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22
ottobre 2018
PARIS, APRÈS FIAC
Progetti e iniziative
La fiera finisce ma l’arte resta in città, coinvolgendo istituzioni e architetture. Facendoci riflettere sulle possibilità di raccontare un mondo, grande o piccolo che sia
Grazie ad un sodalizio tra due grandi attori del mondo dell’arte, la FIAC, fiera internazionale d’arte Contemporanea e le Domaine National del Louvre, come ogni anno dal 2006, una serie di opere prodotte dalle gallerie partecipanti all’evento parigino sono disseminate, durante 15 giorni, nel vasto spazio arboreo che collega la Piazza della Concorde, i Musei del Jeu de Paume e dell’Orangerie al Grand Louvre.
La disposizione della maggior parte delle ventidue opere corrisponde alle coordinate principali delle Tuileries, l’estensione orizzontale del giardino, la circolarità dei bacini d’acqua, e la verticalità degli alberi.
Due gallerie italiane presentano altrettante sculture. Alberta Pane (Parigi,Venezia) partecipa per la prima volta alla FIAC proponendo l’italiano Michele Spanghero. Con Dia, un titolo greco, l’artista rappresenta il suono plasmando la sagoma in acciaio di due tromboni uniti da un unico tubo centrale disposto orizzontalmente, a quasi due metri dal suolo. Ad ogni estremità le due parti a campana sono rivolte verso l’esterno e quindi trasformate in megafoni attraverso i quali l’ascolto silenzioso viene scandito dai suoni circostanti. Allude alla storia della sinestesia fra le arti, metafora di un’auspicabile fluidità fra le culture del mondo, grazie al dia-logos (in greco logos, fra le tante accezioni, significa insieme la conoscenza e il parlare).
In uno spazio aperto e decentrato ma posizionato di fronte al Louvre, è adagiata sul prato verde Blue Sky circle di Richard Long. Disegna un cerchio di granito rosa riempito di marmo bianco, sedici anni dopo la mostra allestita a Torre Pellice nello spazio dello Studio per l’arte Contemporanea dalla storica galleria torinese Tucci Russo. Per l’artista il blu del titolo evoca la tinta del cielo della prima installazione, nel 2002. Lo stesso colore è casualmente al rendez-vous parigino di questi giorni di metà ottobre. Le pietre di granito rosa che tracciano il contorno dell’opera spezzano, all’interno del cerchio, il candore bianco del marmo, e sembrano marcare forse qualche direzione. Verso il Louvre? Come il cielo del titolo anche l’edificio storico è messo in relazione con l’opera. «Amo che ogni pietra sia diversa l’una dall’altra – commenta l’artista – come le impronte digitali o i fiocchi di neve (o I luoghi) sono unici, quindi non esistono due cerchi identici». È una definizione metaforica dell’opera d’arte? La differenza inframince secondo un concetto caro a Duchamp, espresso con un neologismo, restituisce all’opera la sua unicità, come nella rappresentazione ripetuta decine e decine di volta della Montagne sainte-Victoire da Cézanne, sempre la stessa, ma diversa.
Tere Recarens Faire l’aventure 2009 2018
A poca distanza, si alzano le stele quadrate in forma di parallelipedi neri ricoperti di bassorilievi di Isabelle Cornaro. Con God Box (Colomn), l’artista vuole sintetizzare un’eredità densa di riferimenti, dalle porte del battistero di Firenze a Kienholz e Frank Lloyd Wright, dalla storia delle religioni al linguaggio dei segni. I calchi in resina racchiusi nelle formelle in basso-rilievo compongono figurativamente un sistema narrativo.
Nel viale centrale si alza la grande scultura in bronzo di Thomas Schütte. Da vicino l’impressione di un’allusione alla monumentalità di Mann in wind viene attenuata grazie all’espressione del viso fuori dagli schemi abituali, all’aspetto appiattito del mantello che sottrae volume al corpo teso all’indietro, alle gambe che, piegate, per poco scompaiono nel piedistallo. Più in là incontriamo le tre sfere di diverse dimensioni di Vladimir Skoda, dal titolo Sphère de ciel – ciel de sphères (2004-2018). Composte dalla sovrapposizione di quadrati traforati e triangoli aperti sullo spazio, sono suggestivamente disposte sul nostro cammino in modo da scandire lo spazio senza ostruirlo, L’artista esprime la volontà di associarle al cielo che circonda la terra e di ricreare il fascino dell’astronomia. Anche la scultrice polacca Alicja Kwade si cimenta nella gravitazione spaziale con Revolution (Gravitas) rendendo possibile la sospensione di pietre su cerchi d’acciaio che come asteroidi riescono a rimanere appese in alto grazie al sottile bilanciamento raggiunto con le pietre che in basso trovano un appoggio e sfiorano il suolo. Una metafora del sistema terra che evoca il timore della caduta e l’inquietudine che il misterioso equilibrio si interrompa?
Place Vendôme, Elmgreen & Dragset, To whom it May Concern, 2018
In asse con la Place de la Concorde, nel bacino d’acqua ottagonale si alza nell’aria l’installazione dell’argentino Pablo Reinoso. L’artista ha disposto otto sculture che riprendono la forma di un oggetto indispensabile, funzionale al nostro quotidiano. L’artista spiega che, diventando sculture, i sedili fissati in mezzo all’acqua, quindi impraticabili e solitari, tanto più che ognuno è orientato in una direzione diversa dall’altra, perdono irrimediabilmente la loro funzione originaria. La geometria del dorsale di ogni sedia trasformandosi in una pluralità di gambi esili che si liberano nello spazio, cambia natura. Malgrado la solidità del materiale i tubi ondulati sono soggetti tuttavia, come i rami degli alberi, ai soffi del vento.
A sei metri di altezza si alza la colonna molto originale, di Franz West, Dorit. Risulta dalla sovrapposizione di quattro palle dalla rotondità irregolare collegate da un esile gambo. Nulla fa pensare al materiale, utilizzato. L’acciaio laccato di rosa è lavorato in modo da guardarle come palle compattate di carta pesta o di tessuto. Tutti elementi che spezzano l’idea che i sei metri di altezza possano alludere ad una scultura colossale. L’opera dell’artista austriaco deceduto nel 2012 è stata mostrata per la prima volta all’interno del Lincoln Center di New York nel 2004 e in esterno nel 2008 al Baltimore Museum of Art. L’immagine di Dorit è ricorrente nei disegni e nei collages di West, come si può vedere attualmente nella grande retrospettiva al Centre Pompidou curata da Christine Macel.
Chi avrebbe mai pensato che due mondi così lontani, quello delle acque del Pacifico e quello di un oggetto di consumo quotidiano, potessero materializzarsi in una stessa opera in un luogo, les Tuileries, estraneo all’uno e all’altro? L’œuvre boite di Gilles Barbier (2018) osa l’accostamento sintetizzando nell’opera tipologie immediatamente riconoscibili, le pinne di squalo e l’apri-bottiglie. Le tre sculture emergono dal suolo in modo ludico come le barchette che i bambini fanno scivolare sull’acqua, ma richiamano anche l’inquietudine per gli incidenti, grandi e piccoli, ai quali rimandano.
Passeggiando si incrociano altre opere. L’assemblage colorato della parola convenzionale e magica Art di Robert Indiana. Si scoprono anche un paio di scarpe appese in mezzo al fogliame di un albero, dal titolo Charlotte playing Idris as Lebron James di Juliaan Andeweg, Le très grand ours dal sorriso ironico che si erge in mezzo ai fiori di François Xavier Lalanne.
Thomas Schütte Mann in the wind FIAC 2018
Di Mia Marfurt è l’Acqua felice dispiegata sotto forma di lunghe salsicce riempite di acqua e gelatina colorate che si incrociano due a due. Adagiate sull’erba distribuite seguendo secondo l’andamento del bacino d’acqua vicino, sono esteticamente gradevoli.
Sorprende un po’ la presenza sul prato delle tre moto Harley Davidson, orgogliose e fiammeggianti ma leggermente adagiate sul fianco di Olivier Mosset. Sono a riposo o provocatoriamente pronte a ripartire? Nel bacino d’acqua antistante il Louvre Ether 34 e Ehter 35 di Kohei Nawa due colonne esili prendono la sagoma delle piante dell’estremo oriente. Vicino, Du livre du matin di Henk Visch.
Proseguendo incontriamo la poesia altamente sentimentale e politica delle vele composte da scampoli di stoffa confezionata da tessitori del Mali di Faire l’aventure de Tere Recarens; il collage improbabile di forme essenziali della scultura Floating Vertical del giapponese Keiji Uematsu; la scultura in acciaio riflettente che risplende come se fosse fatta di carta argentata, Jiashanshi No, di Zhan Wang. Infine la performance commovente Moinho de Vento del brasiliano Paulo Nazareth che affronta il tema delicato e drammatico dei migranti.
Una scultura di Alexandre Calder prestata dalla città di New York, rimarrà alle Tuileries per un intero anno. Colorata e leggera, contribuisce, malgrado le dimensioni, all’atmosfera ludica, all’aspirazione alla pace e alla tranquillità che anima gli abitanti, i passanti, i visitatori dei due paesi e di tutto il mondo.
Sulla Place Vendôme, liberata dalle impalcature attorno alla colonna centrale e al Ritz, gli artisti danesi Elmgreen & Dragset hanno fissato sul suolo cento stelle di mare in bronzo dal colore rosso corallo, appartenenti a sedici specie diverse. I due artisti spiegano questa scelta con il fatto che la stella di mare, diversamente da tante altre categorie viventi, resiste ad ogni sorta di avversità, anche se tagliate, aggredite fisicamente o dall’inquinamento, risorgono indenni. Una metafora ottimista della condizione umana che scommette sulla speranza? Impercettibilmente modificate poiché corrispondono alla pluralità dei tipi, le stelle sono ampiamente distribuite sul suolo e solidamente fissate come se avessero resistito a tutti i tempi da quando il mare, due o trecento milioni di anni fa, all’epoca secondaria, occupava il sito. Disposte sull’elegante piazza settecentesca, rammentano anche una tipologia prediletta dai trattatisti di architettura fin dal Rinascimento, la configurazione a stella, quella proprio dell’ottocentesca Place de l’Etoile, poco distante, nominata come tale. Dal macrocosmo al microscomo, è tutta un’arte.
Michèle Humbert