11 aprile 2015

Whitney d’oro

 
Non c'è nulla da fare, di fronte a certe realtà all'Italia dell'arte non solo viene l'acquolina in bocca, ma anche una grande rabbia. Perché? Leggete qui di seguito l'ultima news da New York

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C’è UBS che collabora per la scoperta dell’arte dei Paesi emergenti al Guggenheim. C’è Hyunday che sponsorizza la Tate Modern, come la Bp, e d’ora in poi anche il LACMA di Los Angeles, e ora c’è Tiffany.
Che finisce dove? Al Whitney, chiaramente. Il museo con più aspettative degli ultimi anni riceverà una donazione di 5 milioni di dollari da utilizzare per le prossime tre biennali del museo, nel 2017, 2019 e 2021. 
«Tiffany, come il Whitney, è nato da uno spirito di innovazione e devozione alla creatività, ed in questo suo momento di iperattività è necessario collaborare», ha dichiarato Frédéric Cumenal, amministratore delegato del brand. «Siamo entusiasti di sostenere attraverso il nostro impegno la Biennale degli artisti emergenti e il loro lavoro che viene mostrato su scala globale».
Certo, non è né la prima né l’ultima notizia di una grande sponsorizzazione americana, ma quel che passa da questa parte dell’oceano è un senso di frustrazione piuttosto forte.
Certo, in Italia anche i privati si danno da fare, lo si vede con il “modello Milano”, ma tutto appare terribilmente faticoso, e soprattutto traballante.
La biennale del Whitney è stata in diverse occasioni duramente criticata, eppure una holding del lusso internazionale decide di investirvi senza pari, per una kermesse specifica. Che promuove gli artisti americani, che fa sistema, che crea ricchezza. 
Si dice lungimiranza, attitudine che nel Belpaese tra ritardi endemici e occhi puntati al proprio ombelico, spesso ci dimentichiamo di avere.
Non è un caso che anche un’altra grande azienda italiana, Max Mara, sarà sponsor del museo americano, che ha premiato la famiglia di Reggio Emilia per il suo lavoro nell’arte. 
E a noi che resta? Resta il “più grande patrimonio culturale del mondo”, con le nostre eccellenze che investono negli Stati Uniti. Assecondando i loro mercati, certo, ma togliendo qualcosa ai nostri? Forse nulla, visto che ancora non abbiamo fatto i conti, all’atto pratico, con il nostro valore. E stavolta non si tratta di chiacchiere da bar o da Ministero. Viva l’America, viene ancora da dire; almeno di quella che permette un certo pensiero. (MB) 

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