22 maggio 2015

Arte, capitale e crisi. Da Atene arriva “Blasted”, una mostra per puntualizzare il cambiamento. Ce la racconta l’ideatrice, Zara Audiello

 

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Metti insieme un gruppo di artisti di varia provenienza (Rebecca Agnes, Basma AlSharif, Ludovic Bernhardt, Eirene Efstathiou, Zoe Giabouldaki, Goran Micewsky, Stefania Migliorati, Maria Mitsopoulou & Tina Voreadi, Canpus Novel, Mariagiovanna Nuzzi, Giorgos Papadatos, Bojan Radojcić, Société Réaliste, Ivana Smiljanić, Slobodan Stošić, Salon de Vortex – Yiannis Isidorou-Yiannis Grigoriadis), che condividono l’urgenza di cambiamenti strutturali e sociali dell’Europa, indagati attraverso l’arte. Quel che nasce è “Blasted”, una collettiva di azione e riflessione, curata da Zara Audiello, ideatrice dello spazio Beo Project di Belgrado, ad Atene. L’abbiamo intervistata, per capire come far convergere arte e “politica”, e come si può lavorare in due Paesi complessi come Serbia e Grecia, in questo caso in tandem. 
Hai scelto di stare a Belgrado con Beo Project. Che fermento vedi da addetta ai lavori?
«La mia è stata una scelta legata ad un’esigenza di avventura culturale, una sorta di ricerca spasmodica di una scena diversa da quella a cui siamo abituati a vivere nei Paesi in cui sono presenti forti poteri economici legati anche all’arte. Per diversa intendo non tanto nelle pratiche artistiche, ma nei meccanismi. Mancando un mercato si libera il sistema da tutta una serie di dinamiche che lo vincolano, e che ne determinano le estetiche. Di conseguenza anche la creatività potrebbe sembrare più fervida, ma di contro proprio quella mancanza di mercato genera molto spesso frustrazioni dovute al non raggiungimento di obbiettivi economici. Insomma alla fine anche a Belgrado la scelta di dedicarsi consapevolmente alla creatività è indice di un grande coraggio, però sicuramente il gap economico tra gli artisti/creativi e i giovani che tentano una strada “più sicura” è meno profondo, proprio per una mancanza di stabilità del Paese. Tutto questo influisce sul fermento e sul proliferare di eventi culturali, non avendo molto da perdere almeno si fa ciò che si vuole…»
Quali sono state le reazioni del pubblico rispetto a questa mostra in Grecia, che di certo – secondo le cronache economiche – non è un luogo in salute, ma che sotto il profilo creativo forse lavora più di altri e certamente con più consapevolezza?
«Beton 7,  lo spazio che ha ospitato la mostra, è un luogo polifunzionale dedicato interamente alle Arti. Un bel polo nel ex quartiere industriale di Votanikos, noto agli abitanti della capitale soprattutto per il suo velocissimo processo di gentrificazione e il suo proliferare di locali. Beton 7 è un po’ un pesce fuor d’acqua, lontano dalla zona delle gallerie, rispecchia totalmente l’anima della città, almeno quello che ho potuto percepire. Una città estremamente pulsante, nonostante la crisi si senta e molto, al di fuori dei contesti finanziari europei, ma comunque determinante per gli stessi. Non a caso è stata scelta come seconda sede da affiancare a Kassel per Documenta del 2017. Sebbene i Greci dovrebbero stare attenti a non azionare ancora una volta il dispositivo di  voyeurismo culturale alimentato anche dalla compiacenza indigena».
Pasolini e Moravia con le loro teorie che guardavano lucidamente al capitalismo/fascismo (come ha fatto anche Ballard come romanziere) possono ancora essere attuali? 
«Attualissime più che mai. Basti pensare a tutto quello che stiamo vivendo in questi ultimi mesi, alle tragedie dei migranti in crescita esponenziale, ai nuovi focolai di guerra presenti nuovamente in Europa e non parlo solo di Ucraina, ma anche nello scenario dei Balcani (in Macedonia), e purtroppo i media non sempre ci forniscono la corretta interpretazione degli avvenimenti, molto spesso mascherandoli e seguendo le volontà del potere autoritario».
Come si argina questo fenomeno?
«Forse uno sguardo d’indagine accurata a quel paradosso che dagli anni Novanta fino ai nostri giorni ha creato come per un effetto domino una serie di accadimenti che hanno inciso fortemente sulle attuali politiche Europeiste: caduta muro di Berlino, divisione della Repubblica Cecoslovacca, caduta di tutti i regimi del blocco sovietico, guerra e dissoluzione della Yugoslavia, vicenda della Transistria, e ultimamente Ucraina, potrebbero aiutarci ad arginare tali condizioni. Gli artisti coinvolti nella mostra con i loro contributi tentano di forzare tale sistema».
È possibile parlare di un’arte della crisi?
«A me non piace parlare di un arte della crisi, anzi credo sia pericoloso e fuorviante, e che faccia il gioco di chi questa crisi la vuole fortemente per facilitare i propri interessi. Ma allo stesso tempo se lo sguardo dell’arte è sempre stato su problematiche effettive del proprio tempo, proprio queste problematiche evidenziano e sottolineano uno stato di conflitto che in questo periodo coincide con questo “cambiamento”».
Foto sopra: Bojan Radojcic, Genetic Engineering. Foto Stefania Migliorati
In copertina: Basma Alsharif, We began by measuring distance, still. Foto Stefania Migliorati

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