26 ottobre 2015

Tutti i colori del Madre

 
L’autunno del museo napoletano si apre con un caleidoscopio espositivo. Tra mondi onirici e oggetti espansi. E una riflessione sulla sconfinata semantica dell’arte

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Sulle alte pareti di specchi, si riflettono geometrie blu e arancioni, un grande frigorifero nero si materializza su uno sfondo chroma key verde. Una scala a pioli sfonda il tetto di una sala rossa e ne emerge per avanzare verso le screziature del cielo che, in questo periodo dell’anno, tendono a variare velocemente. L’autunno del Madre inizia con un caleidoscopio di colori, le cui strutture asimmetriche si articolano tra tutti gli spazi del museo napoletano e un po’ oltre, con Axer / Désaxer, lavoro in situ di Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938), a cura di Andrea Viliani ed Eugenio Viola, Desiderata (in media res), retrospettiva mid-career di Mark Leckey (Birkenhead, 1964), a cura di Elena Filipovic e Andrea Viliani, e La Voce. Nel giallo faremo una scala o due al bianco invisibile, installazione storica e visionaria di Marco Bagnoli (Empoli, 1949), nell’ambito di L’albero della cuccagna. Nutrimenti dell’arte, progetto espositivo a cura di Achille Bonito Oliva, con il patrocinio di Expo 2015. 
Una nuova stagione di mostre e attività che corrisponde al recente insediamento della giunta regionale di Vincenzo De Luca, subentrato a Stefano Caldoro nel luglio 2015. La mancata nomina di un assessore alla cultura in virtù di un consulente consigliere ha acceso l’estate degli addetti ai lavori con un dibattito. Adesso, però, almeno i dissapori sembrano passati e l’intervento del consulente incaricato alla cultura, Sebastiano Maffettone, in occasione dell’affollatissima conferenza di presentazione delle mostre, è stato chiaro: «Siamo entusiasticamente presenti, la Regione guarda al Madre con simpatia e ammirazione, con rispetto delle competenze e delle interdipendenze». 
Al valore e all’etica della cooperazione ha fatto riferimento anche il presidente della Fondazione Donnaregina, Pierpaolo Forte: «La cultura è una responsabilità da diffondere tra tutti gli enti e devo dire che con la Regione abbiamo trovato subito la giusta sintonia». I volti cambiano più velocemente delle parole, è un dato ovvio e, in fondo, un fatto positivo, se quella «percezione di un territorio condiviso di buone pratiche», cui ha accennato Andrea Viliani, riuscirà a svolgersi in continuità progressiva con quanto già fatto. 
Daniel Buren, Axer / Desaxer, lavoro in situ, Madre, Napoli 2015, veduta dell’installazione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli, Photo © Amedeo Benestante
Il Madre presenta un apparato espositivo eterogeneo, ma coerente con l’ipotesi di instaurare una relazione aperta con i fenomeni della contemporaneità e con il territorio, con una ricca collezione permanente, frutto di proficue collaborazioni con gallerie e altri enti privati, composta da opere dal respiro internazionale e legate alla stratificazione storica e culturale cittadina, da Carl Andre a Gilberto Zorio, da Joseph Beuys a Emilio Isgrò. Il progetto site specific di Buren e la temporanea di Leckey proseguono sulla scia metodologica, proponendo un ambiente in cui si rispecchiano esperienze del passaggio e un’antologia dell’oggetto iper-contemporaneo. Due itinerari che, tra aree di tangenza e distanza, definiscono la dinamica interpretazione dei termini della ricerca artistica contemporanea. 
In Axer / Désaxer, Buren è intervenuto nel dialogo tra il dentro e il fuori, disorientando l’atrio con una nuova prospettiva centrale, ispirandosi al gioco fuori asse tra la facciata del palazzo ottocentesco e la strada. Qualcosa inizia nell’istante esatto in cui si supera il portone giallo di via Settembrini, come un cambiamento repentino da uno stato all’altro. Il luogo di soglia incrocia la funzione del transito con il momento della stasi, costruendo una zona di esperienze ibride. Strisce bianche e nere di 8,7 centimetri,la consueta sintassi dell’artista francese,sono distese sull’impiantito, creando un movimento obliquo, un dinamismo che si riflette sulle pareti ricoperte di specchi. Le persone osservano il proprio riflesso, le tonalità dei vestiti entrano in contrasto o si uniformano con il blu, l’arancione e il giallo, colori diffusi da vani illusionistici e scompartimenti geometrici. Questa complessa articolazione dello spazio è prodotta da forme pure e luminose che circondano lo spettatore con un artificio di echi visivi. I volti si moltiplicano e le luci si confondono tra spessori illusori, in questo minimalismo barocco che, firma paradossale e ludica, crea una macchina scenica innalzata senza fori e chiodi, perfettamente sovrascritta all’ambiente. La rigorosa architettura percettiva del museo diventa una zona di intersezione simultanea tra realtà e rappresentazione, un trompe l’oeil immersivo che smarrisce il punto di osservazione e suscita meraviglia. La rivelazione di un nuovo mondo capovolto e ridotto a grandiose geometrie può apparire destabilizzante, ma la bravura di Buren è nel far trovare la chiave interpretativa nel gioco, per rendere il percorso dolcemente coinvolgente, come un’allegoria della scoperta fanciullesca che continua nella Sala Re_pubblica, prospiciente all’atrio visionario “dentro e fuori asse”. Infatti, fino a febbraio 2016, sarà ancora visitabile anche il primo lavoro del progetto in situ di Buren, Come un gioco da bambini, l’environment che trasforma l’ampio ambiente al piano terra in una città fuori proporzione, dove l’unica dimensione percorribile è quella onirica, con palazzi e vicoli composti dall’intersezione di grandi blocchi colorati. 
Mark Leckey, Pearl Vision, 2012, video HD, colore, suono, 3’:06’’, proiettato su macchina di retro-proiezione. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli, Courtesy l’artista; Cabinet, London; Gavin Brown’s enterprise, New York; Galerie Buchholz, Berlin-Köln
In un certo senso, questo mondo colorato di sospensione della coscienza potrebbe essere agito dalle opere di Mark Leckey, luccicanti di realtà e ieratiche come totem,tra feticcio e archetipo. Al centro del mondo dell’artista britannico, vincitore del Turner Prize e del Central Art Award, c’è l’oggetto, con la sua diafana concretezza, in bilico tra catena di montaggio ed eterea perfezione, che riverbera il luccichio di una creazione assurdamente post-umana. Tale ossessione per la produzione e per il consumo non viene interpretata come patologia, ma scandisce un linguaggio poetico, non ci sono occasioni per lanciare anatemi moralistici o avanzare pretese di redenzione. L’oggetto è fatto per essere sensuale,sinuoso e completamente asservito a chi lo manipola. Frigoriferi, schermi televisivi, impianti stereo, mostrano il loro lato splendente e raffinato, una bellezza ad altissima definizione che trova nell’effimero il suo canone. Il metodo di Leckey è lasciarsi felicemente azionare da questo dispositivo del desiderio dalla foggia trendy, farsi trasportare dal flusso, rimanendo sulla superficie quel tanto che basta per mantenere uno sguardo lucido. Una misura difficile da raggiungere ma che Leckey mantiene con coerenza e mestiere, perché la profondità è solo una delle direzioni possibili da percorrere e anche sulla superficie delle cose, sulla loro apparenza scintillante, si traccia una vena di sublime. 
Marco Bagnoli, La voce, veduta dell’installazione al Madre, Napoli, 2015, Photo © Amedeo Benestante
L’esposizione al Madre, in collaborazione con WIELS di Bruxelles e Haus der Kunst di Monaco di Baviera, inizia con Felix the cat, longevo e diffuso riferimento visivo di pubblicità e animazioni. In questo caso,il famoso gatto nero compare nella forma di un grande pallone aerostatico, scompostamente sdraiato sul pavimento. Su un tablet poco discosto, è riprodotto un video con un dettaglio metamorfico della coda che scorre serpeggiando come un fluido non newtoniano. La perfezione della superficie risplende in Windmill Street – Flat Screen, in cui si susseguono inquadrature a 360° del Rabbit di Jeff Koons, riprodotte da un vecchio proiettore, residuo stridente dell’arcaico. Sulla superficie della scultura del guru dell’oggetto di consumo contemporaneo, si specchiano gli ambienti di un’abitazione, con un effetto simile alla sfera di Escher, dove materiale e immateriale condividono la stessa estensione vertiginosa. In realtà, il movimento è solo simulato e le riprese sono generate dalle immagini dell’opera originale, ricomposte in digitale. La meccanica di uno strumento musicale è minuziosamente scomposta in Pearl Vision, un video in retroproiezione, dalla struttura già di per sé molto scenografica, in cui una batteria della leggendaria casa di produzione Pearl, suonata dallo stesso Leckey e ripresa nei suoi particolari meccanici più reconditi,diventa un’altra cosa. L’immagine esplora, scomponendo l’oggetto nei frammenti di una fascinazione virtuale. Questa epopea della dicotomia tra materia e non materia trova il suo punto focale in Green Screen Refrigerator Action. Un grande frigorifero nero Samsung è posizionato davanti a uno sfondo chroma key verde, usato nel cinema per adattare soggetti e oggetti su ambienti virtuali. Un monolite sacro e senza ombra che manifesta la propria presenza assertiva nella cattedrale futuristica e intangibile degli effetti speciali. 
Marco Bagnoli, La voce, veduta dell’installazione al Madre, Napoli, 2015, Photo © Amedeo Benestante
Questo totem di consumo è dotato di una voce propria – la voce camuffata di Leckey, propagata da un elegante impianto stereo a vista – di pensieri autonomi che scorrono su un panoramico televisore a schermo piatto. Il frigorifero ragiona per immagini, come fanno gli uomini, si esprime in un linguaggio comprensibile e cadenzato su una liturgia, tentando un dialogo con il probabile utente per instaurarvi un contatto emotivo. L’oggetto discetta sulla propria natura e sulle implicazioni della propria esistenza, descrivendo il percorso interno del gas freon, il suo sangue, e il funzionamento dei circuiti, il suo sistema nervoso, come per una sorta di messaggio pubblicitario della coscienza di sé. Strettamente connessi agli oggetti, ai mondi che essi descrivono, sono i vestiti – «Mark ha iniziato a seguire il fenomeno della moda proprio in Italia e, in particolare, a Napoli», ha detto Elena Filipovic – e la musica. 
Per questo, non poteva mancare il video Fiorucci Made me Hardcoreche, nel 1999, portò Leckey all’attenzione delle cronache dell’arte contemporanea. In questa sequenza found footage, che alterna accelerazioni e rallentamenti, i gusti musicali e i capi d’abbigliamento esprimono un atteggiamento storico, raccontando sensazioni e relazioni della cultura giovanile del clubbing, tra weekend visionari e folle fluttuanti sui ritmi allucinatori. 
Mario Francesco Simeone 

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