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Avevo salutato ieri Patrizia Sandretto con la promessa che avrei avuto un occhio di riguardo alle donne. Così è stato. Non uno sguardo femminista, ma una ricerca limpida ed attenta. Ho deciso però di concentrarmi sui lavori per poi vedere il genere dell’artista. Così faccio, e mi aggiro tra i padiglioni. La Svizzera ha una fila piuttosto lunga, e questa cosa ancora non ho capito se ha un significato positivo; decido però di tentare. Dopo venti minuti mi trovo davanti un grande spazio, inaccessibile, dove si vede solo dell’acqua rosa che si muove leggermente. Una sensazione di leggerezza che ti invita quasi a provare ad entrare in quel luogo inaccessibile.
Prendo il materiale stampa e vado via, intuendo il genere, e mi dirigo al padiglione giapponese. Anche lì lo stupore; una installazione con circa trecento chiavi provenienti da tutto il mondo, appese a fili che convergono verso delle navi poste al centro della sala. Qui non mi serve prendere la cartella stampa, lo capisco che è frutto di una donna. Chiavi raccolte da tutto il mondo, ognuna con una storia dietro. Poteva forse non essere un lavoro femminile?
Mi spiazza invece la Russia, perché il lavoro è forte, tosto, non indugia né vuole essere fintamente estetico. Ne parlo con Pietro Gaglianó e Chiara Mu, che mi aiutano a leggere meglio il lavoro. Pietro mi dice che gli piace ‹‹perché recupera la dimensione culturale sovietica, considerando che il regime è già stato metabolizzato››. Ci penso, ed in effetti ha ragione.
Mi dirigo poi verso la mostra del curatore, che per inciso non mi entusiasma come quella vista all’Arsenale, ma il lavoro della Barba mi colpisce.
Stesso effetto mi fa quello di Elisabetta Benassi al padiglione belga, ben strutturato potente ed incisivo.
Tra i padiglioni anche quello inglese appartiene alla quota rosa, ma qui Sarah Lucas appare piuttosto pesante, con una estetica formalizzante ed a tratti quasi retorica. Forse è arrivato il tempo di guardare avanti.
s.v.
foto altrospazio