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Mettere in scena un testo teatrale è come dipingere un quadro. Il punto di partenza ottimale è lo stesso: una buona conoscenza della società e del contesto storico, poi si studia il campo e si allestisce la scena, si schiarisce la voce e si preparano i pennelli, si indossano i costumi e si tira la tela, si calcola la giusta illuminazione, si fanno prove. Ci si guarda attorno, e si comincia. Uno degli incontri più riusciti tra le due arti è stato l’happening, le performance a metà le arti visive e il teatro.
Rosso, testo di John Logan, già vincitore di sei Tony Award nel 2010, portato in scena da Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña per la regia di Francesco Frongia, inizia proprio con la messa in scena di un’opera d’arte. E non è un’opera qualsiasi, perché la storia è quella di Markus Rothkowitz, ebreo trasferitosi dalla Russia agli USA quando aveva dieci anni e diventato pittore famoso con il nome di Mark Rothko. E poi l’opera è uno dei Seagram Murals, commissionati appunto da una importante azienda di liquori per il suo ristorante all’interno del nuovo Four Seasons Hotel.
Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Lo spettatore si ritrova in uno studio d’artista, con le grandi tele dove vibrano le magiche tonalità di rosso predilette dal pittore. È il primo giorno di lavoro del nuovo assistente di Rothko, che incuriosito assiste alla messa in scena della magia, alla creazione di un capolavoro da parte di uno degli artisti che ha segnato la rottura con la precedente arte figurativa, aprendo la strada del contemporaneo. Grazie al giovane assistente, nasce una dialettica che porta alla luce la matassa mentale che custodisce l’arcano dell’intero suo lavoro, mostrando, anche se a un livello piuttosto superficiale, la linguistica di uno dei padri fondatori dell’espressionismo astratto, di cui espose i fondamenti teorici nei celebri “sei punti” pubblicati dal “New York Times” nel 1940. I Seagram Murals danno poi l’occasione per sviscerare due concetti fondamentali della sua poetica: in primis l’odio di Rothko per la società, tanto che alla fine dopo lunga diatriba, restituisce l’assegno pur di non concedere i propri lavori per trasformarli in mero arredamento per gente ricca; in secondo luogo, l’amore odio per il colore ‘rosso’.
“E il rosso! E il rosso! E il rosso! Nemmeno so cosa vuol dire! Cosa vuol dire ‘rosso’, per me? Intendi scarlatto? Intendi cremisi? Intendi prugna-gelso-magenta-borgogna-salmone-carminio-corniola? Che cos’è ‘rosso’?!” (John Logan, Rosso)
Il rosso è il colore del sangue e della forza, è il colore della rabbia e dell’amore. È il colore che per eccellenza rappresenta la vita. Il colore con il quale Rothko si è creato uno scudo, dal mondo e da se stesso, per sovrastare le sue paure, di morire e di essere dimenticato, attraverso la vittoria del colore nero: “Di una cosa sola al mondo io ho paura, che un giorno il nero inghiotta il rosso”.
Quella di Rothko è un’arte consapevolmente inquieta e inquietante. Ogni pennellata è una tragedia, espressione del vitale per vanificare la morte. Ogni quadro diventa opera teatrale. E il nesso tra pittura e teatro diventa ancora più chiaro quando Rothko spiegava che i quadri piccolo “sono come romanzi, quelli grandi somigliano invece a drammi teatrali in cui si partecipa direttamente”. Non solo oggetti, ma esseri con i quali parlare e che, se si sa ascoltare, rispondono.
Giulia Alonzo
In scena dal 10 maggio 2016
Teatro India
ROSSO
di John Logan
traduzione di Matteo Colombo
regia di Francesco Frongia
con Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña
luci di Nando Frigerio
produzione Teatro dell’Elfo