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Va inquadrata nel contesto delle avanguardie teatrali russe, epoca fervida di visionarietà e di sperimentazioni specie nella musica, l’opera lirica di Prokof’ev L’angelo di fuoco. Nell’intreccio della storia e nel climax si respirano molte influenze della letteratura russa con le sue radici che affondano soprattutto nel simbolismo di Valerij Brjusov – dal cui romanzo omonimo del 1908 è tratto il libretto -, e nei massimi scrittori da Tolstoj a Dostoevskij dai quali emergono i grandi conflitti tematici fra spirituale e materiale, santità e perdizione, razionalità e irrazionalità; fra bene e male, verità e menzogna. Nel romanzo gotico di Brjusov si narra del diavolo che, sotto le sembianze ingannevoli di spirito luminoso, seduce e governa una vergine spingendola ad azioni peccaminose. È la storia di Renata, innamorata di un angelo fiammeggiante riapparso poi in vesti terrene, il Conte Heinrich, e svanito tra le strade di una Colonia medievale. Qui la donna, aiutata dalle arti magiche e dal lussurioso e ingenuo soldato Ruprecht a sua volta innamorato di lei, lo cerca, lo ritrova, lo perde nuovamente, chiede a Ruprecht di ucciderlo, poi si pente, ma troppo tardi. Sceglie infine di andare in convento, ma finisce condannata al rogo dopo aver introdotto il diavolo nel monastero. Prokof’ev si appassionò del racconto nel 1919, durante l’esilio americano. Vi lavorò per una decina d’anni, concentrandolo in sette quadri e, soprattutto, correggendone il misticismo con l’ironica razionalità di un musicista del Novecento. Il risultato fu un’opera dalle multiple facce – romantica, simbolista, novecentista – che, a quell’epoca, sembrò fuori moda.
L’angelo di fuoco, foto di Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma
Rifiutato dai teatri, giacque ignorato per un trentennio sugli scaffali polverosi di un editore parigino. Prokof’ev non la vide mai rappresentata, e solo dopo trent’anni dalla sua stesura venne messa in scena. Va dato merito oggi all’Opera di Roma averla riproposta (dal 23 maggio all’1 giugno) affidandone la regia a Emma Dante, ormai sempre più felicemente dedita alla lirica, e al direttore d’orchestra Alejo Pérez. Potente dal punto di vista dell’immaginazione che può suscitare, l’opera non poteva trovare miglior mente registica dell’artista siciliana, attirata sempre nello scavo profondo della condizione umana con quella foga tagliente che contraddistingue il suo teatro e che sa nutrire gli occhi. Il suo marchio è anzitutto nell’ambientare le vicende in un sottoterra da catacombe con tanto di loculi, un dichiarato riferimento (nella scenografia di Carmine Maringola), alle catacombe dei cappuccini di Palermo, del primo e terzo atto; e una stanza con enormi pareti di libri proibiti per lo studio dell’astrologo Agrippa Nettesheim, filosofo e mago «freddo come acciaio, immensamente potente e terribilmente convincente», nel secondo, con apparizioni di fantasmi velati. Nella messinscena sempre movimentata da attori della compagnia Sud Costa Occidentale, c’è tutto il clima visionario e medievaleggiante dell’epoca, ma con l’incursione, geniale, di un danzatore di breakdance (il giovane Alis Bianca) che rappresenta il protagonista assoluto, cioè l’angelo di fuoco, Madiel, che è anche diavolo. Tra controscene e muti siparietti in proscenio tra un quadro e l’altro, con altre invenzioni superbe come il duello a quattro tra Ruprecht e il Conte Heinrich e i loro rispettivi demoni-ombra (un altro danzatore di hip-hop), o le presenze sulfuree nella locanda di Faust e Mefistofele in abiti luccicanti, il finale è sugellato dalla raffigurazione di un martirio mistico, con la protagonista trafitta da spade come una Madonna Addolorata di tanta iconografia popolare.
L’angelo di fuoco, foto di Yasuko Kageyama, Teatro dell’Opera di Roma
Con superbo dominio del palcoscenico, la regista tiene saldamente in pugno il racconto in un crescendo fantastico che sa fondere la musica e il testo dai molti ingredienti: dal racconto magico, a una storia di oppressione, di pazzia collettiva, di forze oscure, repressive, fagocitatrici dell’uomo, espressi in una musica ricca, da clima decadente, d’ironica razionalità, con ritmi ossessivi e dissonanze che ricordano Mussorgsky e Šostakovič e con i temi cantabili spesso sopraffatti dalla musica turbinosa dell’orchestra. Grandioso il quadro finale nel quale si vede in atto la repressione controriformistica, e l’inquisizione (si parla di stregoneria e di albagia scientifica essendo nel XVI secolo): un momento chiave del processo che la protagonista e le suore da lei esaltate in preda ad un’euforia mistica, subiranno. Le ossesse e l’inquisitore carnefice si fronteggiano in una disperata lotta in un crescendo fantastico culminante nel demoniaco invasamento del monastero. È l’apoteosi di un simbolismo grottesco, racchiuso tra gli estremi opposti della luminosa bellezza di Renata e del grigio realismo di un medioevo oscuro. Grande successo e applausi per tutti e per i protagonisti: Ewa Vesin (Renata) e Leight Melrose (Ruprecht), Andrii Ganchuk (Faust) e Maxim Paster (Mefistofele).
Giuseppe Distefano
“L’angelo di fuoco” opera in cinque atti e sette quadri
Libretto dell’autore da un romanzo di Valerij Brjusov
Musica di Sergej Prokof’ev
Direttore: Alejo Pérez
Regia: Emma Dante
Maestro del coro: Roberto Gabbiani
Scene: Carmine Maringola
Costumi: Vanessa Sannino
Movimenti coreografici: Manuela Lo Sicco
Luci: Cristian Zucaro
Maestro d’armi: Sandro Maria Campagna
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Al Teatro dell’Opera di Roma dal 23 maggio all’1 giugno 2019
Nuovo allestimento in lingua originale con sovratitoli in italiano e inglese