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Il motivo per cui un giudice dell’entroterra di San Paolo ha emesso l’ordinanza di uno stop forzato di WhatsApp, in Brasile per due giorni, non è stato reso pubblico. Si sa che a suo parere i responsabili della celeberrima app, nel luglio scorso non avrebbero rispettato l’ordine di un collega magistrato, emesso nell’ambito di un procedimento penale misterioso. Non male non sapere cosa bolle in pentola tra la legge brasiliana e il social di proprietà facebook.
Fatto sta che l’episodio, proprio nel Paese del Sudamerica, non solo ha scatenato il panico per 100 milioni di iscritti al servizio, ma ha anche messo in atto una “bagarre” giuridica per cui un altro magistrato ha disposto immediatamente una rettifica della richiesta del collega, liberando dopo due ore di buio totale il servio.
E restituendo ai cittadini la loro libertà, come ha riportato Mark Zuckerberg, founder del più celebre social network, che si è detto «Sotto choc in un giorno triste per il Brasile, Paese fino ad ora alleato nella creazione di una rete internet aperta».
Ma quali libertà, invece, sono state violate? Che cosa c’è dietro questa decisione impopolare? Ancora una volta il profilo del mondo si delinea in una strana forma: quella del virtuale come “contenitore” massimo della storia, di dati importanti, di possibilità politiche.
Strana arma il social media: «Sono sbalordito che i nostri sforzi per proteggere i dati della gente si traducano in una decisione così estrema di un giudice, che punisce ogni persona che in Brasile usa WhatsApp», ha aggiunto il finto-buono-ingenuo-eterno-giovane Zuckerberg. Ma quel che ancora salta fuori è che l’azienda avrebbe ignorato anche una seconda notifica, anch’essa rimasta ignota. Ma un coro di cento milioni si è levato, quasi urlando: “Problemi loro, lasciateci WhatsAppare”. Panem et chat, what else? (MB)