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25
marzo 2015
Messa a fuoco
Progetti e iniziative
Un lento zoom su Napoli e la sua Città della Scienza. Incendiata e ora raccontata da quattro fotografi. Un viaggio emozionante, al confine tra cronaca e rappresentazione
“Napoli, in fiamme la Città della Scienza”. “Vasto incendio a Città della Scienza”. “La Città della Scienza distrutta da un incendio doloso”. E ancora altri titoli, combinati in accostamenti di sinonimi e accompagnati da fotogallery, interviste agli abitanti di Bagnoli, video amatoriali. Dalla notte tra il 4 e il 5 marzo 2013, in cui fu appiccato l’incendio che ridusse in cenere 12mila metri quadrati di padiglioni espositivi e attrezzature scientifiche usufruite da 350mila visitatori all’anno, non sembrano essere trascorsi due anni.
Le parole del sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che, all’indomani del fatto, sollecitava indagini approfondite della magistratura, appaiono fresche di dichiarazione, perché l’episodio è ancora senza colpevoli. Recentemente, si è conclusa la prima fase del concorso per la ricostruzione. La commissione, presieduta dal direttore del polo Luigi Amodio, ha selezionato 15 progetti, tra i 98 pervenuti da tutto il mondo e, a maggio 2015, ci sarà un’ulteriore scrematura che renderà possibile l’allestimento dei cantieri, la cui spesa è stimata in 50 milioni di euro, in buona parte stanziati dal Governo e raccolti dalla Fondazione Idis.
Da quel momento, il programma di interventi prevede altri due anni e mezzo per completare tutte le operazioni. Intanto, però, il commissario speciale di Bagnoli – questa figura che dovrebbe tenere sotto controllo anche il complicato processo di bonifica dell’area litoranea – non è stato ancora nominato, nonostante le rassicurazioni di rito di Graziano Delrio. Una soluzione, peraltro, non gradita da Vincenzo Lipardi, consigliere delegato di Città della Scienza, e Tommaso Sodano, vicesindaco di Napoli e assessore all’ambiente. Le macerie sono ancora lì, insieme ai dubbi e alle incertezze, ma le ricorrenze sono momento di riflessione critica su ciò che è stato, forse per quell’archetipo dello svolgimento ciclico che lega il presente e il passato.
La collettiva a cura di Giuliano Sergio e Alessandra Drioli – all’interno della kermesse dedicata al triste anniversario – tenta proprio una Messa a fuoco dell’evento, attraverso il punto di vista di Antonio Biasiucci, Fabio Donato, Mimmo Jodice e Raffaela Mariniello, quattro fotografi che hanno legato molta parte della loro produzione artistica alle suggestioni del territorio campano.
Così, i quattro artisti hanno percorso gli ambienti divorati dalla casualità delle fiamme, per recuperare l’informità del caos entro i parametri di uno schema visivo, «è la fiamma ad aver provocato il segno», ha spiegato Donato. Il medium fotografico, con le inquadrature precise che restituiscono l’istante, giustappone il proprio filtro rigoroso alle deformazioni assunte dai materiali sottoposti all’alta temperatura. In questi spazi illusori, tutto è silenzioso, pacificato dallo sguardo dell’artista che preleva realtà e restituisce immagine. Le peculiarità stilistiche dei quattro fotografi, si relazionano per formare un percorso compositivo claustrofobico, onirico, concentrato sulla presenza ingombrante del gran corpo dell’edificio ricoperto dalla patina caliginosa del disfacimento. La scansione degli elementi, nell’imponente polittico di Biasiucci, è netta come un’autopsia, mentre il rapporto tra gli stretti primi piani e gli sfondi aperti, negli assemblaggi di Donato, si scompone in segmenti ottici.
Invece, l’impatto scenico è più forte sia nelle composizioni teatralizzate di Mariniello – alcune già esposte in occasione di una mostra allo Studio Trisorio, nel 2014 – che nelle visioni istantanee, fugaci, di Jodice. Per converso, il linguaggio del racconto visivo diventa un paradigma da decostruire, con l’immissione della disarmonia degli oggetti residuali, degli strumenti privati della propria funzione, dei frammenti di vetro e detriti ammassati in composizioni oscene. Archeologi del contemporaneo, i fotografi hanno svelato l’azione dell’irrazionale, di matrice tutta umana, sulle strutture che l’uomo stesso innalza, mostrando quell’et in arcadia ego che obbliga a considerare la normalità della fine, la transitorietà delle cose. «Le rovine ci mettono di fronte a un bivio», ha detto Mariniello, che è stata tra le prime a visitare il sito devastato e ha fortemente voluto questa mostra.
Le rovine di Città della Scienza, soggetto contorto e sfondo caotico nella perfetta stabilità formale delle immagini, più che una messa a fuoco compiono un gioco di mise en abyme, nel quale la cronaca si rovescia vorticosamente nella rappresentazione. I meccanismi linguistici della fotografia producono una successione dialettica che confonde spettacolo e realtà, facendo entrare il trauma nella scenografia della distruzione ma lasciando intravedere l’azione del narratore-artefice.
Il bivio, dunque, oltre che esistenziale è anche metodologico, perché l’estetizzazione del quotidiano, ovvero, la contrazione dell’evento nei margini dell’immagine riprodotta, è fatto critico. La cronaca è narrazione della prossimità tra l’uomo e i momenti che esso produce, una grammatica che adatta il fluire delle cose alla storiografia. Questo racconto ha iper-esteso la propria sintassi, dileguandosi tra le infinite possibilità dei media e assuefacendo il fruitore a modalità stereotipate di approccio all’informazione. Un atteggiamento della conoscenza che, ormai, si manifesta nel consumo rapido del tempo, come lutti elaborati frettolosamente nel breve ciclo delle notifiche. Così, i processi di sovrascrittura e diffusione della memoria sono sempre più indeterminati e anche le immagini delle violenze più efferate appaiono terribilmente indistinte nella coscienza etica di chi osserva, come mitologie accadute nella zona labile delle probabilità.