17 gennaio 2015

Architetture velleitarie

 
Jean Nouvel, a Parigi, diserta l’opening della sua “Filarmonica” al Parc de la Vilette, emblema di ritardi e costi lievitati. Un’altra occasione per riflettere sul potere seduttivo di progetti che poi, all’atto pratico, sembrano decisamente poco funzionali per la nostra epoca

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L’hanno definito un mucchio di pietre di un selciato ammucchiate, o un’astronave arrugginita caduta ai margini della città, al limitare di quel Parc de la Villette messo in piedi da Bernard Tschumi trent’anni fa, sul bordo del Périferique parigino. Parliamo della nuova Paris Philarmonie progettata da Jean Nouvel, con l’architetto che ha disertato l’opening dichiarando che la committenza non ha avuto rispetto per la sua professionalità e il suo magnificente progetto, l’opera – secondo il pensiero dell’architetto – l’edificio più importante della Francia del nuovo secolo.
Sarà che noi in Italia ci siamo abituati, per esempio, al ponte di Calatrava che ha impiegato il doppio del tempo necessario, per non parlare dei costi, per essere costruito e che oggi, durante le giornate di maltempo, viene ancora chiuso. O che dire della “nuvola” inceppata di Fuksas, all’Eur, dopo anni e anni di lavori e probabili infiltrazioni mafiose? O più semplicemente i ritardi cronici che dozzine di cantieri quotidianamente subiscono in balìa di amministrazioni, enti, Ministeri e altri.
In Francia però, come da altre parti più corazzate sul piano progettuale e del rinnovamento della nostra bella Italia, i due anni di ritardi e i 390 milioni di spesa per la realizzazione si sono fatti sentire, con la conseguenza che le critiche più feroci che sono state mosse è che l’edificio di Nouvel è il perfetto esempio di una costruzione fuori tempo massimo, un baluardo post-moderno (un po’ come il Guggenheim di Gehry a Bilbao) che poteva funzionare più di vent’anni fa. 
Ai tempi, appunto, dell’inaugurazione del Parc de la Villette, la cui costruzione è iniziata nel 1983.
Nouvel, dal canto suo, ha dichiarato che le maestranze hanno snaturato il suo lavoro, e i costruttori si sono impegnati in una Filarmonica che non è la sua.
La frittata però ora è fatta, e fatto sta che Parigi ha questa nuova grande “concert hall” da 3mila posti e in qualche modo, da una parte o dall’altra, i costi di mantenimento dovrà recuperarli, giusto per restare sul venale.
Quello che non torna è come mai in epoche piuttosto difficili come la nostra si scelga ancora di puntare sull’emblema, sul “faraonico”. Certo, sappiamo che trattasi di stellette che l’Amministrazione di una città, sul piano culturale, non può e non deve – assolutamente – farsi mancare. 
Il problema però, poi, è tenere fede alla festa: si organizza tutto in grande stile e con immenso fasto, e poi però all’atto pratico è come se in pieno inverno – in una splendida casa – entrassero insopportabili spifferi dalle finestre, e non vi fosse modo di mettersi al riparo. 
L’architettura ha disegnato luoghi e costretto direttori e curatori di musei a fare i conti le proprie stravaganze, idem per le acustiche di teatri o più banalmente scuole o uffici. Quello che la politica, insieme ai progettisti, oggi dovrebbe chiedersi, è quanto sia necessario questo palcoscenico. Davvero arricchisce? O forse arricchirebbe di più riempire gli spazi con qualcosa di buono – e continuativo – in questi tempi di vacche magre, non solo per la penisola? 

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