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27
ottobre 2018
Margherita Sarfatti: il Novecento sono io!
Progetti e iniziative
Ascesa, declino e oblio di una delle personalità più rivoluzionarie e “rifiutate” del secolo scorso, in due mostre congiunte a Palazzo Reale di Milano, e al MART di Rovereto
Margherita Sarfatti (1880-1961), veneziana, ebrea, giornalista, libera, colta, raffinata, ambiziosa, narcisista, spregiudicata, ricca, intraprendente manipolatrice di uomini e di donne di potere pur di conseguire i propri obiettivi. Donna volitiva e madre moderna che incarna il principio di volontà di autodeterminazione, in una cultura maschilista. Alla critica d’arte, intellettuale e politica più controversa del XX secolo, il museo milanese del Novecento, con la mostra “Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano” a cura di Anna Maria Montaldo e Danka Gacon e la collaborazione di Antonello Negri e il MART di Trento e Rovereto con “Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo”, a cura di Daniela Ferrari a cui hanno collaborato Ilaria Cimonetti e i ricercatori dell’Archivio del’900 del museo, dedicano due imperdibili rassegne storiche “autonome e complementari” (con unico catalogo Electa).
Incentrate sul ruolo culturale di Sarfatti, le mostre vogliono andare oltre il pregiudizio sulla donna come amante di Benito Mussolini degli esordi, nel 1912, quando era ancora inebriato da ideali socialisti, e poi “compromessa” con il regime fascista.
A distanza di anni, queste esposizioni approfondiscono il suo attivismo intellettuale di promotrice dell’arte italiana in un mondo che ha condizionato fino agli anni Trenta le strategie culturali del regime, in un periodo controverso compreso tra le due guerre.
Margherita Grassini, figlia di una importante e agiata famiglia ebrea, cresce a Venezia nel un clima internazionale della Capitale della Biennale delle Arti Visive (1895), e con la famiglia è di casa al Teatro della Fenice, dove incontra artisti, scrittori, intellettuali e personalità di spicco della Belle Epoque. Nel 1898 sposa Cesare Sarfatti, un aitante avvocato aspirante politico, che lascerà libera la moglie di seguire ideali e passioni: una coppia “aperta” che basava il matrimonio sulla solidarietà e la condivisione di un elevato concetto di famiglia.
La mostra milanese si colloca all’interno del palinsesto “Novecento italiano” che il Comune di Milano propone quest’anno, e convince l’allestimento discreto e originale a cura dello Studio Mario Bellini Architects, che conduce il visitatore tra 11 sale di colore diverso intonate a 90 dipinti esposti, nel milieu intellettuale e mondano della Milano a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Allora la città lombarda era un laboratorio dell’innovazione e di ideali socialisti e dall’identità industriale, che darà i natali al Futurismo (1909), teorizzato e promosso da Filippo Tommaso Marinetti.
Umberto Boccioni, Ritratto della signora Cragnolini Fanna (1916), collezione privat
La giornalista e critica d’arte arriva qui nel 1902 col marito che rappresentò il Partito socialista nel Consiglio Comunale di Milano (dal 1908 al 1914) e i primi due figli Roberto e Amedeo, Fiammetta nasce nel 1909. Milano attira i Sarfatti per la sua modernità rispetto a Venezia, città vivace animata da una borghesia illuminata, attitudini industriali e ideali socialisti incarnati tra gli altri protagonisti, da Anna Kuliscioff e Filippo Turati e da Esilia Majano, presidente della Lega femminile milanese, dove nasce la Società Umanitaria (1893), enti e cooperative a sostegno del popolo e dell’operaio. Sarfatti a Milano frequenta casa Kuliscioff, al 23 di Portici Galleria, su piazza del Duomo, sede della redazione di “Critica Sociale”, e in quel periodo è infatuata di ideali socialisti, continua a scrivere articoli sull’arte per “Avanti”, sulla “Rassegna dell’Unità femminile” e in seguito sul “Tempo”.
Sarfatti a modo suo è femminista, rivendica la libertà di agire più che di votare e non crede nell’emancipazionismo, e a Milano apre anche un salotto, dove ogni mercoledì sera dopo cena svariate personalità della cultura artistica e letteraria intrecciano storie, amori e passioni condivise. Dal 1909 frequenta Marinetti, amoreggia con Umberto Boccioni, anche se non condivide gli esiti più astratti della sua pittura “celebrale”, incontra giovani artisti e intellettuali che vivono in periferia tra le ciminiere e i cantieri e le case degli operai. Lei, però, abita in Corso Venezia 93, diventato salotto cultural-mondano vicino alla Casa Rossa di Marinetti e spesso cena al ristorante Savini in Galleria. Fra i suoi ospiti oltre a giornalisti e scrittori ci sono Dudreville, Bucci, Adolfo Wildt, Guido Tallone, Mario Sironi, Artuso Tosi, Carlo Carrà, Achille Funi, Aldo Carpi, Libero Andreotti, Alberto Martini, Luigi Russolo e l’immancabile Marinetti. Il suo salotto è un pensatoio eccentrico, dove nasce il movimento Novecento (nato nel 1922) con il gruppo dei “Sette Pittori”, composto da Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi e Sironi, presentati nella milanese Galleria di Lino Pesaro. Una corrente le premesse si trovavano già in Valori Plastici e nella pittura Metafisica di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà.
La consacrazione ufficiale del Gruppo avvenne nel 1924 in occasione della Biennale a Venezia. Nel 1926, 114 artisti aderirono alla mostra del Novecento alla Permanente di Milano, quando il Duce tenne un discorso incentrato sul ruolo dell’arte, di sicuro scritto come tanti altri da Sarfatti. L’immersione nel Novecento a Milano incomincia dalla prima sala del percorso espositivo: occhio al video che documenta la vorticosa vitalità della mondana che Città che sale, già al centro del mondo durante l’Esposizione Universale del 1906 in occasione dell’apertura del traforo del San Gottardo. Nella sala successiva il Paesaggio urbano (1908) di Mario Sironi e Crepuscolo (1909) di Umberto Boccioni introducono il visitatore al tema moderno della periferia urbana, svolto ancora con una tecnica pittorica divisionista, che spiana la strada all’apologia della città, del progresso e dinamismo tecnologico insito nella civiltà industriale osannata dai futuristi.
Mario Sironi – Ritratto di Margherita Sarfatti (1916-1917), collezione privata. Deposito presso la Collezione Peggy Guggenheim
Il fremito di una “classica modernità” continua nelle altre sale, tra ritratti di signore borghesi e raffinate, e della stessa Sarafatti, con un dipinto di Emilio Gola che la immortalata in un vestito nero con l’immancabile collana di perle, dai capelli rossi e ricci. Sarfatti, cultrice del bello e consapevole dalla sua condizione agiata, dai tanti amanti e corteggiatori, è stata ritratta dai “suoi” artisti per 30 anni: Mario Sironi, Achille Funi e il marmo di Adolfo Wildt del 1930, che la coglie nell’espressione melanconica della critica d’arte, l’animo di una donna segnata da lutti famigliari. Tra dipinti, fotografie, lettere, inviti ai vernissage delle mostre, libri d’epoca, elementi di arredo, abiti e altri materiali originali, sala dopo sala prendono forma l’iconografia e i valori formali del Gruppo Novecento di matrice classica, basati sul recupero della solidità delle forme, composizioni armoniche.
La mostra milanese è l’affresco del Novecento che si snoda tra le esperienze personali della critica intrecciate con vicende storiche e artistiche nazionali degli anni Venti. Con le diverse tappe espositive del gruppo “Novecento” – dall’iconografia ispirata alla grande tradizione, da Giotto al Rinascimento, dal 1923 fino all’ultima a Praga nel 1932 – Sarfatti chiede il sostegno economico degli enti statali e di fare entrare nelle raccolte pubbliche le opere del suo Gruppo di “moderni classici”.
Al Mart di Trento e Rovereto, invece la mostra documenta come Sarfatti abbia esportato l’arte italiana all’estero attraverso mostre e conferenze, di cui la prima è a Parigi nel 1926.
L’allestimento è suddiviso in sei sezioni tematiche, e si scopre anche la versione della critica come autrice della celeberrima biografia di Mussolini “Dux” (1926), ristampato diciassette volte e tradotto in diciotto lingue.
Ma con la deriva nazionalsocialista anche per Sarfatti la musica cambia: dopo la fase di ascesa e di consolidamento del suo potere culturale, dal 1932 viene allontanata dal “Popolo D’Italia”; nel ’36 non può entrare a Palazzo Venezia; nel ’38, l’anno tragico delle leggi razziali, come molti ebrei non potrà fare altro che fuggire all’estero. Nel 1943 inizia a scrivere “Mea Culpa: Mussolini come lo conobbi”, una struggente confessione scritta in inglese per il mercato americano che non pubblicherà. Nel ’47 rientra In Italia, a Roma, e si stabilisce all’Hotel Ambasciatori, disegnato negli anni ’20 da Piacentini. Molti la evitano, tra i pochi amici rimasti vi sono Carlo Carrà e Mario Sironi, e ha buoni rapporti con Giovanni Papini, Massimo Bontempelli, Aldo Palazzeschi e altri intellettuali. Poi, nel 1955, la pubblicazione di “Acqua passata”, autobiografia scritta al Soldo, nella casa-rifugio in campagna a Cavallasca, nella provincia comasca, dove aveva trascorso quasi tutte le estati e ricevuto amici e artisti della sua “corte”. Fino alla scomparsa, nel 1961.
Jacqueline Ceresoli