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Vito Mazzocchi – Look immagine & contraddizioni
Comunicato stampa
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Piedi per non camminare
Nella sua famosissima Fenomenologia della percezione, M. Merleau-Ponty una volta aveva scritto che: la prima verità è sicuramente “l’io penso”, ma a patto che lo si intenda come scoperta del mio “spessore corporeo”. Del resto, lo stesso Nietzsche - nell’altrettanto celebre …Zarathustra - dice che vi è una grande ragione nel corpo, perché lì è disposta la migliore saggezza. Mai come in questi ultimi anni l’arte contemporanea - ignara di come la cultura europea dell’800 e del primo e secondo ‘900 - ha tenuto in considerazione l’immagine del corpo ha straparlato di body art e storie simili, di rigetti corporali, di sangue e di erotismi inscenati. Il corpo per l’arte è diventato tutto e il contrario di tutto, ma non abbastanza qualcosa che facesse pensare al piacere, al dispositivo del desiderio, alla materialità della soddisfazione. In casi troppo rari il corpo è stato tenuto lontano dal pericolo della corporazione, della corporalità, del corpo-immagine, del corpo amuleto e di ciò che, come strumento della provocazione feticistica, si delinea nell’assoluta ibridazione del senso. Per assurdo, forse è stata proprio la pubblicità - quella che dovrebbe essere battezzata come la vera forma di arte avanzata nel mondo - a trattare una tale idea del corpo. La pubblicità nel contemporaneo - e lo continuiamo a dire provocatoriamente - è la matrigna di ogni palingenesi creativa. La pubblicità negli ultimi decenni si è totalmente impossessata di qualsiasi forma di immagine e di cultura del corpo. A partire da questo fenomeno di parossismo, alcuni artisti - per consenso o dissenso - si soffermano dunque su un dettaglio del corpo, o in particolare su una parte del proprio corpo, sforzandosi di individuare un’ironia sull’uso che di questi fanno le diverse forme della pubblicità.
Nel passato anche il soffermarsi su un dettaglio del corpo era una forma di icastizzazione del desiderio. Il piede è un simbolo fondamentale nella cultura delle popolazioni antiche. Ad esempio la pianta del villaggio dogon è antropomorfa e il piede fra quelle popolazioni è come un santuario. I piedi Neri sono una nota confederazione di tribù degli Indiani d’America. E inoltre, avendo modo di leggere Le notti bianche di Aulo Gallio, si può apprendere come Pitagora dedusse la statura di Ercole dalla lunghezza del suo piede: “Ex pede, Herculem”. Continuando poi con i riferimenti storici, il pittore napoletano Battistello Caracciolo nella Lavanda dei piedi, composto per il Coro della Certosa di San Martino, influenzato da Caravaggio, usa far risaltare quella parte del corpo come una magia. Per capire, poi, quanto il piede fosse importante nella tradizione antica extraoccidentale, basta consultare i racconti del Buddha. Quest’ultimo sin dalla sua nascita misurò l’universo facendo sette passi in ciascuna delle direzioni dello spazio. Ma da quei tempi in cui regnava la simbologia classica antica, è poi giunto il tempo in cui si è fatta strada l’ermeneutica psicoanalitica moderna. Infatti, Freud scrive che il piede ha anche un significato fallico e la calzatura sarebbe un simbolo della femminilità. Freud e Jung sostengono che il piede sarebbe il simbolo infantile del fallo. Un secolo prima del suddetto dottore austriaco, Restif de La Bretonne aveva una considerazione altissima del piede e una calzatura, per lo scrittore del contadino o della contadina pervertita o delle notti di Parigi, era sinonimo di un potente eccitante sessuale.
L’arte moderna ha dunque riassunto e sintetizzato sia la tradizione simbolica antica, che l’analitica moderna e ha trasformato la ricerca sul dettaglio del corpo come una sfida a ciò che si nasconde. Alberto Giacometti ha fondato tutta la vita enigmatica dei suoi esseri sul cammino e sulla sospensione di quei larghi piedi che si compattano e si ammassano come grandi orme. Philip Guston per tutti gli anni Settanta ha prodotto delle opere in cui campeggiano figure solitarie, personaggi incappucciati, bulbi oculari o piedi seminascosti in apocalittiche discariche cosparse di orologi, mattoni e macerie. Ricordiamo di Guston Painting Smoking, Eating, un autoritratto dell’artista che lo mostra circondato di scarpe nello studio illuminato da una spoglia lampadina. Usando un po’ di fantasia è come se l’arte moderna avesse ingigantito le ansie introdotte dalla psicoanalisi, aggiungendovi le deformazioni scoperte dalla scienza moderna. Invero, facciamo un esempio che tocca il campo della biochimica e della medicina sociale per capire dove arriva il fenomeno della deformazione e, iconologicamente, ci facciamo pure aiutare dal lavoro sui freaks di Antonello Matarazzo. Esiste una malattia chiamata l’acromegalia, che è un’affezione collegata alla produzione eccessiva dell’ormone della crescita ipofisaria; dopo i vent’anni chi è attaccato da questo ormone è soggetto ad una forma di gigantismo degli arti e della faccia che testimonia uno scombussolamento del sistema endocrino. Diciamo pure che l’arte moderna - dopo la forma del corpo assunta dalle Demoiselles D’Avignon - ha causato la stessa alterazione alla visione del corpo. La rivoluzione dell’arte moderna, tanto bistrattata da H. Sedlmayr, ha causato una perturbazione endocrina della visione del corpo, riconsegnandocela in una forma totalmente destabilizzata.
Da qui la realtà di un piede che da Battistello giunge ad Hans Arp e da Dubuffet arriva fino al corpo smembrato e senza organi contemporaneo. Partendo, dunque, da una considerazione così allargata, è facile giungere agli esempi che si dissolvono fino alle visioni più recenti, coinvolte da una totale crisi dei valori. Vito Mazzocchi, da modesto artigiano, da un po’ di anni si è imbarcato tra gli osservatori attenti dell’estetica del piede e tenta questa strada senza porci di fronte alla risoluzione dei massimi sistemi. Infatti, cercando l’immagine della forza, della potenza, dell’energia ma nel contempo la depravazione che potrebbe essere collegata al “pede”, Mazzocchi scandaglia l’opportunità di ricavare da una parte inferiore e da una estremità del nostro corpo le affezioni e le paranoie legate al vissuto della nostra corporeità. Egli sostiene che il piede è uno degli elementi portanti dell’essere umano, che rimane ancora per forza di cose (ragioni poco spaziali) a contatto con la terra. Naturalmente Mazzocchi guarda e ci fa guardare con attenzione all’esasperazione del look a cui siamo sottoposti quotidianamente e cerca di denunciare l’uso totalizzante che il nostro corpo ha subito nelle mani dei media, che hanno accompagnato a “piedi nudi” il nostro progressivo e totale svuotamento. Come risposta al carattere assoluto delle immagini della Vanessa Beecroft, Mazzocchi organizza Anorexic Look n. 1 e Anorexic look n. 2 e, quindi, interviene sulla refrattarietà del piede, sulla sua immagine consunta, sul suo modo di non essere più parte del corpo e di cedere di fronte alle tentazioni del maquillage. In un’installazione che mira a mostrare l’intreccio di quattro piedi, dove i sostegni sono allestiti con una sorta di cotonatura di sacco, la forma di abbraccio evocata non è né vicina a Brancusi né ad Arp, ma piuttosto vi sono le intenzioni dell’insegnamento dell’arte povera e del nouveau realisme. Più che agli abbracci o ai baci di Hayez, Klimt o Schiele, i piedi ricordano le immagini totemiche che ricorro nel villaggio Dogon. I piedi di Mazzocchi si intrecciano come in un passo di danza, di uno slow o di una musica latina, i zoccoli e i basamenti si trasformano dunque in delle ombre che si sommano una nell’altra, abbandonandosi in una liaison. I piedi si nutrono dell’energia del nostro corpo, essi mostrano l’estremità della fatica ed il piacere del cammino, ma tracciano anche i segni del tempo, di una storia e di una memoria che volontariamente o involontariamente ci accompagna. A partire da questo momento, le tracce non cessano di emergere, le estremità del nostro corpo riflettono la nostra identità, il suo campo di forza e le reticenze della sua debolezza. Come delle sculture sorrette dai volumi della nostra energia, i piedi si trasformano in dei punteruoli che servono a disegnare il nostro percorso, per delineare la traccia della nostra esistenza sul suolo, sul selciato della nostra memoria. Evitando “le buche più dure”.
Gabriele Perretta
Mentre l'anima sfuma,
la cultura dell'immagine
si ciba di noi incessantemente.
Il non essere prevale sull'essere,
la materia plagia la sostanza.
Cosa ci insegneranno ancora?
E cosa dimenticheremo?
Dove ci condurranno i nostri piedi?
Vito Mazzocchi
In collaborazione con la Galleria Sangiorgi - Laigueglia -sv-
www.galleriasangiorgi.com - info@galleriasangiorgi.com
Nella sua famosissima Fenomenologia della percezione, M. Merleau-Ponty una volta aveva scritto che: la prima verità è sicuramente “l’io penso”, ma a patto che lo si intenda come scoperta del mio “spessore corporeo”. Del resto, lo stesso Nietzsche - nell’altrettanto celebre …Zarathustra - dice che vi è una grande ragione nel corpo, perché lì è disposta la migliore saggezza. Mai come in questi ultimi anni l’arte contemporanea - ignara di come la cultura europea dell’800 e del primo e secondo ‘900 - ha tenuto in considerazione l’immagine del corpo ha straparlato di body art e storie simili, di rigetti corporali, di sangue e di erotismi inscenati. Il corpo per l’arte è diventato tutto e il contrario di tutto, ma non abbastanza qualcosa che facesse pensare al piacere, al dispositivo del desiderio, alla materialità della soddisfazione. In casi troppo rari il corpo è stato tenuto lontano dal pericolo della corporazione, della corporalità, del corpo-immagine, del corpo amuleto e di ciò che, come strumento della provocazione feticistica, si delinea nell’assoluta ibridazione del senso. Per assurdo, forse è stata proprio la pubblicità - quella che dovrebbe essere battezzata come la vera forma di arte avanzata nel mondo - a trattare una tale idea del corpo. La pubblicità nel contemporaneo - e lo continuiamo a dire provocatoriamente - è la matrigna di ogni palingenesi creativa. La pubblicità negli ultimi decenni si è totalmente impossessata di qualsiasi forma di immagine e di cultura del corpo. A partire da questo fenomeno di parossismo, alcuni artisti - per consenso o dissenso - si soffermano dunque su un dettaglio del corpo, o in particolare su una parte del proprio corpo, sforzandosi di individuare un’ironia sull’uso che di questi fanno le diverse forme della pubblicità.
Nel passato anche il soffermarsi su un dettaglio del corpo era una forma di icastizzazione del desiderio. Il piede è un simbolo fondamentale nella cultura delle popolazioni antiche. Ad esempio la pianta del villaggio dogon è antropomorfa e il piede fra quelle popolazioni è come un santuario. I piedi Neri sono una nota confederazione di tribù degli Indiani d’America. E inoltre, avendo modo di leggere Le notti bianche di Aulo Gallio, si può apprendere come Pitagora dedusse la statura di Ercole dalla lunghezza del suo piede: “Ex pede, Herculem”. Continuando poi con i riferimenti storici, il pittore napoletano Battistello Caracciolo nella Lavanda dei piedi, composto per il Coro della Certosa di San Martino, influenzato da Caravaggio, usa far risaltare quella parte del corpo come una magia. Per capire, poi, quanto il piede fosse importante nella tradizione antica extraoccidentale, basta consultare i racconti del Buddha. Quest’ultimo sin dalla sua nascita misurò l’universo facendo sette passi in ciascuna delle direzioni dello spazio. Ma da quei tempi in cui regnava la simbologia classica antica, è poi giunto il tempo in cui si è fatta strada l’ermeneutica psicoanalitica moderna. Infatti, Freud scrive che il piede ha anche un significato fallico e la calzatura sarebbe un simbolo della femminilità. Freud e Jung sostengono che il piede sarebbe il simbolo infantile del fallo. Un secolo prima del suddetto dottore austriaco, Restif de La Bretonne aveva una considerazione altissima del piede e una calzatura, per lo scrittore del contadino o della contadina pervertita o delle notti di Parigi, era sinonimo di un potente eccitante sessuale.
L’arte moderna ha dunque riassunto e sintetizzato sia la tradizione simbolica antica, che l’analitica moderna e ha trasformato la ricerca sul dettaglio del corpo come una sfida a ciò che si nasconde. Alberto Giacometti ha fondato tutta la vita enigmatica dei suoi esseri sul cammino e sulla sospensione di quei larghi piedi che si compattano e si ammassano come grandi orme. Philip Guston per tutti gli anni Settanta ha prodotto delle opere in cui campeggiano figure solitarie, personaggi incappucciati, bulbi oculari o piedi seminascosti in apocalittiche discariche cosparse di orologi, mattoni e macerie. Ricordiamo di Guston Painting Smoking, Eating, un autoritratto dell’artista che lo mostra circondato di scarpe nello studio illuminato da una spoglia lampadina. Usando un po’ di fantasia è come se l’arte moderna avesse ingigantito le ansie introdotte dalla psicoanalisi, aggiungendovi le deformazioni scoperte dalla scienza moderna. Invero, facciamo un esempio che tocca il campo della biochimica e della medicina sociale per capire dove arriva il fenomeno della deformazione e, iconologicamente, ci facciamo pure aiutare dal lavoro sui freaks di Antonello Matarazzo. Esiste una malattia chiamata l’acromegalia, che è un’affezione collegata alla produzione eccessiva dell’ormone della crescita ipofisaria; dopo i vent’anni chi è attaccato da questo ormone è soggetto ad una forma di gigantismo degli arti e della faccia che testimonia uno scombussolamento del sistema endocrino. Diciamo pure che l’arte moderna - dopo la forma del corpo assunta dalle Demoiselles D’Avignon - ha causato la stessa alterazione alla visione del corpo. La rivoluzione dell’arte moderna, tanto bistrattata da H. Sedlmayr, ha causato una perturbazione endocrina della visione del corpo, riconsegnandocela in una forma totalmente destabilizzata.
Da qui la realtà di un piede che da Battistello giunge ad Hans Arp e da Dubuffet arriva fino al corpo smembrato e senza organi contemporaneo. Partendo, dunque, da una considerazione così allargata, è facile giungere agli esempi che si dissolvono fino alle visioni più recenti, coinvolte da una totale crisi dei valori. Vito Mazzocchi, da modesto artigiano, da un po’ di anni si è imbarcato tra gli osservatori attenti dell’estetica del piede e tenta questa strada senza porci di fronte alla risoluzione dei massimi sistemi. Infatti, cercando l’immagine della forza, della potenza, dell’energia ma nel contempo la depravazione che potrebbe essere collegata al “pede”, Mazzocchi scandaglia l’opportunità di ricavare da una parte inferiore e da una estremità del nostro corpo le affezioni e le paranoie legate al vissuto della nostra corporeità. Egli sostiene che il piede è uno degli elementi portanti dell’essere umano, che rimane ancora per forza di cose (ragioni poco spaziali) a contatto con la terra. Naturalmente Mazzocchi guarda e ci fa guardare con attenzione all’esasperazione del look a cui siamo sottoposti quotidianamente e cerca di denunciare l’uso totalizzante che il nostro corpo ha subito nelle mani dei media, che hanno accompagnato a “piedi nudi” il nostro progressivo e totale svuotamento. Come risposta al carattere assoluto delle immagini della Vanessa Beecroft, Mazzocchi organizza Anorexic Look n. 1 e Anorexic look n. 2 e, quindi, interviene sulla refrattarietà del piede, sulla sua immagine consunta, sul suo modo di non essere più parte del corpo e di cedere di fronte alle tentazioni del maquillage. In un’installazione che mira a mostrare l’intreccio di quattro piedi, dove i sostegni sono allestiti con una sorta di cotonatura di sacco, la forma di abbraccio evocata non è né vicina a Brancusi né ad Arp, ma piuttosto vi sono le intenzioni dell’insegnamento dell’arte povera e del nouveau realisme. Più che agli abbracci o ai baci di Hayez, Klimt o Schiele, i piedi ricordano le immagini totemiche che ricorro nel villaggio Dogon. I piedi di Mazzocchi si intrecciano come in un passo di danza, di uno slow o di una musica latina, i zoccoli e i basamenti si trasformano dunque in delle ombre che si sommano una nell’altra, abbandonandosi in una liaison. I piedi si nutrono dell’energia del nostro corpo, essi mostrano l’estremità della fatica ed il piacere del cammino, ma tracciano anche i segni del tempo, di una storia e di una memoria che volontariamente o involontariamente ci accompagna. A partire da questo momento, le tracce non cessano di emergere, le estremità del nostro corpo riflettono la nostra identità, il suo campo di forza e le reticenze della sua debolezza. Come delle sculture sorrette dai volumi della nostra energia, i piedi si trasformano in dei punteruoli che servono a disegnare il nostro percorso, per delineare la traccia della nostra esistenza sul suolo, sul selciato della nostra memoria. Evitando “le buche più dure”.
Gabriele Perretta
Mentre l'anima sfuma,
la cultura dell'immagine
si ciba di noi incessantemente.
Il non essere prevale sull'essere,
la materia plagia la sostanza.
Cosa ci insegneranno ancora?
E cosa dimenticheremo?
Dove ci condurranno i nostri piedi?
Vito Mazzocchi
In collaborazione con la Galleria Sangiorgi - Laigueglia -sv-
www.galleriasangiorgi.com - info@galleriasangiorgi.com
13
marzo 2004
Vito Mazzocchi – Look immagine & contraddizioni
Dal 13 al 28 marzo 2004
arte contemporanea
Location
GALLERIA INSTALLART
Caserta, Via Annibale Ceccano, 3/5, (Caserta)
Caserta, Via Annibale Ceccano, 3/5, (Caserta)
Orario di apertura
da Martedì a Sabato 18.00 / 20.00
Vernissage
13 Marzo 2004, ore 18
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