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Paolo Gubinelli
Arte e poesia – incontri di Bruno Corà
Comunicato stampa
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Il segno, la piega, il taglio, il colore
di Bruno Corà
Se si vuole conoscere il nucleo vitale e poetico di un artista, spesso bisogna attingere alle primissime sue tracce, protomorfologie o sussurrati propositi che, pur timidamente, hanno però l’ardire di traguardare già tutto, con lo sguardo della volontà e del desiderio, il proprio futuro percorso.
Nell’atto di nascita artistica o di autocertificazione pubblica di Paolo Gubinelli, uno statement steso nel lontano 1975, è possibile, infatti, cogliere un’attitudine fondamentale che regola l’intera opera successiva: “il concetto di struttura-spazio-luce si muove nell’ambito di una ricerca razionale, analitica in cui tendo a ridurre sempre più i mezzi e i modi operativi in una rigorosa ed esigente meditazione”. La dichiarazione è di quelle cariche di una chiarezza e determinazione che non lasciano margine a dubbi di qualificazione: Gubinelli inscrive la propria azione artistica in quell’ambito linguistico che nel XX secolo ha dato corpo all’istanza compositiva riduzionista e lucidamente razionale che, d’altronde, le prime letture critiche della sua opera riconosceranno e confermeranno, indicandone in buona parte sia i confini originari che gli antenati ordinatori: “… quella linea di ricerca, definita ‘analitica’ – scrive la Masini nel ‘77– che prendendo avvio dalle proposte di spazio-luce-colore nella dinamica luminosa dell’atmosfera, già espressa nelle “compenetrazioni iridescenti” di Balla si è svolta scavalcando – senza peraltro ignorarlo – tutto il momento astratto-geometrico europeo; e ripresa nel secondo dopoguerra diramandosi nei due grandi filoni, quello europeo e quello americano (..) E ha dato luogo, da un lato, al neoconcretismo (…) arrivando fino alle recenti ricerche di “riflessione sulla pittura” e di “analisi sui mezzi” (da Fontana a Castellani, a Dorazio, da Gaul a Griffa, a Support Surface …), dall’altro a quella che si è definita la “linea fredda”, la “pittura opaca” o “analitica” americana …”.
Fin dagli esordi, dunque, se ovviamente si omettono le prove giovanili precoci e quelle degli studi accademici, Gubinelli trova collocazione critica e, quel che è più importante, un indirizzo operativo molto preciso, così come lo sono i mezzi, gli strumenti e le modalità da lui prescelti per l’azione: la carta, la lama, la piegatura manuale del supporto, la considerazione della luce; obiettivo: una spazialità sensibile, percepibile all’occhio attento e al tatto desideroso, quello suo e quello dei suoi estimatori.
Il ciclo delle “incisioni” su carta (1973 e delle “incisioni, piegature su carta” bianca (1974-78) appare davvero subito esigente e rigoroso; una summa paradigmatica tesa e coraggiosa che riesce, pur dopo l’imprinting precursorio già evocato, a ricavare una propria intercapedine nell’edificio spazialista, con spiccato carattere dematerializzatore. Tornando a osservarli oggi, quegli elementari proclami fatti di gesti decisi, talmente calibrati e misurati in termini di energia, di spazio-temporalità considerata nell’atto incisorio, di sensibilità trattenuta sulla materia, ma anche di avventuroso ingresso nelle latitudini polari della monocromia o addirittura dell’acromia postmanzoniana, si comprende come fossero le prime sillabe e i primi sostantivi di un nuovo discorso, dopo una meditazione tanto intensa quanto maturata nel riserbo. Concentrazione e riflessione che rendevano allora possibile porsi obiettivi che l’assiduità di un metodo dimostrava raggiungibili: la texture e il ritmo che gesto, segno, taglio e piega disponevano a campitura dove l’antinomia della luce e dell’ombra costruivano l’entità spaziale concepita da Gubinelli. Sorprende come una nuova superficie, ancorché lasciata priva di addizioni cromatiche, col solo mutamento dell’uniformità di quota, sotto l’azione di sollecitazioni tanto elementari quanto ridotte alle minime potenzialità di effetti, abbia potuto raggiungere talmente tante versioni di qualificazione spaziale da estendersi su un intero lustro, con una gran quantità e varietà di esiti.Quella tenacia e quella assiduità davvero evocano i metodi cari a Castellani e direi allo stesso Melotti nelle rispettive opere degli anni Sessanta e Trenta. Gli andamenti delle incisioni di quelle sue carte, la loro dinamica oppositiva, parallela, trasversale, l’ottenimento di quelle forme che sembrano mutuare dall’arcaicità dorica del fondamento motile la loro intima ragion d’essere, la loro civile, primaria interazione, per un’immagine che ostenta solo i suoi principi costruttivi, danno a quelle iniziali ma già espertissime prove un peso determinante e grammaticamente basilare.
L’installazione del ’77 di dieci grandi carte incise secondo quanto è giunto a concepire a quella data Gubinelli, con la sua produzione, configura un organismo oltretutto dotato di ingombro topologico che aggiunge valenze ulteriori alla loro singola potenzialità. Intervalli di superficie, incisioni, pieghe che, ben oltre la propria ontologica pronunciata esistenza, ambiscono a spaziare recando nell’ambiente proprietà qualificate di misurazione ideale, virtuale, più frutto di un’intensità teoretica, etica ed estetica che meramente decorativa. La loro compilazione presume un’intensità autodisciplinare che getta una cifra di tensione tanto inverificabile quanto ossessivamente irrinunciabile. Con l’ineluttabilità di un imperativo categorico suggerito solamente dalla necessità di soddisfare un dato formale ma non meno assoluto.
Si pensava che l’arte non dovesse più conoscere questi salutari ‘inutili’ eccessi? Altroché! In quegli stessi anni, nuove personalità meditano analoghe azioni rigenerative delle nozioni di forma, spazio, materia! E’ la generazione di artisti che, almeno in Italia, dopo lo Spazialismo, l’esperienza di Azimuth e l’apparizione fugace ma luminosissima di Francesco Lo Savio – nominiamolo, l’autore di quella nozione poetica plastica di Spazio e Luce mai troppo rimpianto! – si dedica alla riqualificazione dei dati percettivi, spaziali, cromatici.
Dopo quella originaria declinazione di tagli e pieghe, che ben potrebbe costituire un apparato iconografico per le riflessioni e le analisi sulla fente e sulla pli leibniziana di Deleuze, Gubinelli ora affronta supporti di carte trasparenti, ove attua “progressioni analitiche interattive” (1978-80), e ancora carte in forma di rotoli come papiri che innalza e dispone sulle pareti srotolandoli fino a occupare il pavimento; con tali accorgimenti accentua la valenza dell’opus continuum e talvolta reticulatum già presente nelle sue opere per le modalità tecniche e segniche sino ad allora adottate.
Dopo quel fecondo decennio, all’inizio degli anni Ottanta, quasi a conclusione di una lunga ‘dieta’ che lo aveva opposto con rigore “alla tentazione di un arricchimento dell’opera”, Gubinelli lascia penetrare nel proprio lavoro il colore con la moderazione e la prudenza che l’uso di pastelli a cera, del frottage e infine dell’acquerello, suggeriscono. La luminosità del colore sulle superfici delle carte trasparenti contende ai tagli la loro iniziale supremazia spaziale. Il connubio si fa sempre più stretto, ma non sempre tuttavia della medesima tensione ed efficacia raggiunta mediante la radicalità dell’ “incidenza della luce (radente) sul mezzo stesso la carta incisa e piegata” (Gubinelli).
Ai collages e alle carte colorate a pastello e incise dell’86-87, che segnano dunque, a mio avviso, un sentiero di sperimentazione cromatica anelante alla sintesi taglio-colore non umido, si sostituiscono nell’88, più compiutamente risolti, i rapporti tra tagli e colori umidi nella tecnica dell’acquerello. In queste realizzazioni la “defenomenizzazione” di sintesi tra mezzi e tecniche evoca l’organicità, più che delle superfici, delle fisicità biologiche. Non sono così anche le presenze vive della nostra pelle, le rughe sulla fronte, sul volto, le linee e le pieghe all’interno del palmo della mano? Non sono come queste nuove carte colorate e incise anche i segni della nostra pelle e le pieghe del corpo col loro riverbero d’incarnato?
Gli esiti di quella nuova esperienza che dall’inizio degli anni Ottanta si può dire arrivi sino ad oggi, sembrano aver raggiunto un’altra segreta sintonia interna al supporto cartaceo per la sua proprietà permeabile e assorbente e la sua disposizione alla fessurazione e piega, mantenendo unità fisica. Nei casi migliori le carte liberano luminosità e trasparenze turneriane; in altri casi, non meno efficaci, il campo cromatico che pervade il supporto e imbeve del colore i segni ove esso penetra lascia riaffiorare l’identità della macchia di origine informel che, in quanto materia-colore, evoca tanto la spazialità episodica e insulare di Fautrier, quanto la dilatata espansione e pulsione già raggiunta da Rothko. Tra i lavori degli anni Novanta, le installazioni a base di acquerelli e incisioni su carta, offerti in linearità scandite a intervalli regolari (1994-97) danno conto di un avvenuta integrazione tra taglio, piega e colore; oltretutto in grado di tener testa all’antitesi tra segno e colore liberamente gestuale e caotico interno alle carte e loro successione ordinata e ortogonale sulla parete; e – ciò che è più importante – di fare accogliere come nuova qualità equilibrata l’arricchimento (seppur contenuto) dell’opera, un tempo ritenuto “tentazione” a cui opporsi.
Queste più recenti progressioni analitiche dello spazio sgravano, com’era avvenuto inizialmente e in modo nuovo, l’opera di Gubinelli dalla matericità già invero esigua; esse di fatto situano la frontiera della sua ricerca a un punto più avanzato: quello da cui si osserva e si cattura, con l’autenticità e la costante tensione a trascrivere vere e proprie partiture di luce, quella dimensione che Lo Savio definì l’ “immagine di una realtà quasi impossibile”.
di Bruno Corà
Se si vuole conoscere il nucleo vitale e poetico di un artista, spesso bisogna attingere alle primissime sue tracce, protomorfologie o sussurrati propositi che, pur timidamente, hanno però l’ardire di traguardare già tutto, con lo sguardo della volontà e del desiderio, il proprio futuro percorso.
Nell’atto di nascita artistica o di autocertificazione pubblica di Paolo Gubinelli, uno statement steso nel lontano 1975, è possibile, infatti, cogliere un’attitudine fondamentale che regola l’intera opera successiva: “il concetto di struttura-spazio-luce si muove nell’ambito di una ricerca razionale, analitica in cui tendo a ridurre sempre più i mezzi e i modi operativi in una rigorosa ed esigente meditazione”. La dichiarazione è di quelle cariche di una chiarezza e determinazione che non lasciano margine a dubbi di qualificazione: Gubinelli inscrive la propria azione artistica in quell’ambito linguistico che nel XX secolo ha dato corpo all’istanza compositiva riduzionista e lucidamente razionale che, d’altronde, le prime letture critiche della sua opera riconosceranno e confermeranno, indicandone in buona parte sia i confini originari che gli antenati ordinatori: “… quella linea di ricerca, definita ‘analitica’ – scrive la Masini nel ‘77– che prendendo avvio dalle proposte di spazio-luce-colore nella dinamica luminosa dell’atmosfera, già espressa nelle “compenetrazioni iridescenti” di Balla si è svolta scavalcando – senza peraltro ignorarlo – tutto il momento astratto-geometrico europeo; e ripresa nel secondo dopoguerra diramandosi nei due grandi filoni, quello europeo e quello americano (..) E ha dato luogo, da un lato, al neoconcretismo (…) arrivando fino alle recenti ricerche di “riflessione sulla pittura” e di “analisi sui mezzi” (da Fontana a Castellani, a Dorazio, da Gaul a Griffa, a Support Surface …), dall’altro a quella che si è definita la “linea fredda”, la “pittura opaca” o “analitica” americana …”.
Fin dagli esordi, dunque, se ovviamente si omettono le prove giovanili precoci e quelle degli studi accademici, Gubinelli trova collocazione critica e, quel che è più importante, un indirizzo operativo molto preciso, così come lo sono i mezzi, gli strumenti e le modalità da lui prescelti per l’azione: la carta, la lama, la piegatura manuale del supporto, la considerazione della luce; obiettivo: una spazialità sensibile, percepibile all’occhio attento e al tatto desideroso, quello suo e quello dei suoi estimatori.
Il ciclo delle “incisioni” su carta (1973 e delle “incisioni, piegature su carta” bianca (1974-78) appare davvero subito esigente e rigoroso; una summa paradigmatica tesa e coraggiosa che riesce, pur dopo l’imprinting precursorio già evocato, a ricavare una propria intercapedine nell’edificio spazialista, con spiccato carattere dematerializzatore. Tornando a osservarli oggi, quegli elementari proclami fatti di gesti decisi, talmente calibrati e misurati in termini di energia, di spazio-temporalità considerata nell’atto incisorio, di sensibilità trattenuta sulla materia, ma anche di avventuroso ingresso nelle latitudini polari della monocromia o addirittura dell’acromia postmanzoniana, si comprende come fossero le prime sillabe e i primi sostantivi di un nuovo discorso, dopo una meditazione tanto intensa quanto maturata nel riserbo. Concentrazione e riflessione che rendevano allora possibile porsi obiettivi che l’assiduità di un metodo dimostrava raggiungibili: la texture e il ritmo che gesto, segno, taglio e piega disponevano a campitura dove l’antinomia della luce e dell’ombra costruivano l’entità spaziale concepita da Gubinelli. Sorprende come una nuova superficie, ancorché lasciata priva di addizioni cromatiche, col solo mutamento dell’uniformità di quota, sotto l’azione di sollecitazioni tanto elementari quanto ridotte alle minime potenzialità di effetti, abbia potuto raggiungere talmente tante versioni di qualificazione spaziale da estendersi su un intero lustro, con una gran quantità e varietà di esiti.Quella tenacia e quella assiduità davvero evocano i metodi cari a Castellani e direi allo stesso Melotti nelle rispettive opere degli anni Sessanta e Trenta. Gli andamenti delle incisioni di quelle sue carte, la loro dinamica oppositiva, parallela, trasversale, l’ottenimento di quelle forme che sembrano mutuare dall’arcaicità dorica del fondamento motile la loro intima ragion d’essere, la loro civile, primaria interazione, per un’immagine che ostenta solo i suoi principi costruttivi, danno a quelle iniziali ma già espertissime prove un peso determinante e grammaticamente basilare.
L’installazione del ’77 di dieci grandi carte incise secondo quanto è giunto a concepire a quella data Gubinelli, con la sua produzione, configura un organismo oltretutto dotato di ingombro topologico che aggiunge valenze ulteriori alla loro singola potenzialità. Intervalli di superficie, incisioni, pieghe che, ben oltre la propria ontologica pronunciata esistenza, ambiscono a spaziare recando nell’ambiente proprietà qualificate di misurazione ideale, virtuale, più frutto di un’intensità teoretica, etica ed estetica che meramente decorativa. La loro compilazione presume un’intensità autodisciplinare che getta una cifra di tensione tanto inverificabile quanto ossessivamente irrinunciabile. Con l’ineluttabilità di un imperativo categorico suggerito solamente dalla necessità di soddisfare un dato formale ma non meno assoluto.
Si pensava che l’arte non dovesse più conoscere questi salutari ‘inutili’ eccessi? Altroché! In quegli stessi anni, nuove personalità meditano analoghe azioni rigenerative delle nozioni di forma, spazio, materia! E’ la generazione di artisti che, almeno in Italia, dopo lo Spazialismo, l’esperienza di Azimuth e l’apparizione fugace ma luminosissima di Francesco Lo Savio – nominiamolo, l’autore di quella nozione poetica plastica di Spazio e Luce mai troppo rimpianto! – si dedica alla riqualificazione dei dati percettivi, spaziali, cromatici.
Dopo quella originaria declinazione di tagli e pieghe, che ben potrebbe costituire un apparato iconografico per le riflessioni e le analisi sulla fente e sulla pli leibniziana di Deleuze, Gubinelli ora affronta supporti di carte trasparenti, ove attua “progressioni analitiche interattive” (1978-80), e ancora carte in forma di rotoli come papiri che innalza e dispone sulle pareti srotolandoli fino a occupare il pavimento; con tali accorgimenti accentua la valenza dell’opus continuum e talvolta reticulatum già presente nelle sue opere per le modalità tecniche e segniche sino ad allora adottate.
Dopo quel fecondo decennio, all’inizio degli anni Ottanta, quasi a conclusione di una lunga ‘dieta’ che lo aveva opposto con rigore “alla tentazione di un arricchimento dell’opera”, Gubinelli lascia penetrare nel proprio lavoro il colore con la moderazione e la prudenza che l’uso di pastelli a cera, del frottage e infine dell’acquerello, suggeriscono. La luminosità del colore sulle superfici delle carte trasparenti contende ai tagli la loro iniziale supremazia spaziale. Il connubio si fa sempre più stretto, ma non sempre tuttavia della medesima tensione ed efficacia raggiunta mediante la radicalità dell’ “incidenza della luce (radente) sul mezzo stesso la carta incisa e piegata” (Gubinelli).
Ai collages e alle carte colorate a pastello e incise dell’86-87, che segnano dunque, a mio avviso, un sentiero di sperimentazione cromatica anelante alla sintesi taglio-colore non umido, si sostituiscono nell’88, più compiutamente risolti, i rapporti tra tagli e colori umidi nella tecnica dell’acquerello. In queste realizzazioni la “defenomenizzazione” di sintesi tra mezzi e tecniche evoca l’organicità, più che delle superfici, delle fisicità biologiche. Non sono così anche le presenze vive della nostra pelle, le rughe sulla fronte, sul volto, le linee e le pieghe all’interno del palmo della mano? Non sono come queste nuove carte colorate e incise anche i segni della nostra pelle e le pieghe del corpo col loro riverbero d’incarnato?
Gli esiti di quella nuova esperienza che dall’inizio degli anni Ottanta si può dire arrivi sino ad oggi, sembrano aver raggiunto un’altra segreta sintonia interna al supporto cartaceo per la sua proprietà permeabile e assorbente e la sua disposizione alla fessurazione e piega, mantenendo unità fisica. Nei casi migliori le carte liberano luminosità e trasparenze turneriane; in altri casi, non meno efficaci, il campo cromatico che pervade il supporto e imbeve del colore i segni ove esso penetra lascia riaffiorare l’identità della macchia di origine informel che, in quanto materia-colore, evoca tanto la spazialità episodica e insulare di Fautrier, quanto la dilatata espansione e pulsione già raggiunta da Rothko. Tra i lavori degli anni Novanta, le installazioni a base di acquerelli e incisioni su carta, offerti in linearità scandite a intervalli regolari (1994-97) danno conto di un avvenuta integrazione tra taglio, piega e colore; oltretutto in grado di tener testa all’antitesi tra segno e colore liberamente gestuale e caotico interno alle carte e loro successione ordinata e ortogonale sulla parete; e – ciò che è più importante – di fare accogliere come nuova qualità equilibrata l’arricchimento (seppur contenuto) dell’opera, un tempo ritenuto “tentazione” a cui opporsi.
Queste più recenti progressioni analitiche dello spazio sgravano, com’era avvenuto inizialmente e in modo nuovo, l’opera di Gubinelli dalla matericità già invero esigua; esse di fatto situano la frontiera della sua ricerca a un punto più avanzato: quello da cui si osserva e si cattura, con l’autenticità e la costante tensione a trascrivere vere e proprie partiture di luce, quella dimensione che Lo Savio definì l’ “immagine di una realtà quasi impossibile”.
02
agosto 2003
Paolo Gubinelli
Dal 02 al 31 agosto 2003
Location
PALAZZO DEI CAPITANI
Ascoli Piceno, Piazza Del Popolo, (Ascoli Piceno)
Ascoli Piceno, Piazza Del Popolo, (Ascoli Piceno)
Orario di apertura
9.00. – 19.00 tutti i giorni
Vernissage
2 Agosto 2003, ore 17