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04
dicembre 2015
Tensione e cambiamento. Ecco Maïmouna
Personaggi
La fotografa convertita all’Islam è a Roma con la sua prima personale. Dove immagini e colori raccontano storie, simboli, oggetti innocenti forse pericolosi. Da scoprire
“Una sospensione metafisica di apparente immobilità”, Maïmouna Guerresi (Pove del Grappa, Vicenza 1951, vive e lavora tra Italia e Senegal) parla di un qualcosa che sta per succedere o che avviene così velocemente da sembrare immobile. È in questa tensione, percepibile in ogni sua scultura, fotografia, installazione e video, che s’incanala tutta l’essenza dell’essere che, stando ad Eraclito, sarebbe in continua trasformazione.
Anche in occasione di questa sua prima personale romana da Matèria gallery (fino al 23 gennaio 2016), tra le mostre della XIV edizione di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma (nella capitale la Guerresi ha esposto più volte, ma sempre in mostre collettive a partire dall’XI^ Quadriennale nel 1986 fino ad Africa: See you, See me nel 2011, DonnexDonne nel 2014 e alla recentissima Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco), il titolo è quanto mai significativo: Talwin.
«Talwin è un termine sufi che vuol dire cambiamento, mutazione, il divenire inteso come qualcosa di interiore. È uno degli ultimi stadi di elevazione spirituale dei mistici sufi», spiega l’artista che nel 1989 si è convertita alla religione musulmana Murid, corrente mistica sufi praticata soprattutto in Senegal. Una mostra nata da una meticolosa scelta curatoriale, ma soprattutto da un profondo feeling con Niccolò Fano, giovane gallerista che dopo un’esperienza londinese di sette anni ha deciso coraggiosamente di tornare a Roma, dove ad aprile scorso ha inaugurato Matèria gallery nel cuore di San Lorenzo.
L’invito è ad entrare in punta dei piedi in una dimensione intima in cui l’artista, attraverso la dialettica degli opposti, esplora in una chiave tutta personale aspetti meno prevedibili della religione islamica, nel tentativo di superare barriere culturali, etniche, religiose.
Il percorso è modulato da una dominante cromatica a cui viene attribuita una forte valenza simbolica. Partendo dal rosso, che con il bianco sono colori ricorrenti nel lavoro di Maïmouna Guerresi, lo spettatore si ritrova circondato dal verde. Colori accesi, vibranti di energia, che rimandano a quelli saturi dell’Africa. Nel video Akhfa Zero (2015), evoluzione della performance realizzata per M’AMA.ART in occasione del Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 2014, la rappresentazione del bianco è affidata al latte, soggetto ricorrente nella sua poetica.
«Il latte è un elemento materno, primordiale, nutritivo che ricorre in tantissime religioni. Anche in Africa, specialmente in Senegal, il latte che viene offerto purifica. Si dona anche per avere la benevolenza dell’ospite. Quindi, è un dare e un ricevere. Quando, invece, uso il segno bianco sui miei personaggi si tratta più di un segno grafico di luce e distinzione. In Akhfa zero ha un altro significato sempre legato metaforicamente al latte materno, al femminile. Akhfa, che è un termine mistico che vuol dire la parte nascosta, più intima, è il titolo della performance di Spoleto, a cui ho aggiunto il numero Zero. Latte, secchio e sassi erano elementi che ritroviamo anche nel video, mentre la tavola rossa ricorda serie fotografiche come M-eating. La performance consisteva nel nominare 200 nomi di donne sconosciute, o meglio dimenticate, o non abbastanza considerate dalla storia sia occidentale che orientale, che hanno partecipato alla creazione del sufismo, tra le altre: Fatima, Aisha, Kadija. Personaggi che tornavano a vivere nella ripetizione dei loro nomi, sussurrati prendendo dei sassi da un secchio e gettandoli sul mio mantello. Il video è diverso, ma c’è la potenza del sasso, gli schizzi del latte che escono dal secchio espandendosi sul tavolo rosso, mentre sul muro ci sono scritte con nomi di donne. Un canto tradizionale maghrebino che parla della mamma, accompagna dolcemente l’aggressività delle immagini. Qualcosa che sconvolge ma che avviene quasi come un sogno».
La presenza umana rappresentata indirettamente nella sequenza del video – nonché nella serie di dittici del 2008 White Qulla, Sabbat, Red Qubba e Ulba, a cui si aggiunge Tools (2015) – attraverso still life codificati come ready-made sempre in bilico tra innocenza e violenza, è esplicita nel grande polittico Students and Teacher (2012). Anche in questa scena, che si svolge intorno ad un tavolo con cinque personaggi si parla di incontro, aggregazione, ma allo stesso tempo di isolamento. «Fotografo i personaggi frontalmente, ognuno davanti allo stesso tavolo e poi li metto insieme come in un banchetto». Personaggi rinchiusi in un microcosmo: il precettore immerso nella lettura di un libro, gli studenti distratti che giocano con oggetti reinterpretati: «Nell’ambiente africano qualsiasi cosa che si trova viene raccolta e riutilizzata, dando vita ad un’operazione di inconsapevole ready-made». Oggetti non sempre “tranquilli”, ma potenzialmente pericolosi, fanno parte del racconto quotidiano tanto quanto altrove la caffettiera bianca, le babouche, il tarboush-tanica: ecco allora che i bossoli diventano dadi, mentre la tanica rossa è lì a ricordare come da un momento all’altro possa esplodere l’incendio. Quanto alla scritta sul fondo, che come in ogni messi in scena, viene dipinta dall’artista sul muro dello studio, creando una quinta scenica sempre nuova che poi viene cancellata e ridipinta, «è un Basmala, formula ripetitiva – Bi-smi ‘llāhi al-Rahmāni al-Rahīmi – con cui si aprono quasi tutte le sure del Corano e contiene anche un significato esoterico, diremo di posizione aurea».
Come scrive Carlo Sala nel testo critico che accompagna la mostra: «La posizione assunta dall’artista è di agire secondo le “armi” dell’estetica per creare una stratificazione simbolica che coinvolge differenti livelli di lettura, in perenne equilibrio tra l’ordinario e la tensione».
Procedendo su questa linea non è difficile intercettare il triangolo che si viene a creare tra due opere fotografiche recenti – Aisha e Mimetic Landscape, entrambe del 2015 – e Adama, una scultura del 2009. Opere in cui viene riconosciuto al femminile il suo ruolo determinante nel raggiungimento dell’elevazione spirituale. È solo un’ipotesi, ma la tentazione è quella di assegnare a tre momenti diversi, la fase del raccoglimento e del sonno che vediamo in Adama, precede l’azione a cui allude la rappresentazione di Aisha nella sua ieraticità iconica, per arrivare al raggiungimento di una serenità attraverso l’immersione nella natura (Mimetic Landscape).
In questo iter dominato dall’uso del verde nelle sue diverse tonalità si attua un complesso processo di mimesis. «Per realizzare il costume di Aisha ho preso una stoffa verde che ho dipinto con della mascherine, come faccio sui muri», spiega Maïmouna. «Mi piace affrontare tutti gli aspetti del lavoro. Il manto è mimetico, si tratta di una copertura di una tenda da caccia. Il fondo scuro è il grigio del suolo. Aisha è una figura di particolare intelligenza, ha raccolto tutti gli adid del profeta è una pietra miliare importante per l’islam. È stata anche la prima combattente dell’islam, nella battaglia del cammello dirigeva le manovre dal suo baldacchino sul dromedario. Da qualche parte ho letto la frase in cui afferma “vorrei essere come una foglia”, che ho voluto rappresentare in questa mia interpretazione».
Aisha si ricollega anche alla serie Giants – che rappresentano un capitolo del bellissimo volume Inner Constellations – Photographs, pubblicato da Glitterati Incorporated nel 2015 – in cui personaggi giganti mostrano il volto, mentre il corpo non c’è, o meglio è un vuoto nero circondato dal mantello che l’artista crea attraverso le strutture architettoniche che mette nel costume. «C’è sempre la paura di qualcosa che non si conosce. Il buco nero è uno spazio nuovo che non dà sicurezza. Nel rappresentarlo c’è anche la volontà di stimolare nell’osservatore la curiosità di addentrarsi in quello spazio, dove il rischio porta a scoprire nuovi mondi. In fondo non è che un modo per accettare se stessi».
Manuela De Leonardis
Foto in Home Page e in alto di Manuela De Leonardis