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La sezione Unlimited curata da Gianni Jetzer è sicuramente uno dei momenti più attesi durante ArtBasel. Le dimensioni delle opere la fanno da padroni anche se, a sentire qualcuno, quest’anno i formati si sono leggermente ridotti (segno di una certa stanchezza da parte dei galleristi a investire grossi sforzi economici per rendere spettacolare ArtBasel?).
Il percorso si apre con Non-Orientable Nkansa II (2017) di Ibrahim Mahama, prodotta da White Cube. Si tratta di un alto e largo muro composto da scatole in legno trovate in Ghana, che una volta contenevano strumenti per riparare e pulire scarpe. L’opera introduce all’ampio spazio della mostra, dove immediatamente spicca la meravigliosa installazione soppalcata Una Cosa Tira l’altra (2015-2018) di Daniel Buren, prodotta da galleria Continua. L’installazione permette di guardare allo spazio sottostante dall’alto, offrendo così allo spettatore inediti punti di vista sulle opere circostanti. Da non perdere è la sala che a colpo d’occhio racchiude insieme Untitled (2008) di Olivier Mosset-Massimo De Carlo, Dan Graham, S-Curve for St. Gallen (2001) Hauser & Wirth e Carol Bove, No Title (2018)-David Zwirner.
L’installazione sospesa di Wolfgang Laib, You Will Go Somewhere Else (1995-2007), racchiude tutto il suo modo gentile di fare arte e quella degli anni ‘60 di Yoko Ono, Mend Piece – prodotta da Galerie Lelong – fa si che il pubblico entri a fare parte dell’opera e del suo svilupparsi, in un momento di pace e rallentamento tra i ritmi frenetici della fiera.
Molta la video arte, con opere di Alfredo Jaar, Douglas Gordon, Rirkrit Tiravanija, Francis Alys e Uri Aran. Imperdibile però è Dream Journal (2016-2017) di Jon Rafman, prodotto da Sprüth Magers. Lo scenario è fortemente distopico e l’artista esplora gli effetti del sovraccarico di tecnologia e di informazioni sulla psiche contemporanea collettiva.
Infine, bello trovare Dr. Müllers Sex Shop oder so stell ich mir die Liebe vor (1977 – 2018) di Jürgen Klauke, prodotto da Thomas Zanderle. La sequenza di fotografie di grande formato degli anni ‘70 del grande pioniere della body e performance art risulta essere più che mai contemporanea, facendo infatti riferimento al movimento di liberazione sessuale e identitario in corso anche nell’attuale periodo storico. (Greta Scarpa)