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Paradossi sì, ironia non esattamente. Mettiamo da parte la tentazione di scorgere una vena di umorismo tipicamente anglosassone nel lavoro di Jonny Briggs (Berkshire 1985, vive e lavora a Londra) che presenta alla galleria Marie-Laure Fleisch “Comfortable in my skin” (fino al 13 giugno), la sua prima personale romana. Il titolo si riferisce all’opera omonima in cui la testa dell’artista è incastrata dentro la camicia di suo padre: un’allusione alla confusione tra l’identità e i ruoli delle persone. ‹‹Normalmente non sono a mio agio nella mia pelle››, – afferma il giovane artista – ‹‹però lo sono nel mio lavoro, che è come una bolla confortante››.
Dal 2006 ad oggi Briggs, che ha conseguito 30 premi ed ha partecipato a numerose mostre, tra cui la collettiva “Out of Focus: Photography” alla Saatchi Gallery di Londra (2012), ha incentrato tutto il suo lavoro sulla ricerca dei frammenti perduti della propria infanzia, tra paradossi e ambiguità.
‹‹Guardo indietro alla mia infanzia, ma con gli occhi di un adulto. Gioco con i miei ricordi”, spiega. L’utilizzo del mezzo fotografico, in particolare, acquisisce nella sua ricerca una valenza che va al di là del collegamento tra passato e presente, ribaltando – e allo stesso tempo – ridefinendo i confini dei rapporti stessi tra l’autore e i suoi familiari. Nell’album di famiglia le pose forzate con i sorrisi artificiali che facevano parte di una sorta di azione performativa privata, diventano il punto di partenza per una ricerca introspettiva. ‹‹Ora sono io a stare dietro l’obiettivo e a dire ai miei genitori come posizionasi, quindi a costruire l’immagine››.
Il più giovane di cinque figli, Jonny è cresciuto in mezzo ad un universo femminile, circondato dalle sorelle Jo, Amy, Kataryn e Rebecca, di cui avrebbe voluto far parte anche lui. Particolarmente evidente il rapporto simbiotico con Rebecca, più grande di lui di un anno, nel lavoro Schisms (2011), in cui le foto che li ritraggono bambini sono state tagliate all’altezza della testa e riposizionate facendo combaciare il corpo dell’uno con la testa dell’altra.
‹‹Il lavoro artistico, in un certo senso, faceva parte della psicoanalisi, che ho fatto tra il 2009 e il 2011. Psicoterapia e arte sono uno specchio intelligente che mi hanno aiutato a vedermi in un nuovo posto››. – spiega – ‹‹Nella psicoanalisi i confini sono confusi, come nel mio lavoro. C’è un’ambiguità di fondo. In particolare sono interessato agli studi di Jacques Lacan e Adam Phillips, nonché dello psicanalista lacaniano Darian Leader che è autore di Stealing the Mona Lisa: What Art Stops Us From Seeing. In questo libro viene analizzato il fenomeno avvenuto dopo che fu rubata la Monna Lisa (nel 1911 dall’italiano Vincenzo Peruggia, recuperata due anni dopo a Firenze – n.d.R.), ovvero quando un gran numero di persone andò a vedere lo spazio vuoto dove era collocata l’opera, erano molte più di quelle che fino a quel momento erano andate al Louvre per vedere l’opera stessa. La storia dell’arte è vivere qualcosa di differente, anche al di fuori dell’immagine. Nei miei lavori Envisionaries n. 1 e n. 11, che sono fotomontaggi, ho cancellato lo sguardo, sostituendo gli occhi degli uomini con la mia bocca. Il riferimento è alla tecnica psicoanalitica in cui il parlare continuo è connesso all’inconscio. Mi interessa la relazione tra il parlare e il vedere, e come il linguaggio dia forma al modo in cui vediamo il mondo intorno a noi››.
In Facing (Photography) (2011) il personaggio maschile “magrittiano” indossa l’abito al contrario: è suo padre davanti alla casa di famiglia nel Berkshire. Nonostante sia di spalle, sembra comunque che guardi verso l’osservatore, mentre la casa stessa diventa quasi un volto umano. L’ambiguità attraversa anche altri lavori come Belt (2011), una cinta con due fibbie, oppure Heriloom (Object) (2013), in cui due martelli apparentemente identici sono affiancati sulla stessa parete. Uno è falso, l’altro è vero. ‹‹Qualche anno fa mio nonno ha dato il suo martello a mio padre, perché non poteva più usarlo. Ho trovato molto interessante questo gesto che era una sorta di passaggio del testimone. Il martello è un oggetto molto maschile. Continuo a pensare a cosa farò, quando mio padre darà a me quel martello. Nel frattempo l’ho spedito ad una società che produce oggetti finti per scenografie televisive dove è stato riprodotto esattamente com’è. Trovo che sia interessante l’artificialità che c’è nei media, il falso che c’è nei film o nelle fotografie e la confusione che si crea rispetto alla fiducia che abbiamo nelle immagini stesse››.
Manuela de Leonardis
mostra visitata il 20 aprile
Dal 20 aprile al 13 giugno 2015
Jonny Briggs, Comfortable in my skin
Galleria Marie-Laure Fleisch
Via di Pallacorda 15, Roma
Orari: dal lunedì al venerdì dalle 14:00 alle 20:00, sabato dalle 16:00 alle 20:00
Info: www.galleriamlf.com