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13
giugno 2019
L’intervista/ Norma Jeane
Politica e opinioni
UNA MACCHINA ACCESA ALLA FRONTIERA
ShyBot è tornata, di nuovo a fare i conti con politica, identità e solitudine. Tra Messico e Stati Uniti
ShyBot è tornata, di nuovo a fare i conti con politica, identità e solitudine. Tra Messico e Stati Uniti
ShyBot è tornata, questa volta per attraversare un’altra terra arida e sconfinata. Quella del deserto che divide il Messico dalla California, scenario di storie disperate, confine politico dibattuto, lacerato e negoziato che gli esseri umani continuano a pretendere di dividere.
Era il 2017 quando l’artista Norma Jeane liberava per la prima volta Shybot – il “robot timido che quando incontra un ostacolo lo evita e se qualcuno cerca di avvicinarsi fugge” – nel deserto in Coachella Valley in occasione della prima Desert X, la Biennale californiana del Deserto.
Ed era passato oltre un anno e mezzo quando, dopo aver perduto ogni traccia della timida creatura iper hi-tech dal carattere sensibile, il giovane Kyle, solitario girovago del deserto, ritrovava Shybot e la riconsegnava al team di Desert X ricevendo un’inaspettata ricompensa.
Una vicenda che aveva accesso l’interesse della popolazione statunitense anche fuori dai canali dell’arte, che leggeva i grandi billboards con la riproduzione dell’immagine di Shybot sulla “freeway”, da Palm Springs a Los Angeles, insieme a una promessa di ricompensa per chiunque l’avesse ritrovata. Se ne parlava sulla stampa nazionale, anche il New York Times le dedicò diverse uscite, mentre prendeva vita una vera comunità di “shylovers” inteneriti e preoccupati per la sorte della fuggiasca e innocua macchina che amava stare da sola.
Shybot fu ritrovata grazie al QRcode stampato sulla sua superficie esterna, Kyle ricompensato con 1.000 $ dal sindaco di Cathedral City.
Oggi, dopo alcuni mesi di convalescenza, Shybot torna a provocare per la seconda edizione di Desert X, non resistendo alla tentazione di conquistare la sua libertà e indipendenza, viaggiando su una linea di confine che nega l’applicabilità di questi valori.
Liberando Shybot nel mezzo del deserto, Norma Jeane interroga questa volta il significato di frontiera, su un tracciato di tensioni che si manifestano tra la rigidità dell’alto “Muro della Vergona”, così nominato dai messicani, e un fenomeno migratorio disordinato e spontaneo fatto di molte esistenze e speranze a cui non è riconosciuta alcuna identità.
Shybot Norma Jeane, Photo by Colin Robertson
Shybot è un progetto che nasce in California, un luogo che rappresenta ancora oggi una sorta di “Rainbowland” con la sua apertura culturale di matrice Beat. Una terra che manifesta contemporaneamente anche grandi contraddizioni, tra una natura incontaminata e ancestrale e la presenza di un polo tecnologico e di intelligenza artificiale tra i più all’avanguardia al mondo.
Quanto Shybot alla sua nascita è portatore e veicolo di tali contraddizioni?
«ShyBot è il frutto di concetti che si negano tra loro, la California è la sua terra e non avrebbe potuto essere altrimenti. Dalla Silicon Valley alle lande desertiche del sud, passando per Hollywood, questo è il percorso di un’idea diversa di tecnologia e in fin dei conti di umanità. ShyBot è il racconto di un “underdog”, di un diverso che si autoemargina. La tecnologia è considerata uno strumento al servizio dell’uomo, come peraltro la natura (fonte di ogni risorsa a cui attingere). Lo stesso termine “robot” deriva dal termine ceco “robota” che significa lavoro forzato. In questo progetto la centralità della specie umana è messa in discussione. La tecnologia si serve della propria sensibilità, della capacità di calcolo e dell’asprezza del paesaggio per affermare una possibile autonomia dal proprio creatore. Un processo di emancipazione che suscita sentimenti paradossali in chi ne viene a conoscenza. Molte persone provano empatia per questa creatura meccanica. La sua piccola avventura diventa così uno specchio in cui ciascuno può misurare la propria nozione di umanità e, in definitiva, in cui cercare ancora una volta qualcosa che ci definisca come una parte distinta e speciale del mondo. Eppure mentre lo facciamo stiamo riconoscendo un’identità e una personalità a un’entità non biologica. ShyBot non è altro che il riflesso delle nostre contraddizioni».
Parliamo del modo in cui ShyBot prosegue il suo viaggio su una linea politica di confine, non cercando verità ma soltanto solitudine e libertà. Durante il nostro incontro, mi spieghi che Shybot è uno strumento inorganico che può tentare di spostarsi in autonomia anche dove è vietato, diventando uno specchio della realtà che, solo a una certa una distanza, ci permette di guardare noi stessi. Tra un episodio di “quasi-arresto” che ti ha visto coinvolto e una collaborazione tra la polizia delle due frontiere, divenuta necessaria, qual è il motivo che ti ha portato a rivolgerti all’idea di confine e cosa significa per te l’esercizio dello sguardo a distanza?
«Il confine è un concetto espresso con differenti sfumature da numerosi sinonimi. Quello che preferisco usare è ‘frontiera’. Questo è il termine usato da John Kennedy nel discorso di accettazione della candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti alla “Convention” Democratica tenutasi a Los Angeles nell’estate del 1960:
“Ci troviamo oggi ai margini di una Nuova Frontiera, (…), la frontiera delle opportunità e dei pericoli sconosciuti, la frontiera di speranze non soddisfatte e di minacce non compiute. (…) Oltre questa frontiera ci sono aree inesplorate della scienza e dello spazio, problemi irrisolti di pace e guerra, problemi mai sconfitti di ignoranza e pregiudizio, questioni senza risposta di povertà e ricchezza.”
A distanza di quasi sessant’anni le conseguenze di questi problemi irrisolti sono ancora al centro dell’agenda politica internazionale e forse in modo ancora più drammatico e urgente. La frontiera, da strumento astratto che perimetra l’identità storica e territoriale di un popolo, si sta trasformando in una barriera fisica, un muro di cemento e acciaio alto 8 metri che supplisce all’incapacità della politica di affrontare il tema delle crescenti diseguaglianze economiche e delle conseguenti migrazioni. Tuttavia nei tratti di deserto non ancora raggiunti dal muro la barriera si limita ad impedire il passaggio dei veicoli. È proprio in uno di questi tratti, al centro del deserto dello Yuha, che ShyBot è stata liberata dopo qualche rocambolesco tentativo di evitare la sorveglianza armata del Border Patrol statunitense. Alla dotazione di ShyBot questa volta è stata aggiunta una video/fotocamera da caccia che invia immagini in soggettiva verso il sito http://www.shybot.live/ Grazie alle ridotte dimensioni Shybot è in grado di attraversare le barriere d’acciaio passandoci sotto, e dunque di girovagare indifferentemente dai due lati del confine nell’immutato scopo di sfuggire a chiunque le si avvicini. Queste peregrinazioni tuttavia hanno già visto due volte l’intervento di entrambe le forze armate di confine che hanno inseguito e prelevato ShyBot mettendosi poi in contatto con gli uffici della biennale per la restituzione. Il tutto con estrema gentilezza e senza alcuna conseguenza legale. Destino certamente più fortunato di quello riservato agli esseri umani che si avventurano nello stesso tentativo. Al momento sono in corso trattative con le autorità di frontiera dei due Stati per ottenere un lasciapassare illimitato per ShyBot, in quanto entità giuridicamente irrilevante. È chiaro che ogni nuova variabile concettualmente significativa per il progetto viene colta al volo e ne diviene parte…».
Shybot cam, soggettiva, Norma Jeane, Desert X
La nascita di Shybot mi fa pensare a un approccio artistico che interroga l’identità/le identità, un meccanismo di provocazione e proposizione che rivedo a partire dalla scelta del tuo nome, Norma Jeane: la vera identità di Marylin Monroe.
Chi è oggi Norma Jeane e cosa diventa ad ogni nuovo progetto?
«ShyBot è un frammento dell’identità di Norma Jeane. La scelta del vero nome di Marilyn Monroe come alias di un’artista dal corpo e dall’identità in continuo cambiamento nasce dal desiderio di affrontare gli aspetti contraddittori, mutevoli e opachi della quotidianità con la necessaria flessibilità. Dunque l’identità sofferente e complessa di Norma in contrapposizione alla semplificazione pop di Marilyn, bidimensionale e patinatissima. Ogni nuovo progetto di Norma Jeane si accompagna alla creazione di un corpo costituito dalle persone che vi collaborano e all’emergere di una personalità che risulta dalla condivisione di desideri, obiettivi e competenze. Persone e oggetti si fondono in un’entità astratta, frammentata e complessa, forse molto più in accordo con la realtà di una biografia che pretenda di disegnare un’esistenza in modo univoco e lineare».
Francesca Ceccherini
Per seguire Shybot in live www.shybot.live