06 novembre 2018

IPERTEATRO 2018

 
Ripercorriamo la scena più viva degli ultimi anni, con una serie di focus: prima puntata dedicata agli Anagoor
di Giulia Alonzo

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La scena teatrale italiana sta vivendo un vivace fermento. Spiccano alcune personalità distanti e diverse di giovani artisti di grande talento che si stanno affermando sulla scena nazionale e internazionale. Iperteatro ripercorre il loro percorso ed esplora così la poetica di un teatro contemporaneo ad alta intensità estetica ed emotiva, spesso molto vicino alle arti visive e performative.
La prima puntata di questa serie è dedicata agli Anagoor, compagnia animata da Simone Derai e Marco Menegoni, recente vincitrice del Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2018. Nati nel 2000 a Castelfranco Veneto, gli Anagoor sono saliti alla ribalta grazie alla segnalazione al Premio Scenario 2009, il più importante riconoscimento per giovani compagnie teatrali in Italia, imponendosi subito con un lavoro di grande spessore contenutistico e linguistico dedicato alla figura e all’opera di Giorgione.
Gli Anagoor sono nati nel 2000, ma hanno raggiunto la notorietà con *jeug- e Tempesta nel 2008. Cosa avete fatto nel frattempo?
Marco Menegoni: «Sono stati anni di lotte contro i mulini a vento. Io sono entrato in Anagoor nel 2002, Simone aveva fondato la compagnia due anni prima con Paola e all’attivo avevano due lavori Baccanti e Studio su Frida. Poi insieme abbiamo affrontato per tre anni l’Orestea di Eschilo… 
Simone Derai: «…che è stato un grande laboratorio iniziale, proseguito sottotraccia. Possiamo dire che Orestea. Agamennone, Schiavi, Conversio presentata a Venezia il 20 luglio 2018 ha avuto una gestazione di quindici anni: tra il 2004 e il 2007 avevamo dato forma scenica all’intera trilogia, una tragedia all’anno. Furono presentate insieme in un’unica sera una sola volta, a Operaestate Festival Veneto a Bassano nel 2007. Poi non lo riprendemmo più, troppo grande lo sforzo produttivo. Dopo tre anni di lavoro sul testo, abbandonammo completamente la parola cercando strade parallele di indagine sulla visione e sull’uso del linguaggio: nel 2008 realizzammo *jeug-, un tentativo di dialogo tra uomo e animale, finalista al Premio Extra. L’anno successivo ci presentammo al Premio Scenario scegliendo Giorgione come carta d’identità: Tempesta era una produzione ibrida con il video in scena. Un linguaggio esperito precedentemente per un’installazione site specific all’interno della Gipsoteca di Antonio Canova».
M.M: «Parallelamente dal 2003 al 2013 abbiamo organizzato e curato un festival che cambiava titolo ogni anno, tra Castelfranco e Resana. Quel festival abitava luoghi simbolo della città come il Teatro Accademico, un Chiostro del Quattrocento, i cortili di Villa Revedin Bolasco. Anagoor è un progetto nato inizialmente per la città di Castelfranco, con l’intento di spalancare porte e finestre ai linguaggi del contemporaneo in un territorio che non era esposto a questo tipo di vocabolario, e faceva di questo la sua vocazione. Portammo in Veneto per la prima volta alcuni protagonisti della scena nazionale da tempo attivi. La crisi del 2008 ha offerto l’occasione per tagli considerevoli alla manifestazione, prima da parte della Regione, poi della Provincia e infine del Comune. E l’esperienza si è conclusa. Nel frattempo avevamo trovato lo spazio in cui lavoriamo ancor oggi, la Conigliera. Il festival resta una parte di storia fondamentale del gruppo, perché ci permise di incontrare e confrontarci con altri artisti, e di comprendere il fare teatro a 360 gradi, l’organizzazione, produzione, e non soltanto l’aspetto artistico».
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ANAGOOR Orestea prove ph Roberta Segata
Come nasce un vostro lavoro?
S.D: «Sebbene ci sia un filo d’indagine chiaro e riconoscibile, quasi ossessivo, da sempre ci troviamo a osservare gli esiti di un lungo un percorso senza ricordare più quale sia stata la scintilla iniziale. Questo perché il lavoro sul quale siamo impegnati in un dato tempo suggerisce sempre altre strade e invita ad aprire un nuovo fronte che in un tempo futuro maturerà una sua autonomia».
M.M: «Come se il lavoro precedente passasse un’informazione a quello successivo, innescando nuove e più complesse articolazioni. A volte c’è anche il desiderio di recuperare fascinazioni o esiti formali raggiunti negli anni precedenti accantonati o non totalmente sviluppati, ma che poi si sente il bisogno di far riemergere. Come se ci dessimo degli appuntamenti con materiali incontrati nel viaggio, incontri alchemici e imprevedibili. Non decidiamo a priori il testo o l’autore che vogliamo indagare. Lo incontriamo quando è necessario in quel momento. Per esempio non so cosa ora faremo dopo l’Orestea».
S.D.: «Diciamo che siamo nella fase in cui lo spettro non ha carne né corpo, ma sta iniziando a chiamare».
Sembra che abbiate deciso di volta in volta i linguaggi specifici da utilizzare: prima la parola per Orestea, poi il corpo e l’attore con *jeug-, poi il video con Canova, la pittura con Giorgione e alla fine avete messo tutto insieme…
S.D.: «Inizialmente per alcuni osservatori critici i nostri progetti apparivano formalmente chiusi, in alcuni casi troppo conclusi, lasciando intendere nell’osservazione che si lasciasse poco spazio alla ricerca. Mentre per noi la ricerca si estende tra un’opera e l’altra, nel salto tra le opere. Per questo appaiono forti scarti tra un esito e l’altro, e i lavori compaiono contaminati da un uso a volte formalmente diverso dei dispositivi di volta in volta messi in atto. Un certo ermetismo iniziale, penso a  Tempesta o a Fortuny, non escludeva un lavoro sul linguaggio. “È un rebus, giocate” continuavamo a ripetere. Quel lavoro sull’immagine e sul linguaggio è divenuto nel tempo un vero e proprio discorso sulla lingua e infine un discorso sulla parola».
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ANAGOOR Orestea prove ph Roberta Segata
I vostri spettacoli hanno un forte impianto pittorico. Come incidono le arti visive sul vostro lavoro?
M.M.: «Le arti visive informano il nostro lavoro da sempre, la pittura in particolar modo, ma anche il cinema che ci influenza e contagia. Il cinema è un’arte di cui siamo voraci. Poi entrano in gioco la formazione di ciascuno di noi e le fascinazioni personali: Simone ha studiato architettura, io sono appassionato di arti visive, specialmente rinascimentali».
S.D.: «Il cinema e la sua storia fungono a volte persino da mediatori nei confronti dei riferimenti figurativi in particolare. Riferimenti a Paradžanov, a Sokurov, a Pelešjan sono disseminati ovunque. Prendiamo Virgilio brucia: i costumi e la scena sono un omaggio a Piero Tosi, al cinema italiano degli anni ’60 e ’70, di Pasolini e Fellini, mediatori per noi della tradizione, e in grado di fornirci un vocabolario di forme adatte alla traduzione della scena, migliori del recupero diretto dei modelli romani. Disegnato il set dentro il quale giocare il reenactment, il grande sforzo di preparazione è toccato ai performer, a Marco in primo luogo, il quale dava voce a Virgilio recitando l’intero II libro dell’Eneide in latino».
Qual è il ruolo dell’attore nella messinscena e che preparazione ha?
M.M.: «La mia preparazione non è diversa da quella degli altri attori in scena. Abitare lo spazio e abitare il tempo della scena fino a farlo pulsare richiede un enorme lavoro di concentrazione e di ascolto che passa attraverso la conoscenza reciproca data dal molto tempo passato insieme. Le presenze in scena sono sempre in profonda relazione tra loro, in un rapporto che rende ogni gesto necessario: l’attore non fa appello alla memoria, ma si basa sulle reti di senso e sulle strutture relazionali che devono essere vissute ogni volta in modo autentico. Non ci possiamo permettere di “rifare” lo spettacolo, dobbiamo “ricrearlo”. È il meccanismo più difficile, perché è composto di piccole attenzioni e grande concentrazione. La disciplina riguarda tutti gli aspetti della messinscena: il corpo, il testo, la voce, il canto… Lo stesso discorso vale per un monologo, per una scena di silenzio o per un’agitazione fisica collettiva, non c’è differenza».
S.D.: «Spesso l’esito finale presenta comunità apparentemente silenti, un’apparenza data dal fatto che uno o pochi individui della comunità sembrano assumere il ruolo di portavoce. Il disegno di queste comunità ha alla base una cospirazione, una rete silenziosa, rarefatta ma intensa che richiede grande concentrazione e ascolto. La comunità si fa spazio di meditazione e ascolto, dove l’ascolto è totale, come nei monasteri dove mentre si lavora una voce singola offre parole leggendo ad alta voce».
M.M.: «È un ascolto del corpo, non solo uditivo, e riguarda tutti i sensi. Il tempo serve proprio ad affinare o a diventare consapevoli delle nostre modalità di percezione sulla scena. Noi non diremo mai a un attore come pronunciare una battuta, come nelle accademie, perché la parola, così come accade per i movimenti o per il canto, deve essere necessaria. Solo se è necessaria trova la sua espressione. Ma ci vuole tempo. Grazie a Centrale Fies, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile del Veneto, per la produzione di Orestea questa metodologia di lavoro è stata preservata e ha dato buoni frutti. È stato possibile immaginare lunghe sessioni di lavoro, in un arco temporale di sei mesi, con la compagnia in ritiro negli spazi della Conigliera, in piena campagna. Consentire agli attori di vivere tutti insieme per lunghe settimane, in questo caso con Giorgia Oneshian Nardin e Monica Tonietto e Gayané Movsisyan a guidare rispettivamente i training fisici e vocali, è l’unico modo per divenire un corpo unico che cospira, per far sedimentare il lavoro e correggere il tiro prima delle fasi di allestimento finale avvenute a Dro e alla Biennale di Venezia sotto lo sguardo attento e premuroso di Antonio Latella».
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ANAGOOR Orestea backstage ph Roberta Segata

Voi usate i classici per parlare di oggi, o no?
S.D.: «Non si tratta di adorazione del tempo remoto, di rimpianto per un tempo perduto. Né ci interessa l’attualizzazione del passato. Guardiamo al passato per tentare di illuminare cose che prima non erano visibili. E per mezzo di queste misurare la distanza che ci separa dall’antico. Questa misura dice della posizione che occupiamo nel nostro tempo. Cerchiamo di svelare ed esporre doppie facce e facce nascoste, i lati oscuri del canone, mettendo in luce moniti e allarmi lanciati da chi ci ha preceduto e spesso messi a tacere, imbavagliati da processi di glorificazione normalizzante. Si tratta di smascherare la retorica del dominante, individuandone le crepe e fornire un allenamento per sfuggire agli inganni delle propagande.
Come si fa a minare la retorica senza la retorica? Non siamo contro la natura complessa del linguaggio e delle sue tecniche, ma contro la semplificazione della parola, che è in generale semplificazione del pensiero. Vogliamo rendere visibili le complessità del mondo: la lingua dei poeti resta baluardo contro la perdita di uno sguardo capace di accogliere la complessità. Guardare l’antico è dunque un modo per ascoltare le voci di chi ha provato ad avvertirci che la strada intrapresa non è gloriosa e felice. Lo studio della fortuna del canone rivela chiaramente cosa abbiamo fatto della voce di queste Cassandre. Con Orestea si tenta una risalita verso la fonte, fino a una sorta di bivio originale, di fronte al quale un tempo si è forse operata una scelta e imboccata una strada tremenda.  È una lettura metafisica di questa tragedia, per interrogarci ancora una volta sulla concezione dell’essere e del nulla ricevute in eredità. Quali effetti ha provocato l’immaginare che l’essere finisca nel nulla sulla storia dell’Occidente: come un terremoto del pensiero simile – sentirsi destinati a una fine che è un annientamento e sentirsi capaci di tutto pur di salvarsi – abbia influito sulla costruzione politica dei mondi possibili. L’Orestea offre un modello estremo di questo scenario terribile: la volontà di sopravvivenza è declinabile in mille aspetti, anche meno sanguinosi di quelli perpetrati e subiti dagli Atridi, ma altrettanto violenti nei rapporti tra esseri umani, dentro e fuori la famiglia. La famiglia offre a Eschilo un modello esemplare. Il suo teatro è un tentativo di prassi filosofica, agli albori della filosofia. Il teatro offre un’occasione straordinaria per il pensiero e per il sentire attivati in un’unica grandiosa esperienza, un allenamento alla logica e all’empatia che resta necessità politica prioritaria.
M.M.: «Tutto questo ha un valore politico. Politici sono gli obbiettivi, politiche sono le scelte, politiche le modalità».
Anagoor è una città utopica. Che cosa è per voi l’utopia e come è cambiata nel vostro percorso?
M.M.: «Nel 2000 Anagoor era un progetto che nasceva dalla consapevolezza di non voler seguire la prassi consolidate del fare teatro. Non sapevamo quali passi mettere uno dietro l’altro. Anagoor rappresentava un miraggio all’orizzonte».
S.D.: «Un ensemble che lavora e cresce in uno spazio di campagna come la Conigliera è già ai confini dell’utopia. Non so quanto ancora saremo in grado di mantenere viva un’esperienza unica come questa… Forse l’utopia è come questo nostro ultimo lavoro: la co-spirazione di una collettività che diventa una comunità di sodali mediante la creazione. Un’esperienza di comunione non ideale ma pratica e che ha in sé l’antidoto contro venti esterni poco felici».
Giulia Alonzo
Prossime date:
14-17 novembre 2018
Et Manchi Pietà
Palazzo Barberini, Romaeuropa Festival (Roma)

25 gennaio 2019
Orestea / Agamennone, Schiavi, Conversio
Theater An Der Ruhr
(Mühlheim, Germania)
Prossima puntata di Iperteatro 2018: Davide Carnevali

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