente, per farvi la sede dell’azienda di famiglia.
Da Tortona nell’88 feci diventare un ficodindia Cactus. Cactus poi, a se stesso, diede il ruolo di attore e recitò delle storie; quelle stesse storie che qualche volta vidi pittare, con le terre, sulle sponde dei carretti. Anch’io sono un pittore di storie. Ne ho tante da raccontare e mi manca il tempo per farlo. Vorrei nascere di nuovo. Per ricominciare e portare a compimento (forse), con l’ardore scattante della giovinezza, quello che mai in una sola vita riuscirò a sospendere dal mondo diafano delle idee.
Quindi, finalmente, venne alla luce Cactus.
Un anno prima, esattamente nel marzo dell’87 e nel teso arco di una settimana, dipinsi un ficodindia, il primo. O meglio, un insieme “equestre”, scalpitante che aveva le sembianze di un ficodindia.
No! Non era un monumento, anche se ne aveva l’aspetto. Era un ficodindia! Un quadro titanico. Forte come un macigno. Una colonna, una scultura di dimensioni colossali.
Era un ficodindia animale che affondava le brevi zampe-radici su un terreno incandescente come pietra fusa, avvolto da un cielo nero in un incendio planetario. La luce frontale illuminava, in un attimo, un Big Bang da lungo tempo sopito, nascosto nelle viscere della memoria.
A volte capita anche nelle pianure del nord, soprattutto in primavera, di sentirsi punzecchiare e scuotere dall’odore del mare. In uno di quei rarissimi giorni di violento vento del sud, predisposi la tela nella direzione giusta per accoglierlo, spalancai le persiane del mio studio: grande ebbrezza, profondi respiri, pennelli, colori, ricordo, vertigine.
E fu pittura; grande pittura.
Forse un mese dopo, o poco più, fu la volta di Magie della mia terra, un altro ficodindia affatto diverso la cui forza pacata, di un’eleganza sommessa, questa volta era affidata alla luce delle arance e dei limoni, della terra abbagliante su cui poggiavano.
Cactus, dicevo, venne alla luce in sordina, con altri suoi simili, lui poco prima degli altri, da alcuni fichidindia diversi per forma, struttura, grandezza, esuberanza.
Con pennellate larghe e colori accesi cercai di individuarli bene per tutta la prima metà dell’estate tra spine rosse e altre rese più irte dall’arsura.
Nei primi giorni di agosto di quello che fu l’anno di nascita di Cactus, la rottura della mia mano destra. Il più preoccupato smarrimento. Un’angoscia senza rimedio, il veloce inerpicarsi di una instabile disperazione a capo chino.
E un’estate terribile. Una meravigliosa mostra di conchiglie (che sarebbero venute fuori, in pittura, l’anno successivo), a Spotorno, e il gesso della mia mano destra. Pegli, tanti piccoli musei dell’Emilia Romagna.
Alla fine di settembre, tolto il gesso, la mia mano, a poco a poco, riprese a funzionare come prima. Ricominciai a dipingere: La nave lavica il primo quadro con i movimenti ancora rigidi; pennellate nervose, quasi colpi di spatola, per una roccia semovente nel buio interrotto, questa volta, dal luccichio improvviso sui rilievi di colore. Incontri sul far della sera che avevo iniziato prima, che continuai rieducando la mano a fare quello che prima era in grado di compiere con tanta facilità e destrezza; L’impercettibile passo del silenzio. Cieli scurissimi in La partenza della nave lavica, Il tempo dell’amore I e II, Cactus e la nave lavica, Il viaggio notturno della nave lavica, Partono solo le onde per mandar via quelle farfalle, quei riflessi dalle salate smorfie che, tra me e la tela, sempre più spesso, in quell’autunno di pietra vennero a farmi visita.
Ogni urticante grano di sabbia africana che colpiva Cactus, un buco come una bocca spalancata e una spina che era uguale a un urlo per dire agli altri, a chiunque, a tutti e a nessuno che la sabbia arroventata dona, colpendo, cicatrici indelebili come marchi.
In Sicilia le foglie non cadono; non esiste l’autunno tanto decantato dai libri di scuola.
La neve non mi piaceva perché tutti i colori diventavano scurissimi, perché i tronchi degli alberi, coloratissimi, diventavano neri.
Il ficodindia Cactus: scultura vivente per antonomasia.
Non c’è albero che possa diventare cubista dato che l’albero, a suo modo, lo è per natura. Quando Mondrian tentò di farlo, l’albero, ritratto, si scisse; nacquero così la pittura astratta di Mondrian, che amo (i quadri degli anni trenta mi fanno tremare le ossa e drizzare i capelli), e gli insetti figuranti surrealisti di Mirò che altrettanto apprezzo. Mi piacerebbe possedere dei quadri dell’uno e dell’altro, per poterli leggere con la mani come fa chi non vede.
G.S.
Tra il luccichio delle armature e l’opulenza dei broccati delle dame, scanditi dal coordinato calpestio dei piedi “d’attore di passi e di voci”, di vocianti passi, di variopinte voci, tra i combattimenti, gli incontri, le trame di corte e l’eroismo dei duellanti contendenti elargito a pieni pugni e senza freni, ma con fori e fili, i tradimenti e le scenografie che srotolandosi davano agio a mille sogni ancora da costruire, c’era un altro posto dove, qualche anno dopo, andavo a vedere l’Opera dei Pupi. Questo luogo – teatro anche d’altre storie, sperimentali, più vicine nel tempo ma più lontane nella memoria, il cui proscenio si trovava alla fine di una lunghissima sala semibuia, rettangolare, enormemente alta e col tetto a capriate – più in là nel tempo, quando ormai, tanto vuoto da sembrare ancor più ampio, vi si aggiravano solamente i fantasmi delle vite dei Pupi, ma sulle alte e irregolari pareti rimbombavano ancora le voci di quelle pupille vive incorniciate d’elmi e piume o da acconciature strabilianti, di quelle bocche fisse, dei movimenti a scatti e i salti snodati, di quelle figure irreali, qualcuna con l’armatura brunita, appese in attesa e in fila una accanto all’altra, lo acquistammo, insieme ad un altro edificio esattamente uguale e posto accanto e parallelamente, per farvi la sede dell’azienda di famiglia.
Da Tortona nell’88 feci diventare un ficodindia Cactus. Cactus poi, a se stesso, diede il ruolo di attore e recitò delle storie; quelle stesse storie che qualche volta vidi pittare, con le terre, sulle sponde dei carretti. Anch’io sono un pittore di storie. Ne ho tante da raccontare e mi manca il tempo per farlo. Vorrei nascere di nuovo. Per ricominciare e portare a compimento (forse), con l’ardore scattante della giovinezza, quello che mai in una sola vita riuscirò a sospendere dal mondo diafano delle idee.
Quindi, finalmente, venne alla luce Cactus.
Un anno prima, esattamente nel marzo dell’87 e nel teso arco di una settimana, dipinsi un ficodindia, il primo. O meglio, un insieme “equestre”, scalpitante che aveva le sembianze di un ficodindia.
No! Non era un monumento, anche se ne aveva l’aspetto. Era un ficodindia! Un quadro titanico. Forte come un macigno. Una colonna, una scultura di dimensioni colossali.
Era un ficodindia animale che affondava le brevi zampe-radici su un terreno incandescente come pietra fusa, avvolto da un cielo nero in un incendio planetario. La luce frontale illuminava, in un attimo, un Big Bang da lungo tempo sopito, nascosto nelle viscere della memoria.
A volte capita anche nelle pianure del nord, soprattutto in primavera, di sentirsi punzecchiare e scuotere dall’odore del mare. In uno di quei rarissimi giorni di violento vento del sud, predisposi la tela nella direzione giusta per accoglierlo, spalancai le persiane del mio studio: grande ebbrezza, profondi respiri, pennelli, colori, ricordo, vertigine.
E fu pittura; grande pittura.
Forse un mese dopo, o poco più, fu la volta di Magie della mia terra, un altro ficodindia affatto diverso la cui forza pacata, di un’eleganza sommessa, questa volta era affidata alla luce delle arance e dei limoni, della terra abbagliante su cui poggiavano.
Cactus, dicevo, venne alla luce in sordina, con altri suoi simili, lui poco prima degli altri, da alcuni fichidindia diversi per forma, struttura, grandezza, esuberanza.
Con pennellate larghe e colori accesi cercai di individuarli bene per tutta la prima metà dell’estate tra spine rosse e altre rese più irte dall’arsura.
Nei primi giorni di agosto di quello che fu l’anno di nascita di Cactus, la rottura della mia mano destra. Il più preoccupato smarrimento. Un’angoscia senza rimedio, il veloce inerpicarsi di una instabile disperazione a capo chino.
E un’estate terribile. Una meravigliosa mostra di conchiglie (che sarebbero venute fuori, in pittura, l’anno successivo), a Spotorno, e il gesso della mia mano destra. Pegli, tanti piccoli musei dell’Emilia Romagna.
Alla fine di settembre, tolto il gesso, la mia mano, a poco a poco, riprese a funzionare come prima. Ricominciai a dipingere: La nave lavica il primo quadro con i movimenti ancora rigidi; pennellate nervose, quasi colpi di spatola, per una roccia semovente nel buio interrotto, questa volta, dal luccichio improvviso sui rilievi di colore. Incontri sul far della sera che avevo iniziato prima, che continuai rieducando la mano a fare quello che prima era in grado di compiere con tanta facilità e destrezza; L’impercettibile passo del silenzio. Cieli scurissimi in La partenza della nave lavica, Il tempo dell’amore I e II, Cactus e la nave lavica, Il viaggio notturno della nave lavica, Partono solo le onde per mandar via quelle farfalle, quei riflessi dalle salate smorfie che, tra me e la tela, sempre più spesso, in quell’autunno di pietra vennero a farmi visita.
Ogni urticante grano di sabbia africana che colpiva Cactus, un buco come una bocca spalancata e una spina che era uguale a un urlo per dire agli altri, a chiunque, a tutti e a nessuno che la sabbia arroventata dona, colpendo, cicatrici indelebili come marchi.
In Sicilia le foglie non cadono; non esiste l’autunno tanto decantato dai libri di scuola.
La neve non mi piaceva perché tutti i colori diventavano scurissimi, perché i tronchi degli alberi, coloratissimi, diventavano neri.
Il ficodindia Cactus: scultura vivente per antonomasia.
Non c’è albero che possa diventare cubista dato che l’albero, a suo modo, lo è per natura. Quando Mondrian tentò di farlo, l’albero, ritratto, si scisse; nacquero così la pittura astratta di Mondrian, che amo (i quadri degli anni trenta mi fanno tremare le ossa e drizzare i capelli), e gli insetti figuranti surrealisti di Mirò che altrettanto apprezzo. Mi piacerebbe possedere dei quadri dell’uno e dell’altro, per poterli leggere con la mani come fa chi non vede.
G.S.
27
maggio 2004
Gaspare Sicula -L’opera dei pupi
Dal 27 maggio al 30 giugno 2004
arte contemporanea
Location
FERPACK
Milano, Via Del Torchio, 10, (Milano)
Milano, Via Del Torchio, 10, (Milano)
Orario di apertura
Dal lunedì al venerdì ore 9/13 – 15/19. Sabato e domenica su appuntamento
Vernissage
27 Maggio 2004, dalle ore 18,30 alle ore 21,30
Sito web
www.sicula.com