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Il collezionista è un soggetto curioso, ama l’arte, e a volte questo amore si colora delle smaniose tonalità del possesso. Oppure ama l’arte, ma se ne tiene a distanza, emendando da quel rapporto la componente carnale e facendone occasione di esperienza dell’anima.
Il collezionista, a volte, è queste due cose insieme. E a volte, su di lui, bisogna sospendere il giudizio. Osservarlo e basta, seguirlo, scoprirne i tortuosi percorsi con occhio laico. Perché, alla fine, qualche sorpresa la riserverà.
Francesco Federico Cerruti, nato a Genova nel 1922 e scomparso a Torino nel 2015, è un po’ tutte queste cose insieme, e altro ancora. Soprattutto è stato un sublime collezionista. Un po’ vecchio stampo, per certi versi. Onnivoro, senza particolari (apparentemente) predilezioni, ma con interessi e sguardo che spaziano dal Medio Evo a Andy Warhol, passando per quasi tutto quanto gli artisti abbiano prodotto nei sette secoli che dividono questi due mondi.
Era un uomo particolarmente laborioso, Cerruti, a capo di un’azienda di legatoria di libri, la LIT, che negli anni Sessanta, grazie alla sua capacità di innovare, arriva a rilegare fino a 200mila volumi al giorno. E l’amore per i libri è evidente anche nella sua collezione: volumi antichi, pregiati, decorati, con quelle copertine in cuoio che sanno di passato erudito che duettano con tele del presente e soprattutto i personaggi che scrutano il visitatore nella prima sala, detta della musica per via delle molte testimonianze di quest’altra passione, hanno tutti in mano un libro: il San Gerolamo di Dosso Dossi, il Ritratto di gentildonna di Paris Bordone, il Ritratto di gentiluomo di Pontormo e l’inaspettato Harry Melvill di Man Ray.
Era anche un uomo severo, Cerruti, abituato a una vita severa e dedicata al lavoro già in giovanissima età da un padre che doveva essere ben più severo e tosto di lui. E questo tratto, un filo di cupezza come sotto traccia, lo racconta la sua collezione, allestita con meticolosità in stanze non grandi, ricche, ma raramente ridenti. Oggi questo grande autoritratto emendato dal rumore del mondo è presentato a Rivoli, con la benedizione di quel Castello che, nonostante le alterne vicende, gli strappi della politica e le vicissitudini ai vertici, rimane il più bel museo d’arte contemporanea italiano.
Villa Cerruti
Francesco Federico Cerruti aveva in mente da tempo di rendere pubblica la sua collezione, sebbene l’accordo con il Castello di Rivoli – anche primo museo italiano di arte contemporanea nato nel 1984, esattamente negli stessi anni in cui la Collezione Cerruti si allarga virando sul contemporaneo dopo un copioso affondo nell’arte moderna – sia arrivato un paio di anni dopo la sua morte. Ma per tutta la sua vita, nonostante l’intenzione pubblica, che contribuisce a collocarlo tra i grandi del collezionismo italiano, quello che più avverte la responsabilità sociale di questa attività, la sua raccolta se la godeva da solo, in totale solitudine. Forse quasi un po’ intimorito da tanta bellezza, tanto da non dormire mai nella villa che si costruisce negli anni Sessanta sulle colline torinesi. Sì, Cerruti ricorda un po’ Scipione Borghese, il vorace, violento collezionista, cui si deve, grazie anche a tanta aggressività, la straordinaria collezione della Galleria Borghese a Roma: se un artista non gli faceva in fretta, o non gli dava l’opera che lui voleva, lo sbatteva in prigione e buttava la chiave fino a quando il malcapitato non aveva cambiato idea. Si passi il paragone un po’ irriverente ma, come il cardinal Borghese che la notte, lasciato il Vaticano dove gli tocca svolgere incombenze diurne, andava nella sua casina di caccia allora fuori città e, con la candela in mano, ripercorreva con occhio incantato i profili e gli incarnati, i paesaggi e i simboli di quei capolavori raccolti nel suo superbo scrigno, così Cerruti andava nella villa di Rivoli per godere della sua collezione, senza però mai abitarci. Era un mondo a parte, e tale doveva rimanere, dopo aver messo ordine nella “confusone, la frammentarietà in cui versano le cose di questo mondo”, come diceva Benjamin a proposito dell’attitudine del collezionista,
Strana cosa questa censura del dormire, perché la villa, sebbene non grande, è piena di camere da letto, con giacigli perfettamente pronti all’uso e circondati da inestimabili capolavori, ma mai usate. Nè da lui, né dalla madre o dalla sorella, destinatarie di altre stanze, né da eventuali ospiti, anche loro figure fantasmatiche. Al massimo, nella cosiddetta camera delle rose con, tra gli altri, cinque straordinari Morandi, Francesco Federico Cerruti ci faceva qualche riposino pomeridiano, dopo aver pranzato nella sala tappezzata da otto de Chirico.
Villa Cerruti
Nel percorso che il collezionista ha sillabato e che oggi ritroviamo pressoché invariato compaiono tanti artisti, figure e situazioni, epifanie che raccontano una dedizione amorosa e solitaria. Che inizia a sinistra con la sala della musica di cui si è detto, prosegue con lo studio, di cui l’opera più inestimabile è forse un’acquaforte di Rembrandt, e improvvisamente si inerpica in uno scalone dove sfilano Klee, Modigliani, Capogrossi, Mirò, Boccioni, Leger, Bacon, Casorati e poi più oltre si intravede Picasso ma, una volta arrivati vicino, si capisce che sono due. E non basta, perché, dopo un ingresso, con due preziosi Sisley e Cézanne, un altro salone con un grande Pellizza da Volpedo e due vedute di Francesco e Giacomo Guardi e la sala da pranzo degli otto de Chirico, ecco che cominciano le famose camere da letto. Con che cosa si sarebbero addormentati lui, la madre, la sorella, eventuali ospiti? Accarezzando con un ultimo sguardo la Seducente di Balla, il Sonno dell’ermafrodito di Savinio e meditando su un altro Klee, un inquietante Magritte, o forse rimanendo definitivamente svegli per via delle presenze di Chagall, Picabia, Schiele, Sironi, Severini, Ernst. Basta? No, perché oltre un altro salone e la Camera della Torre, particolarmente severa, che pare dovesse essere la dimora finale del collezionista, Cerruti aveva allestito anche il piano interrato, dedicato ai suoi ultimi interessi. Ecco, quindi, un lungo corridoio, con due Andy Warhol da un lato e un Giulio Paolini dall’altro, che immettono nella sala dell’Ottocento con, tra altre opere, un licenziosissimo nudo di Boldini per poi arrivare alla Sala Fontana, giustamente chiamata così per via di uno strepitosa, rossissima tela di Fontana ritmata da secchi tagli, cui si affiancano Kline e Kandinskij e alla Sala da biliardo con Casorati, Robert Delaunay, De Pisis, Sutherland, Campigli, Burri, Manzoni, Vedova e Gino De Dominicis che fanno compagnia ai giocatori, mentre nella stessa sala una teca custodire dei Capricci di Goya.
Non abbiamo citato tutto, perché ci sarebbe da parlare dei mobili, i tappeti pregiatissimi, i soprammobili, quali ad esempio “sculturine” di Medardo Rosso e Giacometti. Ma basta così, perché la Sindrome da Stendhal può cogliere anche chi legge.
Adriana Polveroni