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12
ottobre 2015
In Turchia si protesta di nuovo, in piazza. Stavolta senza paura di nessuna esplosione, come accaduto l’inverno scorso a Parigi, nei raduni silenziosi per Charlie Hebdo.
Il dito contro il Presidente Erdogan si è già puntato da tempo, così come sulla sua armata dello Stato Islamico, lo stesso a cui ora si imputa la colpa della strage di Ankara che – all’ora in cui scriviamo questo nostro punto di vista – non ha ancora avuto una rivendicazione.
Chiunque però abbia lasciato quelle centinaia di morti sulle strade, mentre si manifestava per “la pace”, l’ha fatto con il preciso intento di spodestare una tranquillità politica dal Paese della Mezzaluna, già comunque lontana anche senza questo episodio.
Che ora, se confermerà il “pagheranno i colpevoli” recitato da Erdogan, si ritroverà di nuovo, e ancora di più, bloccata nella morsa di uno stato militare.
Allo stato attuale non tornano diversi “disegni” del sabato di sangue: la polizia non era presente ad Ankara, ma è arrivata sul luogo delle esplosioni in seguito, e attualmente disperde i manifestanti con lacrimogeni, quasi a voler aumentare il clima di braccio di ferro tra popolazione e istituzioni.
Poi c’è il “possibile” attentatore trovato, come ha annunciato però solo il quotidiano Yeni Safak, quotidiano decisamente di spalla al governo.
E così, quella che doveva essere una festa pacifica, per chiedere la fine del conflitto che le forze di sicurezza hanno ingaggiato contro i separatisti curdi del Pkk, nel sud-est del Paese, si è trasformata in una prova di forza.
Il premier ad interim Ahmet Davutoglu ha detto che «Si tratta di un attentato che ha puntato direttamente contro la democrazia e i diritti democratici e la libertà, a pochi giorni dalle elezioni». Proprio le elezioni sono il problema, e la storia sembra ripetersi ciclica, con le medesime dinamiche da una parte all’altra d’Europa e dei decenni. E gli stessi colpi di stato. (MB)