13 gennaio 2015

Musei riformati? No immobili. Che fare?

 
È una buona cosa che un museo italiano, anche se di eccellenza, resti fermo sei mesi (e forse oltre) in attesa di un nuovo direttore? Il Macro di Roma, acefalo per un anno e mezzo, ci dice di no. E se poi il direttore non rispettasse l’identità dell’istituzione? Stavolta è una nota sindacale a fare le pulci al programma della Riforma Franceschini per i venti musei “big”

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Li abbiamo attesi parecchio, come fossero buone novelle. E invece la verità è che i bandi per i direttori dei 20 principali musei italiani, selezionati nella riforma Franceschini, rischiano di diventare un boomerang. A lanciare l’allarme è il sindacato Confsal dei Beni Culturali, che parla di una serie di problemi decisamente tangibili.
Il primo: la possibilità che si crei un vuoto gestionale fino al prossimo 20 giugno, data di conclusione della procedura. Che vuol dire? Vuol dire che tra una candidatura e una selezione quelli che sono i poli più importanti dell’arte non avranno un direttore, e quindi nemmeno un programma. E si sa, in epoca di tagli e crisi, nonostante lo “statuto speciale” che hanno queste strutture, che cosa significhi un gap temporale lungo mezzo anno. Significa che poi bisogna rimettere tutto in assetto, recuperare liquidi, ricominciare con le attività e le mostre, e un’esposizione non si prepara in una settimana, specialmente se si tratta di prestiti, riallestimenti e chi più ne ha più ne metta. C’è poi il rischio di ricorsi, con il relativo allungamento dei tempi. 
Altra cosa, non da sottovalutare, è che tra i requisiti dei futuri direttori mancherebbe quello della cittadinanza italiana o europea. Un problema, che all’indomani della presentazione dei Bandi, ha sollevato anche la Pinacoteca di Brera, che ha anche rimarcato il fatto che a capo dell’istituzione milanese non serve un supermanager asiatico o statunitense, ma qualcuno che sappia bene di che materia si tratta, che conosca anche la situazione della città e i programmi già attivati, e che non arrivi con la pretesa di “risvegliare un museo che non è la bella addormentata in attesa di qualche principe venuto da lontano”, ma una realtà che ha ben chiara la sua vocazione e missione. Insomma, siamo alle solite. O si passa dalle nomine ad personam, giusto per usare un eufemismo, per quanto riguarda le direzioni generali del MiBACT, o si sbattono venti eccellenze tricolore in mano a uomini di holding, se andrà bene. 
Poi ci sono gli stipendi che i sindacati contestano, in relazione alle attuali e vigenti tabelle del Contratto di Lavoro, che invece non sono state toccate. Non si tratta di immense differenze, ma anche in questo caso si rischia di fare confusione. In ultimo, un’altra clausola: è previsto che la commissione possa, dopo la scadenza della presentazione delle domande, individuare ulteriori criteri di valutazione e provvedere alla distribuzione di punteggio tra tutti i criteri: «Non vorremmo che il Ministro sia obbligato a fare scelte, invece che nel rispetto della selezione pubblica, a nomina diretta e discrezionale», afferma il segretario nazionale del sindacato Confsal-Unsa Beni culturali, Giuseppe Urbino. 
Non vorremmo nemmeno noi, perché altrimenti il risultato sarebbe il solito pugno di mosche. Con il risultato che da nord a sud, dal Polo Reale di Torino a Capodimonte ai vari musei archeologici, smettessero di essere eccellenze italiane. E con i tempi che corrono, direbbe la saggezza popolare, non è un’ipotesi – purtroppo – da scartare. 

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