31 ottobre 2018

Fino al 4.XI.2018 Marzia Migliora, Voce del verbo avere Palazzo Branciforte, Palermo

 

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Portava lo stesso nome della Santa patrona di Palermo l’antico Monte dei Pegni, che si staglia vertiginoso all’interno di Palazzo Branciforte, come fossero le segrete lignee della dimora cinquecentesca che la storia poco clemente ha più volte soggiogato a dannosi bombardamenti. Il labirintico antro ligneo, conosciuto anche come Monte dei Panni, è lo scheletro ancora astante della memoria storica di un’umanità affranta, straziata dalla fame e dalla primaria necessità di sostentamento. Per secoli i cittadini indigenti hanno qui lasciato in pegno beni, biancheria, doti e oggetti, affidando a questo luogo quanto di più prezioso e intimo si possedeva, in cambio di denaro contante. Una cattedrale lignea dunque, reliquiario asciutto e disarmante di una storia collettiva che emerge dalla costellazione di anonimi drammi individuali.
Con la potenza testimoniale di questo luogo si è confrontata Marzia Migliora, attraverso un intervento espositivo che assume il ritmo cadenzato di una partitura musicale. Il progetto, curato da Valentina Bruschi e Beatrice Merz, fa parte delle iniziative di Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018 e si inserisce in Punte brillanti di lance, un programma di mostre ed eventi avviato nel 2017 dalla Fondazione Merz per la Città di Palermo.
Estensione e prolungamento delle maglie lignee, i raggi del sole definiscono la controparte luminosa dell’architettura: le frange abbacinanti della realtà incombono timide ma meticolose, allungandosi verso l’interno del deposito fittamente inframmezzato da travi, assi e nervature coriacee. Così penetrando, i raggi s’infrangono in ballatoi, scale e palchetti, disegnando per terra la forma composta di una griglia, che s’imprime, come fosse un display, sulla schiena dell’artista. Entro lo spazio così articolato, Marzia Migliora riposiziona il suo corpo, la schiena messa a nudo, forse come indice di consapevolezza del proprio stare al mondo, come misura dello spazio dell’uomo che tracima dall’intelaiatura dell’esistenza. La foto, immagine guida della mostra, è infatti un omaggio a Dora Diamant, ultima compagna di Franz Kafka, che lo assistette nella fase terminale della sua vita, quando scrisse Un digiunatore (1922). 
Così, nell’armatura sorda del Monte dei Pegni, da cui trasudano incomunicabili dolori, sofferenze e desiderio di riscatto, l’artista avvia un percorso di riflessione politica e sociale sulla condizione dell’uomo, sul denaro e il cibo come nuove forme di schiavitù, sul desiderio di riscatto, sui principi di inclusione ed esclusione sociale, sul potenziale trasformativo legato al lavoro e ai desideri dell’uomo.
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Marzia Migliora, Voce del verbo avere, 2018, mandibola di squalo 26,5 × 23 cm, Dracma d’argento del 1930 (⌀ 2,5 cm), struttura di ferro 40 × 12 × 26,5 cm. Foto di Sandro Scalia. Courtesy l’artista, Fondazione Merz, Galleria Lia Rumma Milano/Napoli

Inizia con la Fabbrica Illuminata il tracciato espositivo, opera realizzata per la mostra “Velme” (2017) a Ca’ Rezzonico a Venezia, accordando un preludio che suona in realtà come un ritorno all’origine, alla Sicilia come terra in cui i blocchi di salgemma hanno riposato al buio per sei milioni di anni. Dalle cave Italkali di Realmonte sono infatti stati prelevati e installati su cinque banchi da orafo, in attesa di essere lavorati e trasformati in merce, nel sale “oro bianco” dell’antichità. Lo sfruttamento delle materie naturali, erette a un rango di nobiltà economica dal lavoro umano, rimanda senza dubbi alla storia del Monte dei Pegni, alla funzione cui assolveva, di tramutare in contanti, di fatto, la condizione di fame insepolta dei più poveri, il loro vivere da esuli le strettoie liminali della società. 
Tre opere inedite stringono ulteriormente il legame con le viscere lignee di Palazzo Branciforte. Voce del verbo avere (2018), da cui la mostra prende il titolo, scende ancora più nel profondo della storia e dell’indagine umana, attingendo al simbolico, al mito, alla pratica funebre che nell’antica Grecia si rifaceva ancora ad uno scambio. L’obolo di Caronte, la moneta d’argento che veniva posta nella bocca dei defunti perché il traghettatore di anime li consegnasse agli inferi, diventa qui una dracma greca stretta tra le fauci di uno squalo. Demetra resta impressa come iconografia della madre terra, legata all’immagine della spiga di grano, portatrice di una fonte di sostentamento nutritivo, ma, val la pena di ricordarlo, anche dei culti misterici eleusini, che hanno aperto alla possibilità di custodire speranze più elevate per la vita terrena e per il suo prosieguo nell’aldilà. La storia, dal remoto passato mitologico, in uno scarto sottilissimo si stringe al presente, all’evocazione di un presente prossimo, alla crisi economica dilagante di cui la Grecia è diventata simbolo, alle ineludibili e bramose morse del mercato. 
Lucenti, come dovevano apparire molti dei beni alloggiati in questa struttura, sono le sette pinze odontoiatriche dell’installazione Pane di Bocca (2017), ognuna serrata a stringere una fede di latta del 1935 recante l’incisione che ricorda l’atto di devozione dichiarato dal popolo italiano al regime fascista, quando in massa fu chiamato a consegnare le fedi nuziali in cambio di un succedaneo in latta, a sostegno della causa bellica in Etiopia. Ma poco più avanti nel percorso espositivo, al bagliore dei sette dispositivi incastonati nell’elevatissima impalcatura architettonica, parte variabile dell’attenzione è catturata dal dato uditivo: il ripetersi monotono e inesauribile di un dispositivo richiama verso l’ultima sala, dove l’Arte della fame (dal saggio di Paul Auster), diventa una cinica giostra della fame che costringe tre allodole a rincorrere una pepita d’oro, seguendo la circonferenza dello specchio su cui è imperniato l’asse che le sostiene in volo a mezz’aria. Una pepita, come una piccola briciola dorata, è l’oggetto del desiderio che mantiene in vita il volo affannato delle tre tassidermie; un incedere che manca d’ogni fine, che suggerisce, all’opposto, la perdita della capacità di desiderare quando si soffre la fame. Prodotto dal battere meccanico delle loro ali, un rumore minuto si avvicenda consecutivo e rimbomba in un profondo e impercettibile, paradossale silenzio. Riecheggia muto nell’abisso riflesso dell’ossatura lignea, che sembra continuare infinita oltre la superficie specchiata. A guardare dentro questo pozzo vertiginoso, tutto si moltiplica in tortuose realtà, immettendo nel complesso labirinto “borghesiano” dell’esistenza. Qui il moto perpetuo e lo scuotere delle ali si perdono nelle propaggini della voliera, da secoli custode di una raggiunta unità di tempo, di una dimensione in cui il divenire si è cristallizzato sotto l’onta granitica delle storie imprigionate. Così come si annulla nell’assoluto solipsismo il battito dell’orologio che, unica altra presenza nella gabbia, scandisce il tempo implacabile del digiunatore, dettando il ritmo rigoroso e cogente dell’abisso umano.
Giuseppina Vara
mostra visitata il 18 ottobre
Dall’ 8 settembre al 4 novembre 2018
Marzia Migliora, Voce del verbo avere
Palazzo Branciforte, Fondazione Sicilia
via Bara all’Olivella, 2 Palermo
Orari: dal martedì alla domenica 09:30-19.30 
Info: Fondazione Sicilia tel. +39 091 7657621 (biglietteria), info@palazzobranciforte.it
Fondazione Merz tel. +39 011 19719437, info@fondazionemerz.org

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