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“Ho un’immagine in testa” diceva Pino Pascali a Carla Lonzi nel 1967, nel corso di un’intervista poi confluita in Autoritratto, celebre volume dove la critica aveva raccolto le conversazioni con un gruppo di artisti, tra i quali il ragazzo pugliese, arrivato a Roma dieci anni prima per frequentare l’Accademia di Belle Arti. Come Pablo Picasso o Andy Warhol, il suo lavoro parte e si sviluppa da un’immagine, cercata e trovata nella dimensione concreta della vita quotidiana, in bilico tra il lavoro artistico e l’attività professionale di scenografo e disegnatore presso la Lodolofilm, avviata nel 1958, per la quale realizza caroselli e spot pubblicitari a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Gioioso, vulcanico, brillante, seduttivo e talentuoso, Pascali conclude la sua breve ma fulminante carriera artistica con un incidente stradale l’11 settembre 1968, a soli 33 anni. Una luminosa meteora protagonista di numerose mostre retrospettive e tematiche in Italia e all’estero, che hanno esaminato i diversi aspetti della sua ricerca. L’ultima è Pino Pascali from images to shape, aperta a Venezia a palazzo Cavanis, in occasione del cinquantesimo anniversario della morte e in concomitanza con la 58ma Biennale di Venezia. Promossa dalla fondazione Pino Pascali e curata da Antonio Frugis e Roberto Lacarbonara, la mostra indaga in maniera specifica il rapporto tra fotografia, scenografia e scultura nella produzione pascaliana, approfondito grazie al ritrovamento di 160 scatti stampati dall’artista tra il 1964 e il 1965, a Napoli e a Roma.
Pino Pascali interpreta Pulcinella video 3’24’’ e Pazzariello video 1’16’’ per lo spot Cirio 1965. Fondazione Pino Pascali Polignano a Mare
Così, grazie all’accostamento tra le fotografie, i disegni tratti dal taccuino Annotazioni (1967) e sette opere, la mostra permette di entrare nel cuore del processo creativo di questo formidabile “cacciatore di immagini”, grazie anche alla scansione tematica che divide il percorso in 8 sezioni tematiche. “Il viaggio diventa così una ricognizione sull’immaginario in equilibrio con l’immaginazione dell’autore” puntualizzano i curatori, che accompagnano il visitatore nell’universo pascaliano degli ultimi tre anni della sua vita. Anni brucianti e tellurici, nei quali Pascali sperimenta materiali naturali e artificiali, “sottolineando la sua capacità di trasformare qualsivoglia materiale, impegnandosi ogni volta in una nuova serie di sculture” puntualizza Valérie Da Costa. “La tecnica è la mia vita! Ma ogni volta cambia: trovata e lasciata” confessa l’artista a Marisa Volpi Orlandini nel 1968, quasi a voler dichiarare un’attitudine onnivora ma incostante, che lo porta ad enucleare una serie di tipologie di lavoro che porta avanti in maniera apparentemente veloce ma mai inconsapevole.
Pino Pascali 9 mq di pozzanghere 1967 Pinacoteca della Citta Metropolitana Bari
E soprattutto, privilegiando sempre una dimensione calda dell’opera, lontana dal coevo minimalismo statunitense. “Le opere di Pascali non si offrono alla contemplazione ma conservano l’energia dell’azione” sottolinea Francesco Stocchi, ed enuncia la forza del disegno come generatore di un immaginario capace di trasformare gli elementi del quotidiano in icone simboliche , che sintetizzano lo spirito del tempo in un vocabolario mediterraneo, in costante equilibrio tra gioco e dramma. Tra le sezioni della mostra spiccano le prime due, dove il passaggio dalla fase progettuale all’opera è più esplicito: il processo che porta Pascali a realizzare opere come 9mq di pozzanghere (1967) o Contropelo (Pelo) (1968) è illustrato da una serie di scatti e di schizzi a penna, che dimostrano il forte interesse dell’artista per l’acqua. “L’acqua mi affascina molto, diventa come uno specchio”: acqua e mare, pozzanghere e bitte, pontili e passerelle. Ma anche cassette di pesce, pescatori con le ceste, ombrelloni e bambini, dai visi puliti e scarmigliati, gli occhi ridenti e allegri. Gli scatti di Pascali sono un percorso nel suo sguardo mentre osservava divertito i visitatori intorno alle sue sculture, per studiarne le reazioni e i comportamenti. E il merito di questa mostra è di aver restituito l’anima multiforme e caleidoscopica di un artista che si definiva come “un serpente, che ogni anno cambia pelle”. In maniera semplice e diretta, vitale e consapevole. Un affondo parziale ma prezioso, arricchito dal catalogo, con saggi di Valérie Da Costa, Marco Tonelli, Francesco Stocchi, Nicola Zito e dei due curatori.
Ludovico Pratesi