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13
luglio 2015
L’Italia non è un Paese per musei
Politica e opinioni
Mentre sono in corso gli “orali” per la selezione dei direttori dei venti musei italiani, vi raccontiamo perché la Riforma Franceschini non funziona
Alla fine ci siamo. In questi giorni sono in corso i colloqui dei 200 candidati ammessi agli “orali” per i venti musei italiani dichiarati strategici dal MiBact. Per lo più nomi buoni, si è detto, con il Ministero che ne esce bene, premiando, come del resto c’era da aspettarsi, 30 di quegli stranieri che hanno fatto domanda per venire in Italia, tra i quali ci sono nomi decisamente di peso più qualche storico dell’arte a fine carriera innamorato dell’Italia. Auguri, intanto, ne avranno molto bisogno, forse non sanno in che situazione si sono infilati. Ma già il fatto che, provenendo per lo più da musei storici se la vedano con vecchie conoscenze del contemporaneo italiano, qualche dubbio gli dovrebbe venire.
Dietro i nomi più noti di cui vi abbiamo già detto, ce ne sono altri meno conosciuti soprattutto “ministeriali”, provenienti magari dalle varie Soprintendenze accorpate, e che bisognava piazzare, come si mormorava nei corridoi dello stesso ministero (e non solo) ma che invece in pochi sono stati ammessi agli orali. Quanto basta per renderli inoffensivi, per evitare, insomma, che facessero ricorso.
Dopo aver sportivamente augurato che vinca il migliore, il verdetto spetta alla giuria, al cui vertice c’è Paolo Baratta, stimato presidente in carica della Biennale e alquanto esterofilo, cosa che dovrebbe favorire gli stranieri. Per i dieci musei più importanti Baratta fornisce una rosa di tre nomi e a scegliere è il ministro Dario Franceschini, che la riforma l’ha fortemente voluta, che pare volere anche lui gli stranieri, ma che si è rivelato un po’ troppo cedevole verso pressioni e con idee non sempre chiare sul peso delle scelte: vedi la nota vicenda Padiglione Italia.
Chiunque sarà nominato, però, se la dovrà vedere con una situazione parecchio complicata. La riforma vuole che i musei siano finanziariamente autonomi, bel principio (in line di principio, appunto) ma che non sta in piedi. Nessun museo, neanche quelli più gettonati vivono di soli biglietti, il Centre Pompidou o la Tate Modern ci coprono circa il 30 per cento del budget, e parliamo di macchine da guerra che fanno milioni di visitatori l’anno. E non solo. Ammettiamo che l’autonomia finanziaria sia un principio sano che mette il museo sul mercato, e anche qui vinca il migliore, volendo dire che chi ha idee, sa costruire buone relazioni, giostrandosi tra la necessità di far quadrare i conti senza svendere il senso per cui è nato il museo (quadratura del cerchio molto difficile da raggiungere), magari ce la fa. Ma il fatto è che per ora sono stati tagliati i fondi e basta, dando ogni tanto qualche spicciolo per evitare che il museo chiudesse nel frattempo. Procedura che inevitabilmente dovrà continuare, alla faccia dell’autonomia e per la sopravvivenza del museo. Non era meglio, allora, predisporre in maniera trasparente un periodo di transizione, di ordine amministrativo ed economico, tra il finanziamento statale e l’autonomia? Che nei fatti però, e alquanto brutalmente, è stata predisposta.
Il caso eclatante è proprio quello della Gnam, che ha raccolto molte candidature, tra cui quella di Gerald Matt, di Danilo Eccher, di Cristiana Collu, piazzata meglio di Eccher e a pari merito di Matt (e in corsa anche per Brera), di Mario Codognato, attualmente al Belvedere di Vienna, di Bartolomeo Pietromarchi alla Fondazione Ratti di Como, di Marialetizia Ragaglia, fresca di riconferma al Museion di Bolzano.
Museo molto appetibile, quindi. Peccato che la Gnam dieci anni fa aveva un budget di circa 2 milioni e mezzo di euro (non tantissimi neanche allora, considerando il tipo di museo che è) e oggi è arrivata ad averne 250mila per le attività: mostre e tutto quello che un museo dovrebbe fare, collezionando però quasi tre milioni di debiti, tra bollette non pagate di luce, acqua, gas e altre spese. Non certo per spese pazze della direzione di Maria Vittoria Marini Clarelli, che anzi è riuscita miracolosamente a tenerlo aperto e a farlo funzionare.
Tra coloro che hanno fatto domanda per la direzione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, chi conosce questa situazione? I “romani”? Forse i non romani che dirigono musei facenti parte di AMACI, di cui la Gnam e membro? Ma probabilmente gli stranieri ne sono all’oscuro, o quasi. Nessuno di loro, a quanto risulta, ha fatto una visita al museo scelto (prassi assolutamente lecita) per verificare lo stato delle cose e la relativa fattibilità della propria direzione. E al di là di questo, straniero o italiano che sia, fantasia e idee non bastano. Ci sarà da sporcarsi le mani, affittando spazi possibilmente tutte le sere e mettendo su piatto altre offerte. Tanto per restare a Roma, il MAXXI, che pure dallo Stato riceve quasi 6 milioni all’anno, insegna quanto tocca sporcarsele, le mani, con i criticati corsi di yoga, i dj set estivi e altre amene trovate. Ma, senza scomodare gli stranieri, mettiamo che proprio alla Gnam sia nominata Cristiana Collu, potrebbe tenere ferma la posizione per cui si dimise dal Mart, allorché affermava che: «Trovare dei fondi privati viene in un secondo momento», perché compito del direttore è «portare la propria visione e agire in modo non condizionato, altrimenti non è un ruolo che ha molto significato»? Dice bene Collu: se si sta sempre a cercare soldi, ricerca e promozione culturale rischiano di andare in secondo piano. Ma nell’autonomia i futuri direttori potranno permettersi questi che oggi appaiono “lussi”?
Altri due musei che si staccano dalla casa madre, un polo museale che, grazie anche a fondi speciali UE e altre entrate, un po’ di soldi ce l’aveva, sono Capodimonte di Napoli e la Reggia di Caserta, che prima erano insieme a Villa Pignatelli, Villa Floridiana, la Certosa di Capri, Castel Sant’Elmo e San Martino. Ora come andranno avanti? Sappiamo bene, e a maggior ragione dovrebbe saperlo un ministro che vi mette mano, che i musei vendono biglietti soprattutto con le mostre temporanee, ma solo i sinceri appassionati alla storia dell’arte, i “cultori della materia”, sono attratti dalle collezioni permanenti. Ma come si fanno le mostre temporanee senza soldi? Come si fanno le nozze coi fichi secchi? Non si tratta di essere statalisti, ma realisti.
La riforma Franceschini sembra essere pensata per il migliore dei mondi possibili, dove le aziende sponsorizzano al di là dei propri interessi, mettono soldi, senza badare al ritorno di immagine, dove i collezionisti donano o magari comprano addirittura per il museo e le fondazioni bancarie fanno la loro parte. Ma l’Italia non è un paese per filantropi. Non c’è quella mentalità, diffusa per esempio negli Stati Uniti, per cui ad un certo punto della vita si restituisce a uno Stato che è stato generoso con l’individuo. Ci sono fior di miliardari in Italia che per la loro città non hanno messo una lira, che magari sono collezionisti ma che si tengono ben stretta la collezione.
Torniamo a Roma, caso paradigmatico anche perché parliamo della Capitale. Dove sono le aziende che sostengono musei ed eventi culturali? Si contano sì e no sulla punta di una sola mano, e a volte sono straniere, interessate al clamore dei grandi eventi o ai grandi restauri, ma a cui non gli frega niente dei musei. E soprattutto, dove sono le fondazioni bancarie che, come per esempio a Torino con la Fondazione CRT, pensano alla programmazione culturale della città, musei compresi? A Roma ce ne è una di fondazione bancaria, che pensa a se stessa, con un proprio museo. Il fatto è che però a Roma di musei ce ne sono molti altri e tutti oggi sono molto affamati. C’è l’Art Bonus si dirà, oltre a tante norme, contorte il giusto per scoraggiare eventuali donatori, che in realtà già consentivano un leggero sgravio fiscale. Vero, e ne siamo contenti. Peccato che l’Italia, oltre a non essere un Paese per filantropi, rimane uno dei Paesi con la più alta evasione fiscale al mondo. E che in pochi donano perché in tanti evadono.
Nel numero dell’allegato sette del “corriere della sera” del 10 luglio (n° 28), un Gianfranco Maraniello fresco di nomina al MART ha indicato, in un’intervista di Vittorio Zincone, l’obiettivo della sua dirigenza: “garantire una continuità ai progetti museali” inneggiando alla missione del museo di creare un processo identitario fondato sulla riconoscibilità “sulla creazione di un immaginario”, ha detto il neodirettore, “che prescinda dalle singole mostre” e che punta sulla continuità. Questo radicamento, già paventato anni fa da Vittorio Gregotti, è una delle formule che oggi rimbalzano nelle opinioni di critici radical come Michele Dantini che, dalle pagine del magazine on line “La predella”, propone una serie di soluzioni per sottrarre dalle grinfie del capitalismo mercantile l’arte e, quindi, i musei d’arte contemporanea. Le soluzioni proposte da Dantini in parte convergono con l’idea di Gianfranco di offrire una efficiente e qualificata identità al museo evitando di esaurire nell’evento quello che dovrebbe essere un ordinario servizio civico e un diritto civile. Ambedue schierati contro il “mostrismo”, Maraniello e Dantini sembrano indicare, in sostanza, la medesima soluzione a quello Sboom che tu, precocemente, avevi descritto quale effetto della crisi economica. Lo sboom, ossia quella bolla culturale che ha avuto la sua vertigine nel 2006 ha trasformato il museo in un contenitore vuoto dove le aspettative degli sguardi attoniti fotografati da Sturth si infrangono nel vuoto tautologico di Pietroniro, magari cercando di essere legittimati da una performance di Tino Seghel. Sto parlando del pubblico, che dopo aver subito la dittatura del curatore, elabora sogni e conflitti del museo “Sbummato” (Adriana, ti prego di concedermi il termine) nella lettura equivoca del presente. In questa lettura, per rinnovare lo stupore delle avanguardie moderniste, si rischia di dimenticare la complessità del mondo globale, complessità che si misura ancora marxianamente con il disagio del post – colonialismo. Il vecchio terzo mondo, un po’ come la vecchia arte moderna, viene riletto come strumento di accertamento piuttosto che come oggetto dell’indagine sul presente e la vecchia “arte moderna”, come il terzo mondo, è considerata con il senso di colpa di un secolo di conflittuale incomprensione. Sono d’accordo con te, quindi, che questo non è un paese per musei, ma dal momento che è, comunque, un paese museo lo potremmo immaginare abitato da attenti e rispettosi visitatori e non dai diavoli di Goethe.