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Eros Pellini / Attilio Melo – La forma e l’emozione
In mostra una selezione di sculture in bronzo di Eros Pellini, scomparso dieci anni fa, e venti dipinti ad olio realizzati da Attilio Melo, artista amico di Pellini.
Comunicato stampa
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In mostra una selezione di sculture in bronzo di Eros Pellini, scomparso dieci anni fa, figlio d’arte (il padre era lo scultore Eugenio Pellini) e maestro a Brera di generazioni di artisti; fondamentale inoltre il suo impegno nella realizzazione di opere in ambito sacro, presenti in numerosi luoghi di culto (come in Vaticano e nel monastero di Cascia). Alle pareti, affiancano le sculture venti dipinti ad olio realizzati da Attilio Melo, artista amico di Pellini. I dipinti esposti hanno tutti per tema due grandi città italiane: Milano (città in cui l’artista vive) che Melo ha saputo rendere con grande levità e suggestione (mirabili le nevicate), isolandone alcuni momenti in cui la nevrosi della metropoli sembra non appartenerle e Venezia (città d’origine, il primo amore mai sopito), in cui traspare tutta la malinconica bellezza della città.
Scrive Flaminio Gualdoni :
Un buon sentore di civiltà artistica, sobria, solida, fatta da honnête hommes, promana da questa mostra: che è racconto, primariamente, d’una amicizia lunga e fervida.
Eros Pellini, classe 1909, e il più giovane Attilio Melo, sono figli di Brera: ovvero d’un clima, d’una identità, che è contata, e ancora conta, più dello scapicollarsi del dibattito novecentesco. L’uno scultore, l’altro ritrattista e paesista in pittura, portano nel secolo trascorso l’orgoglio altoartigianale, la severità del mestiere, un’idea di gusto che non vogliono contrapporsi, per superamento, alla lezione dell’Ottocento, ma da essa evolvere, con juicio, sino a metamorfizzarsi in un probabile umore moderno. Guardo le sculture di Pellini, che sin dagli anni Trenta si misurano con le forme serrate, narrativamente scabre, di Martini, insieme non immemori del crepitare delle superfici, dello sfinirsi sottile delle forme che è della lezione scapigliata così come della francese. Sono corpi, sempre, in una logica di genere dalla quale è superfluo discostarsi: nudini, danzatrici, in un repertorio di pose tese sul filo dello stupore emozionato, ma lungamente filtrato nel vaglio mentale, del corpo, della forma. E’ stupore, come una rivelazione, nutrito da una sorta di amore religioso per l’immagine di vita: Pellini non laicizza la scultura, men che meno ne fa anatomia teorica; ancora, per lui, creare vuol dire assai più del semplice fare.
Ciò che per lui è l’identità plastica del corporeo, è per Melo la luce nella visione. La sua rosa di riferimenti è sicura, risiede tutta - tra le filigrane del grande luminismo veneziano che in lui è, verrebbe da dire, retaggio di sangue - nel paesismo tra Ottocento e Novecento, in un vero di natura che si fa fasto luminoso, pulsazione poetica che dalle cose non trascorre, ma ne è lievito e spirito: vogliamo dire, per intenderci, un Longoni, un Reycend, un Carcano e, perché no, un Tosi? Anche Melo assetta la propria personalità entro perimetri sicuri di genere, il ritratto, il paesaggio. Ma par distillarne qualcosa d’altro, rispetto alla mera adesione a protocolli di modo. E’ la luce che intride, appena offuscata dalle ombre prime, la neve su Brera, o il baluginare d’Oriente nelle cose veneziane, dai fremiti guardeschi ma di salda, immediata, sensuosa partecipazione al dato visivo. Come Pellini nei recinti sicuri della plastica di corpo, così Melo non avverte la necessità di épater, di porre in discussione l’apparato dei codici. E’ il miracolo della luce ad attrarlo, quel mutare che è stato d’animo e non fisiologia percettiva, quel sentimento delle cose che ha il coraggio di non ammantarsi d’altro che del proprio ridarsi fragrante, posa dopo posa.
Consapevoli, entrambi, sono di porsi così in una gora del dibattito artistico, in una inattualità che vien letta anacronismo. Ma sono certi, altresì, che la gioia fremente e feroce del plasticare materia finché non ne nasca una persona, che l’ansia emozionata di far precipitare lì, sul quadro, una stilla di luce autre, è l’unica ragione che da millenni andiamo cercando nell’arte: comunque. Dunque sanno bene, per dire con le parole di saggezza proprio di uno dei grandi della modernità, Mies van der Rohe, che è “molto meglio essere bravi, che originali”.
Scrive Flaminio Gualdoni :
Un buon sentore di civiltà artistica, sobria, solida, fatta da honnête hommes, promana da questa mostra: che è racconto, primariamente, d’una amicizia lunga e fervida.
Eros Pellini, classe 1909, e il più giovane Attilio Melo, sono figli di Brera: ovvero d’un clima, d’una identità, che è contata, e ancora conta, più dello scapicollarsi del dibattito novecentesco. L’uno scultore, l’altro ritrattista e paesista in pittura, portano nel secolo trascorso l’orgoglio altoartigianale, la severità del mestiere, un’idea di gusto che non vogliono contrapporsi, per superamento, alla lezione dell’Ottocento, ma da essa evolvere, con juicio, sino a metamorfizzarsi in un probabile umore moderno. Guardo le sculture di Pellini, che sin dagli anni Trenta si misurano con le forme serrate, narrativamente scabre, di Martini, insieme non immemori del crepitare delle superfici, dello sfinirsi sottile delle forme che è della lezione scapigliata così come della francese. Sono corpi, sempre, in una logica di genere dalla quale è superfluo discostarsi: nudini, danzatrici, in un repertorio di pose tese sul filo dello stupore emozionato, ma lungamente filtrato nel vaglio mentale, del corpo, della forma. E’ stupore, come una rivelazione, nutrito da una sorta di amore religioso per l’immagine di vita: Pellini non laicizza la scultura, men che meno ne fa anatomia teorica; ancora, per lui, creare vuol dire assai più del semplice fare.
Ciò che per lui è l’identità plastica del corporeo, è per Melo la luce nella visione. La sua rosa di riferimenti è sicura, risiede tutta - tra le filigrane del grande luminismo veneziano che in lui è, verrebbe da dire, retaggio di sangue - nel paesismo tra Ottocento e Novecento, in un vero di natura che si fa fasto luminoso, pulsazione poetica che dalle cose non trascorre, ma ne è lievito e spirito: vogliamo dire, per intenderci, un Longoni, un Reycend, un Carcano e, perché no, un Tosi? Anche Melo assetta la propria personalità entro perimetri sicuri di genere, il ritratto, il paesaggio. Ma par distillarne qualcosa d’altro, rispetto alla mera adesione a protocolli di modo. E’ la luce che intride, appena offuscata dalle ombre prime, la neve su Brera, o il baluginare d’Oriente nelle cose veneziane, dai fremiti guardeschi ma di salda, immediata, sensuosa partecipazione al dato visivo. Come Pellini nei recinti sicuri della plastica di corpo, così Melo non avverte la necessità di épater, di porre in discussione l’apparato dei codici. E’ il miracolo della luce ad attrarlo, quel mutare che è stato d’animo e non fisiologia percettiva, quel sentimento delle cose che ha il coraggio di non ammantarsi d’altro che del proprio ridarsi fragrante, posa dopo posa.
Consapevoli, entrambi, sono di porsi così in una gora del dibattito artistico, in una inattualità che vien letta anacronismo. Ma sono certi, altresì, che la gioia fremente e feroce del plasticare materia finché non ne nasca una persona, che l’ansia emozionata di far precipitare lì, sul quadro, una stilla di luce autre, è l’unica ragione che da millenni andiamo cercando nell’arte: comunque. Dunque sanno bene, per dire con le parole di saggezza proprio di uno dei grandi della modernità, Mies van der Rohe, che è “molto meglio essere bravi, che originali”.
05
novembre 2003
Eros Pellini / Attilio Melo – La forma e l’emozione
Dal 05 al 23 novembre 2003
arte contemporanea
Location
GALLERIA PONTE ROSSO
Milano, Via Brera, 2, (Milano)
Milano, Via Brera, 2, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a sabato 10-12.30 e 15.30-19 / domenica 15.30-19
la terza domenica del mese la galleria è aperta anche al mattino
Vernissage
5 Novembre 2003, ore 18. presentazione di FLAMINIO GUALDONI